Capitolo 1. Alfabetizzazione e istruzione elementare: un excursus storico e storiografico tra l’Europa, l’Italia e la
9. Il periodo post-unitario.
I diversi provvedimenti di riforma e riorganizzazione del sistema scolastico del Regno di Sardegna culminarono, come si è detto, nella legge che prese il nome dal ministro della pubblica istruzione sotto cui venne redatta, il conte Gabrio Casati. Approvata nel 1859 in occasione dei pieni poteri concessi al sovrano durante la guerra all’Austria ed estesa progressivamente al resto della penisola, da un lato essa attingeva al patrimonio di norme e progetti elaborati durante il decennio precedente, ed era quindi strutturata sulle necessità e le caratteristiche della società piemontese, dall’altro si apprestava a divenire il testo su cui si sarebbe imperniato l’intero sistema scolastico nazionale, almeno fino alla riforma Gentile99. L’istruzione elementare, continuava ad essere distinta in due gradi (inferiore e superiore) ciascuno di due anni, come nella legge Boncompagni. La “grossa novità”100 consisteva nell’introduzione dell’obbligo per i padri di famiglia di provvedere ad un’istruzione equivalente a quella della scuola elementare inferiore per i figli di entrambi i sessi101. Non si trattava, come si vede, di un obbligo scolastico propriamente detto, visto che nessuno era obbligato ad inviare i figli a scuola. Chi non era in grado di procacciare un tale grado di istruzione per i figli con i
99 Per una serie di complicate vicende amministrative, relative al periodo dell’unificazione statuale della
penisola, tale legge non venne in realtà promulgata in tutte le regioni. Tuttavia essa costituì la base dell’intero sistema scolastico italiano, non solo perché i regolamenti con cui i diversi ministri governavano facevano sempre riferimento alla Casati, ma anche perché le riforme successive (come la Coppino del 1877) rimandavano esplicitamente alla legge del 1859.
100 Si trattava di una novità se si fa eccezione per i territori governati dall’Austria e per il periodo della
dominazione francese, come si evince dai paragrafi precedenti.
101 L’età scolare si estendeva però sino ai dodici anni di età, dal momento che il legislatore prevedeva che
non necessariamente il bambino sarebbe riuscito a conseguire in due anni le nozioni previste da un corso di durata biennale, secondo quella scansione dei tempi scolastici, tipica di una società in cui non si è ancora realizzata una scolarizzazione di massa, che Dario Ragazzini ha definito degli “anni pluriennali” (Ragazzini D., 1997, p. 40).
propri mezzi, poteva inviarli gratuitamente nelle scuole elementari che i comuni erano tenuti ad aprire e finanziare, secondo modalità diverse dipendenti dalla loro dimensione e dalla loro collocazione territoriale.
Si deve subito osservare che tale novità, come è stato più volte sottolineato, era più nominale che reale, dal momento che la legge non stabiliva nessuna specifica misura coercitiva né sanzionatoria per chi la eludeva, rimandando genericamente alla legislazione penale ordinaria, che non prevedeva nulla in proposito. Per lungo tempo, probabilmente fino al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, la storia della legislazione italiana sull’obbligo scolastico sarà in effetti caratterizzata da una latente schizofrenia, consistente nel fatto che alle affermazioni di principio non seguivano, in maniera per certi aspetti clamorosa, le misure atte a realizzarle, o per mancanza di mezzi o per malcelata paura di dare applicazione a quegli stessi principi.
Si riproponeva, in misura forse più plateale nel caso italiano, quell’ambiguità rilevata all’inizio di questo capitolo nell’atteggiamento della classe dirigente europea nei confronti dell’istruzione popolare. Se per un verso infatti era nettamente avvertita l’esigenza di promuovere nelle classi subalterne l’adozione di strumenti culturali e linguistici che permettessero loro di entrare in contatto con il nuovo Stato, recepirne le norme e assumerne i valori, era per contro abbastanza esplicita la paura di dotare quelle stesse classi popolari di strumenti critici che avrebbero potuto minare la stabilità sociale della nuova formazione politico-statuale.
Per altro, la necessità di costruire un sistema di istruzione popolare pubblico era percepita con molta minore urgenza rispetto a quella di provvedere alla formazione della classe dirigente italiana, attraverso i canali di istruzione classica e universitaria, come si evince dalla stessa ripartizione degli oneri finanziari per i diversi gradi di istruzione tra stato ed enti locali, prevista dalla Casati. Mentre l’istruzione universitaria era infatti interamente a carico dello stato, quella secondaria era ripartita tra stato, provincie e comuni e quella primaria era quasi totalmente addossata ai comuni.
Tale scelta si giustificava dal punto di vista teorico come prosecuzione della prassi comunemente in uso sia negli stati pre-unitari, sia in molti paesi europei, di affidare l’istruzione primaria ai municipi, in quanto anello istituzionale di congiunzione tra lo stato e le famiglie102. In realtà non era estranea agli uomini di governo italiani la
consapevolezza di affidare un compito assai difficile e, almeno a parole rivestito di importanza cruciale (quello di “fare gli Italiani”), ad istituzioni notoriamente deboli dal punto di vista finanziario, anche perché gravate dalle esigenze di risanamento del bilancio dello stesso stato unitario, oltreché dominate da élites locali che molto spesso rivelavano un notevole disinteresse, se non un’esplicita ostilità, nei confronti dell’istruzione popolare103. La Casati introduceva quindi nel sistema scolastico una intrinseca incongruenza dovuta al fatto di “essere una legge normativamente centralistica che nel contempo assegnava agli enti comunali il carico totale della gestione e della crescita del sistema scolastico primario”104.
La scuola elementare italiana nacque dunque sulla base di queste profonde contraddizioni, aggravate dal “caos” amministrativo derivante dal fatto che in molti territori la Casati venne estesa solo parzialmente o non venne estesa affatto105. “In mancanza di un telaio legislativo unificante, (furono) affidati all’amministrazione e ai suoi funzionari i compiti di unificare esperienze e realtà diverse ‘come se’ vigesse un’unica legge e secondo lo spirito governativo centrale”106.
Fu compito del ministro Coppino provvedere alla stesura di un testo che unificasse legislativamente il sistema scolastico della penisola. La legge fu promulgata nel 1877, ed ebbe come scopo principale quello di rendere effettive le normative sull’obbligo scolastico. Il censimento del 1871, in effetti, aveva restituito un quadro della diffusione dell’alfabetizzazione in Italia assai desolante (vedi tabella 1.2): i progressi erano stati
103 Cfr. Ferrari F., 1979.
104 Bonetta G., 1981, p. 62. Dal punto di vista teorico, in effetti, sia la Casati sia i provvedimenti dei
successivi ministri della pubblica istruzione furono improntati ad un deciso centralismo, per ciò che aveva attinenza ai programmi, alla didattica, alla formazione degli insegnanti, agli aspetti burocratici. Tale centralismo era giustificato dalla necessità di colmare gli squilibri esistenti tra le varie regioni e di non lasciare in mano alle élites locali, né tantomeno alla chiesa cattolica, la costruzione della scuola primaria (su questi punti si veda per esempio Talamo G., 1982, pp. 97-112, e De Fort E., 1996, p. 88). Nei fatti, però, la completa gestione e il finanziamento delle scuole era in mano ai comuni, ai quali erano dunque lasciate, in ultima analisi, le decisioni sulla crescita effettiva del sistema scolastico elementare.
105 La legge fu promulgata nelle Marche e in Umbria, limitatamente ai titoli sull’istruzione tecnica e
elementare; in Sicilia, con alcune modifiche. Nel napoletano furono approvati tre decreti che si plasmavano sulla Casati. Nelle provincie emiliane i decreti del governo provvisorio ne riproducevano le grandi linee. In Toscana, dove la classe dirigente era esplicitamente contraria alla centralizzazione e statalizzazione dell’istruzione popolare (cfr. Raicich M., 1981), fu invece approvata una legge dai contenuti più simili a quella granducale del 1852 che alla Casati. Si vedano Talamo G., 1960 e De Fort E., 1996, oltreché per alcuni singoli stati: Bonetta G., 1981 per la Sicilia; Pivato S., 1983 per la Romagna.
molto contenuti e, ciò che appariva ancor più grave a molti osservatori107, il divario tra le regioni settentrionali e quelle meridionali si era accresciuto, anziché essersi ridotto.
Tabella 1.2. Tasso di analfabetismo della popolazione italiana con sei o più anni di età, per regioni, ai censimenti del 1861 e del 1871 (%).
Censimento del 1861 Censimento del 1871
Regioni Maschi Femmine Totale Maschi Femmine Totale
Piemonte 42 62 52 34 51 42 Liguria 58 76 67 49 64 56 Lombardia 48 60 54 41 50 45 Veneto 54 76 65 Emilia 74 84 78 67 77 72 Toscana 69 82 75 62 75 68 Marche 77 88 83 73 85 79 Umbria 79 90 84 74 86 80 Lazio 62 74 68 Abruzzi 81 95 88 76 93 85 Campania 74 90 84 73 87 80 Puglie 82 93 87 79 90 84 Basilicata 84 96 90 81 95 88 Calabria 82 97 89 79 95 87 Sicilia 84 94 89 79 91 85 Sardegna 85 95 90 81 92 86 Regno 69 82 75 62 76 69
Fonte: per il censimento del 1861 Vigo G., 1993, p. 50; per il censimento del 1871, Zamagni
V., 1993, p. 15.
La legge del 1877 faceva parte di un insieme di provvedimenti presi dal ministro Coppino a partire dal 1876108 che, tuttavia, contenevano ben poche misure che potessero
107 Fu proprio durante gli anni ’70 del 1800 che andò crescendo un dibattito sui motivi che avevano
impedito la diffusione dell’alfabetizzazione e della scolarizzazione in molte parti del Paese. A partire da un articolo di Pasquale Villari (“La scuola e la questione sociale in Italia”, in Nuova Antologia del 1° novembre 1872), storico e uomo politico che si occupò attivamente di istruzione elementare, fino a ricoprire la carica di ministro della Pubblica Istruzione tra il 1891 e il 1892, i problemi dell’analfabetismo e dell’evasione scolastica vennero da molti associati alle miserrime condizioni di vita di gran parte della popolazione italiana, e in special modo della popolazione rurale del Mezzogiorno. L’evasione scolastica e la mancata applicazione dell’obbligo vennero così letti come parte della più vasta “questione sociale”, che spesso veniva identificata con la “questione meridionale”.
108 Secondo la legge 3250/1876, lo stato oltre a farsi carico di un decimo degli stipendi sulla base del
minimo legale, veniva incontro ai comuni più piccoli, stabilendo sussidi per i comuni con meno di 1000 abitanti che avessero raggiunto la quota massima nella sovraimposta fondiaria; la legge 3968/1877
concretamente contribuire a modificare quello stato di cose, giacché lasciavano sostanzialmente inalterato il rapporto tra stato e comuni nella gestione e nel finanziamento delle scuole elementari, eccettuati alcuni piccoli contributi per gli stipendi del personale insegnante ed alcune facilitazioni nell’accesso ai mutui per l’edilizia scolastica. Anzi, si constatò amaramente alcuni anni dopo che tali misure avevano semmai accresciuto anziché aiutato a colmare gli squilibri, dato che, a causa delle procedure burocratiche con cui i sussidi erano assegnati, risultavano favoriti i comuni che già autonomamente avevano fatto di più per l’istruzione popolare109. Quanto al contenuto della legge sull’obbligo, essa unificava la normativa sul territorio nazionale110, si proponeva di introdurre misure più concrete per la sua applicazione e allo stesso tempo di creare un sistema flessibile grazie al quale i singoli comuni avrebbero potuto proclamare l’obbligo quando avessero raggiunto una sufficiente dotazione di strutture scolastiche. Essa infatti, oltre ad indicare una serie di misure coercitive ed ammende contro chi evadeva (per altro secondo una procedura alquanto complicata, art. 3), prevedeva che l’obbligo fosse proclamato quando i comuni avessero raggiunto una certa proporzione tra numero di insegnanti e popolazione111.
Questa norma, come molte tra quelle che riguardavano l’istruzione popolare, aveva un doppia faccia. Da un lato essa riconosceva realisticamente la difficoltà di fronte a cui si trovavano i comuni nel provvedere ad un servizio universale sulla base di capacità finanziarie generalmente molto ristrette. Dall’altro essa esplicitava la rassegnazione dello stato nel poter intervenire per certi versi solo da lontano nell’istruzione del popolo; la minuziosa specificazione dei programmi scolastici, dei calendari, degli obblighi degli insegnanti, dei doveri dei genitori e degli alunni, delle ispezioni e dei controlli a cui tutti dovevano essere sottoposti, non riuscivano infatti in nessun modo ad incidere sostanzialmente su quelle che erano le reali difficoltà materiali delle scuole italiane: la
modificava le normative sull’obbligo scolastico; la legge 4460/1878 tentò infine di aiutare i comuni nell’edilizia scolastica, attraverso mutui agevolati presso la Cassa Depositi e Prestiti.
109 Cfr. Ferrari F., 1979, p. 58.
110 Si deve infatti ulteriormente sottolineare che nonostante le rivendicazioni del governo centrale, basate
sull’assunto giuridico che, poiché ogni atto ministeriale e legislativo (postunitario) presupponeva la (preunitaria) legge Casati, era come se essa fosse stata estesa a tutti i territori, sul rigore di questa argomentazione era lecito qualche dubbio e i contenziosi amministrativi con i comuni che si ritenevano sottoposti a norme alternative non erano rari (cfr. Ragazzini D., in Angelini S.Q., 1998)
111 Nei comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, l’obbligo doveva essere proclamato quando c’era almeno un
insegnante di grado inferiore per ogni 1.000 abitanti; in quelli di popolazione da 5.000 a 20.000 abitanti, quando c’era un insegnante per ogni 1.200 abitanti; in quelli con oltre 20.000 abitanti, quando c’era un insegnante per ogni 1.500 abitanti (art.9).
mancanza di insegnanti qualificati, di aule adeguate, di materiale scolastico. A tutto ciò dovevano provvedere i comuni, sui quali le capacità di intervento del governo centrale erano assai limitate. Non per nulla il gradualismo previsto dalla Coppino comportò per alcuni comuni un ritardo nell’introduzione dell’obbligo di 10 anni o più.
L’inchiesta condotta da Girolamo Buonazia sull’attuazione della Coppino rivelò che nell’anno scolastico 1876-77 circa l’81% dei comuni italiani erano in grado di proclamare l’obbligo112. Oltre alla prevedibile constatazione delle differenti condizioni delle regioni settentrionali rispetto a quelle meridionali, attribuita in larga misura al noto squilibrio nelle risorse disponibili, Buonazia si soffermava, però, con toni amareggiati sui ritardi di alcuni territori dell’Italia centrale, e in modo particolare della Toscana, dove alcuni tra i comuni più floridi della penisola facevano ben poco per l’istruzione popolare. Tutto ciò dimostrava che non sempre le decisioni dei comuni in materia scolastica dipendevano interamente da vincoli di tipo finanziario e che lasciare la gestione dell’istruzione primaria in mano agli enti locali significava esporsi al rischio di vederla governata secondo interessi e linee politiche che potevano non coincidere con quelle del governo centrale.
Tra gli ultimi decenni del 1800 e i primi del 1900 gli squilibri nella scolarizzazione e nell’alfabetizzazione, determinati dalla gestione a livello locale delle scuole elementari, sollecitarono una serie sempre più numerosa di interventi da parte dello stato, finalizzati a ridurre almeno parzialmente, attraverso contributi diretti del governo centrale, i divari tra i comuni più ricchi e quelli più poveri. Questo genere di interventi, che pur aumentando il carico finanziario dello stato per l’istruzione primaria lasciavano tuttavia formalmente inalterata la ripartizione delle competenze tra stato ed enti locali nell’istruzione, culminarono nella legge n. 407 del 1904, che prevedeva l’assunzione da parte dello stato dei nuovi oneri derivanti dall’aumento di stipendio concesso ai maestri, e nella legge n. 383 del 1906, che interveniva invece specificamente a favore delle regioni meridionali, riservando di fatto al governo centrale il carico maggiore derivante dall’apertura di nuove scuole e lasciando ai comuni solo oneri residuali113. La legge del 1904, denominata Orlando dal nome del ministro che la promosse e sotto il quale venne approvata, interveniva inoltre anche sulla durata dell’obbligo scolastico, che veniva
112 Girolamo Buonazia, SULL’OBBLIGO DELLA ISTRUZIONE ELEMENTARE NEL REGNO D’ITALIA.
ATTUAZIONE DELLA LEGGE 15 LUGLIO 1877, Roma, Tipografia Eredi Botta, 1877.
elevata fino al dodicesimo anno di età, adeguando, almeno apparentemente, la legislazione italiana a quella di molti paesi europei114. Si trattava anche in questo caso in buona parte solo di apparenza, dal momento che l’obbligo era limitato al corso elementare inferiore nei comuni dove mancasse quello superiore, cosa che accadeva nella maggior parte dei casi, visto che nelle scuole rurali le classi arrivavano di norma fino alla terza elementare.
Che però questo genere di interventi parziali riuscissero a produrre ben pochi risultati in larghe parti della penisola e che soprattutto non fossero in grado di ridurre il gap esistente tra l’Italia settentrionale e quella meridionale, lo dimostravano ancora una volta i dati dei censimenti sull’alfabetizzazione della penisola (il confronto tra i dati di quattro successive rilevazioni censuarie rivelava che le differenze nel tasso di alfabetismo tra nord e sud erano ancora una volta aumentate anziché ridursi, come si può osservare dalla tabella 1.3) nonché l’inchiesta condotta nel 1907 dal Direttore generale per l’istruzione primaria e polare, Camillo Corradini. Si trattava di un’indagine a tappeto su tutti i comuni della penisola che aveva come scopo quello di mettere in luce quali fossero i problemi che maggiormente affliggevano la scuola italiana e soprattutto quello di suggerire rimedi che una volta per tutte fossero in grado di risolverli. Ebbene, questa era la situazione presentata sinteticamente da Corradini nella sua relazione iniziale115:
L’analfabetismo nel 1901 era diffuso tra il 48,5% della popolazione, con punte del 70,9% in Sicilia, del 75,4% in Basilicata e del 78,7% in Calabria.
Gran parte dei cittadini e dei comuni risultavano ancora inadempienti rispetto alle norme sull’obbligo scolastico.
114 Così si esprimeva il ministro Orlando in occasione dei dibattiti relativi alla legge “In tutti gli stati
dell’impero germanico l’istruzione primaria obbligatoria dura da sette a otto ed anche a nove anni. […] In Inghilterra i ragazzi sono di norma istruiti fino ai quattordici anni di età; in Austria l’istruzione obbligatoria dura otto anni. In Ungheria sei, in Danimarca sei ed anche sette anni, […] e per leggi recenti in Olanda cinque e sei anni, in Rumenia sette, in Bulgaria sei, in Portogallo sei!” Provvedimenti per la
scuola e pei maestri elementari, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Documenti, leg. XXI, sess.
1902-1904, n. 465, cit. in De Fort E., 1996, p. 218.
115 MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, DIREZIONE GENERALE DELL’ISTRUZIONE PRIMARIA E
POPOLARE, “L’ISTRUZIONEPRIMARIA E POPOLARE INITALIA,CON SPECIALERIGUARDO
ALL’ANNO SCOLASTICO 1907-08, RELAZIONE PRESENTATA A S.E. IL MINISTRO DELLA PUBBLICA
ISTRUZIONE DAL DIRETTORE GENERALE PER LA ISTRUZIONE PRIMARIA E POPOLARE DOTT. CAMILLO
L’atteggiamento di molte amministrazioni locali nei confronti dell’istruzione popolare si caratterizzava innanzitutto per l’inerzia, dovuta a motivazioni di ordine politico o, più spesso, finanziario.
Oltre i due terzi dei locali scolastici risultavano inadatti, incapaci e antigienici. Le istituzioni sussidiarie (come l’assistenza scolastica) erano rare e deboli. Le istituzioni complementari (come le biblioteche scolastiche o popolari) erano
praticamente inesistenti.
Tabella 1.3. Tasso di alfabetismo nell’Italia nordoccidentale e nell’Italia meridionale tra la popolazione con più di 12 anni di età. 1861-1901 (%).
Italia nord
occidentale Italia meridionale Differenza 1861 Maschi Femmine 56 39 23 8 33 31 Totale 48 15 33 1871 Maschi Femmine 63 49 25 9 38 40 Totale 56 17 39 1881 Maschi Femmine 71 58 30 12 41 46 Totale 64 21 43 1901 Maschi Femmine 82 76 36 22 46 54 Totale 79 29 50 Fonte: Vigo G., 1993, p. 51.
La soluzione a problemi di tale portata veniva senza alcun dubbio individuata da Corradini nell’assunzione da parte dello stato della gestione e del finanziamento diretto delle scuole elementari, cosa che avrebbe quanto meno messo fine ad uno dei paradossi, causa di molte inefficienze, della legislazione italiana sull’obbligo, ovvero al fatto che l’istituzione che doveva vigilare sull’adempimento dell’obbligo, il comune, era anche quella che avrebbe dovuto sopportare l’aumentato carico finanziario derivato dall’applicazione della legge. Nelle parole di Corradini:
“La legge delinea […] un sistema, in cui all’amministrazione comunale è attribuito l’onere dei servizi e al sindaco un potere di vigilanza sugli obblighi individuali, l’adempimento scrupoloso de’ quali si risolverebbe, naturalmente, in un aggravio maggiore dell’onere comunale”116.
Dal momento che, poi, tutte le statistiche mostravano una correlazione positiva assai significativa tra la capacità di spesa dei comuni, la diffusione delle scuole sul territorio e il tasso di alfabetizzazione117, secondo Corradini il problema e la sua soluzione si enunciavano, nelle loro linee essenziali, nel seguente modo:
“Se possa essere affidato agli enti locali e, quindi, svolgersi o contrarsi, per così dire, proporzionalmente alla loro potenzialità economica un servizio pubblico di carattere generale, come quello della istruzione obbligatoria. [...] E la risposta non potrebbe essere che in senso negativo, risultando dalle cifre raccolte questa duplice constatazione: che l’analfabetismo è sempre in ragione inversa alla spesa sostenuta per la istruzione e che la spesa trova sempre un limite, che non le è consentito oltrepassare, nella potenzialità economica dei bilanci comunali: potenzialità che ormai, nel grandissimo numero dei casi, non fa sperare di poter sostenere oneri maggiori”118.
La posizione di Corradini non rimase isolata sul finire del primo decennio del 1900, quando il dibattito sulla statalizzazione della scuola coinvolse non solo le forze politiche rappresentate in parlamento, ma anche i comuni, le associazioni degli insegnanti, la chiesa cattolica119. La risposta legislativa arrivò sotto il mandato di due successivi ministri della Pubblica Istruzione, Edoardo Daneo e Luigi Credaro. La legge n. 487 del 1911 che da loro prese il nome risolveva la questione del rapporto stato – comuni a favore dell’avocazione, che tuttavia non fu totale: lo stato assumeva infatti l’amministrazione delle scuole elementari di tutti i comuni, attraverso il Consiglio