• Non ci sono risultati.

Prato: il territorio, la popolazione, l’economia alla vigilia dell’Unità italiana.

Capitolo 2. Scuola e alfabeto nel periodo preunitario: un desolante deserto.

1. Prato: il territorio, la popolazione, l’economia alla vigilia dell’Unità italiana.

La comunità pratese si trova a circa 19 chilometri da Firenze. Nel 1841, con i suoi 30.000 abitanti, risultava il sesto centro del Granducato per dimensione della popolazione dopo Firenze, Livorno, Pisa, Arezzo e Pistoia. Il suo territorio, che si estendeva per un raggio di circa 180 chilometri quadrati, era caratterizzato da una netta suddivisione tra una parte settentrionale, collinare e montuosa, ed una parte meridionale pianeggiante, entrambe attraversate dal corso del fiume Bisenzio, diramato in canali e gore che correvano per quasi tutta la sua superficie. Al centro, e quasi ai piedi delle colline della Calvana, si trovava la città di Prato, in cui risiedeva circa un terzo di tutta la popolazione della comunità. Il resto abitava in larga maggioranza la zona di pianura, un’area tra le più fertili e popolate dell’intera Toscana1, percorsa da un elevato numero di strade rotabili che conducevano alla città, e cosparsa di molte borgate, ville, case rurali e fabbriche idrauliche. La zona collinare, ed in particolare quella nordorientale, alla sinistra del Bisenzio, presentava un panorama decisamente diverso: difficili le comunicazioni, poche le abitazioni e per lo più sparse. Ancora differente era la situazione sulla collina destra, dove non mancavano grossi borghi, come Vaiano e Figline, che arrivavano a contare quasi mille abitanti.

Prato ha attratto su di sé l’attenzione di molti studiosi negli ultimi decenni, come si è accennato nel capitolo precedente, in primo luogo per i caratteri peculiari del suo

1 La densità della popolazione del territorio pratese nel 1845, pari a 688 abitanti per miglio quadrato, era

sviluppo economico, che traeva le sue origini da una vocazione manifatturiera ampiamente riconosciuta da molti osservatori fin dall’epoca granducale2, e che sfocerà, nel XX secolo, in quella rete di piccole e medie imprese, indipendenti ma connesse tra loro perché specializzate in diverse fasi di una produzione mono-orientata, che è stata definita “distretto industriale”3. Si trattava di una vocazione piuttosto rara in una regione come la Toscana, la cui economia era strettamente legata ad un’agricoltura condotta con metodi assolutamente tradizionali e fondata su una larga prevalenza dell’ordinamento mezzadrile. La stessa classe dirigente toscana era composta in maniera pressoché esclusiva di proprietari terrieri4 e la politica granducale era complessivamente tesa a favorire i loro interessi e a rafforzare l’orientamento agricolo dell’economia toscana, anche attraverso la decisa inclinazione verso un liberismo che certo non aiutava lo sviluppo della manifattura, sottoposta come era quest’ultima alla concorrenza delle aree più dinamiche del nord Europa. Tanto è vero che i tentativi di avviare nel pratese attività industriali “all’inglese”, come la filatura meccanizzata del cotone, non ebbero un grande successo nei primi decenni del XIX secolo5. Tuttavia la propensione manifatturiera della comunità non ne risultò compromessa, come dimostra la larga espansione della lavorazione della paglia, ed in particolare delle trecce per i cappelli, e la grande produzione di berretti di lana alla levantina, durante gli anni della dominazione francese e poi soprattutto negli anni ’20 del 18006. Le due attività trovavano uno sbocco soprattutto nei mercati esteri, quella della paglia in Inghilterra, Francia e Nord America, quella dei berretti di lana nel Mediterraneo meridionale. Quest’ultima era stata avviata

2 Risale al 1841 la definizione di Prato come la “Manchester del Granducato” coniata da Emanuele

Repetti, autore di un noto dizionario storico della Toscana (Repetti E., Dizionario geografico fisico

storico della Toscana, Firenze, 1841).

3 Secondo la definizione datane da Beccatini, uno dei suoi principali artefici, per distretto industriale si

deve intendere “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali”, dove per popolazione di imprese si intende non una molteplicità accidentale, bensì un insieme di imprese in cui si realizza una particolare divisione del lavoro, che “non si diluisce nel mercato generale, né si concentra in una o poche imprese”, di modo che ciascuna impresa è allo stesso tempo autonoma, ma anche parte dell’ingranaggio del distretto (Becattini G., 1991, pp. 52-54).

4 Cfr. Mori G., 1988, p. 1422.

5 In particolare fu l’imprenditore pratese Giovan Battista Mazzoni, dopo un corso di scienze applicate

all’industria seguito a Parigi, a tentare la via della produzione meccanizzata di fibre di cotone, attraverso l’impianto, nel 1820, della prima officina per la costruzione di macchine per l’industria tessile. Il fallimento del tentativo “cotoniero” indusse lui e suoi discendenti, in particolare Rodolfo, a convertire le macchine per il cotone in macchine per la lavorazione della lana. Cfr. Ceccuti C., 1980, p. 147 e Mori G., 1988, p. 1432.

6 Secondo le cifre fornite da Repetti nel 1841 e riportate da Lungonelli (1988, p. 10) a Prato si

producevano più di 64.000 dozzine di berretti, e dai 20.000 ai 36.000 cappelli di paglia. Sulla diffusione della manifattura della paglia nella Toscana mezzadrile si veda Pescarolo A. e Ravenni G.B., 1991.

già alla fine del XVIII da due imprenditori, un livornese, Vincenzo Mazzoni, e un pratese, Giovacchino Pacchiani, ed aveva riscosso subito un immediato successo: nell’ultimo decennio del ‘700 le esportazioni di berretti rossi ad uso di Levante avevano raggiunto circa le 18.000 dozzine per un valore di mezzo milione di lire toscane all’anno, oltre la metà del valore della produzione tessile totale di Prato7. La produzione e le esportazioni arrivarono al loro culmine tra gli anni ‘40 e ’50, per crollare poi verticalmente in seguito agli elevati dazi doganali imposti dalla Francia. La produzione di trecce di paglia continuò invece anche successivamente8, ed accompagnò i successivi sviluppi dell’economia pratese per tutto il XIX secolo, anche dopo che un’altra attività, quella della lana “rigenerata”, introdotta a Prato negli anni ‘50, era diventata il settore di punta. Si trattava della produzione di articoli di bassa qualità (scialli e plaids), ottenuti dalla riutilizzazione, previa cernita e sfilacciatura, degli stracci. Tali prodotti trovavano uno sbocco in quelle fette di mercato, come per esempio le colonie britanniche, che non erano occupate dalla produzione dell’Europa settentrionale, di migliore qualità, ma anche di maggior costo.

I tre tipi di attività avevano un tratto fondamentale in comune, ovvero quello di essere affidate ad una serie di piccole o anche piccolissime imprese9 che facevano largo ricorso alla mano d’opera a domicilio per diverse fasi della produzione: la filatura e la tessitura, per ciò che concerneva la lana, la manifattura delle trecce, per ciò che riguardava la paglia. Era un fenomeno che coinvolgeva tanto la città quanto la campagna, ed anzi è stato sottolineato come la penetrazione di attività manifatturiere nel mondo rurale avesse dimensioni particolarmente rilevanti nell’area pratese fin dall’epoca granducale10. Essa interessava non solo le famiglie dei braccianti o dei lavoranti a giornata, tendenzialmente più aperte ad una diversificazione delle attività all’interno del nucleo familiare, ma anche quelle dei mezzadri, normalmente

7 Mori G., 1988, p. 1428.

8 Per tutto il secolo XIX e per i primi del successivo il settore della paglia poté contare sulla maggioranza

relativa degli addetti, spesso stagionali, dell’intero settore manifatturiero (Mori G., 1988, p. 1446).

9 Si tratta di una caratteristica che rimase costante per tutto il XIX secolo ed anche per il XX, con poche

eccezioni: innanzitutto quella dello stabilimento Kössler, Mayer e C., sorto però solo alla fine del XIX secolo (nel 1888 a Coiano, una frazione poco fuori delle mura cittadine), ovunque noto come il Fabbricone, con quasi 1.000 addetti e 700 telai meccanici, nel quale si producevano esclusivamente tessuti di lana pettinata, procurandosi fuori piazza il filato necessario. Oltre al Fabbricone poche imprese potevano vantare di essere annoverate tra quelle di media o grande dimensione, tra queste l’impresa della famiglia Forti, sorta anch’essa solo sul finire del secolo, che aveva impianti tra la frazione della Briglia e dell’Isola. Cfr. Lungonelli M., 1988, e Pescarolo A., 1988.

caratterizzate da una maggiore compattezza intorno alla conduzione del podere. In quest’ultimo caso erano le donne ad essere maggiormente coinvolte nel fenomeno: stando ai dati del censimento toscano del 1841, circa il 42% delle donne delle famiglie mezzadrili svolgeva un lavoro diverso rispetto a quello del capofamiglia, e circa il 26% lavorava con le trecce di paglia (vedi tabella 2.1.). Nel complesso ben il 30% delle donne che vivevano in campagna era dedito alla lavorazione delle trecce di paglia, più del 14% si dedicava alla tessitura e quasi il 10% alla filatura.

Tabella 2.1. Lavoro a domicilio femminile in rapporto all’occupazione del capo- famiglia secondo il censimento toscano del 1841 (%).

Famiglie di N° di femmine sopra agli 11 anni di età.

Trecciaie Tessitrici Filatrici Cappellaie Altre Totale Mezzadri 479 26,7 7,9 4,6 2,9 0,4 42,5 Altri coltivatori 186 19,4 17,7 4,3 14,5 5,9 61,8 Salariati 351 43,6 12,5 17,4 10,2 2,0 85,7 Famiglie non rurali del contado 422 26,3 21,3 11,6 17,6 9,9 86,7 Totale 1.438 29,8 14,3 9,7 10,4 4,4 68,6

Fonte: Pazzagli C., 1988, p. 183. I dati si riferiscono alle parrocchie di Tavola, San Giusto,

Cafaggio e Soccorso.

Che la campagna pratese, pur essendo complessivamente dominata da una forma molto tradizionale di agricoltura mezzadrile, fosse però al contempo largamente permeata da attività commerciali, oltreché manifatturiere, lo dimostrano oltre ai dati sulla “pluriattività” anche la consistente presenza di persone che si dedicavano prevalentemente ad attività diverse da quelle agricole: i nuclei di artigiani (soprattutto calzolai, muratori, falegnami, sarti, fabbri, cavatori, fornaciari, cartai, ramai) e commercianti (bottegai, rivenditori, merciai, vetturali e barrocciai, oltreché negozianti e trafficanti grandi e piccoli) rappresentavano più di un quarto della popolazione maschile del contado.

Si trattava di un presenza massiccia di attività commerciali in uno stato al cui interno l’autoconsumo contadino connaturato alla mezzadria ne delimitava sostanzialmente le

dimensioni e l’espansione11. Non per nulla la rappresentazione più comune di Prato tra gli osservatori dell’epoca era quella di una “città industriosa”12, industriosità e operosità che interessavano tanto gli strati bassi quanto quelli elevati della società. La stessa proprietà della terra, così centrale per la stragrande maggioranza della classe dirigente toscana, era considerata sì irrinunciabile e rassicurante anche da quella pratese e dai suoi esponenti di spicco, ma non l’unica e forse non la principale fonte di ricchezza e di prestigio: molti dei proprietari terrieri pratesi erano anche imprenditori manifatturieri o industriali, banchieri, commercianti.13

Il mondo rurale, così largamente permeato dalla vivacità manifatturiera e commerciale della comunità, era per altro caratterizzato, come si è accennato poco fa, dalla larghissima prevalenza dell’ordinamento mezzadrile: nel complesso del territorio i nuclei mezzadrili rappresentavano più del 73% del totale delle famiglie contadine, percentuale che arrivava al 92% nella zona collinare a sinistra del Bisenzio14. Da questo punto di vista Prato non sfuggiva all’orientamento agricolo prevalente nel Granducato. Si trattava di una mezzadria in un cui il patto colonico in uso era quello classico, che prevedeva da parte del proprietario la fornitura dell’abitazione, del lavorativo sistemato e pronto per la coltivazione, delle scorte vive e di parte di quelle morte. Il contadino, per parte sua, doveva fornire il lavoro di tutta la famiglia e una parte delle scorte. Tutti i prodotti erano divisi a metà tra il proprietario e il colono15.

Il patto colonico, come è noto, si basava anche su una logica rigidamente ancorata al lavoro contadino e all’equilibrio tra la consistenza del nucleo familiare (braccia da lavoro e bocche da sfamare) e le esigenze e le risorse del podere. Un equilibrio che rendeva le famiglie mezzadrili tendenzialmente più ampie rispetto altre famiglie del contado16 e che doveva essere tutelato ad ogni costo, anche attraverso il pesante intervento padronale nella vita privata dei coloni: nessun individuo, per esempio, poteva sposarsi senza il consenso del padrone, pena l’espulsione dal podere.

11 Per tutto il periodo pre-unitario, tra l’altro, si tenne annualmente a Prato una delle più importanti fiere

del Granducato, ovvero la fiera di settembre che costituiva un appuntamento commerciale di primaria importanza per tutto lo stato (Cfr. Soldani S., 1988).

12 Turi G., 1988, p. 1138. 13 Mori G., 1988, p. 1431 14 Pazzagli C., 1988, p. 176.

15Ivi .

16 Il numero medio dei componenti delle famiglie mezzadrile era di 7,6, rispetto ai 5,7 del complesso

La produzione era caratterizzata da un’intensa promiscuità delle colture, in cui alla netta prevalenza dei cereali, coltivati con strumenti di lavoro e metodi di rotazione assolutamente poco innovativi17, si affiancava un’ampia varietà di colture arbustive ed arboree, specie nella zona pianeggiante: dalla vite all’olivo, al gelso, ad alberi da frutto di ogni genere. I tratti profondamente tradizionali del mondo rurale pratese, non impedivano al sistema di godere comunque di una notevole vitalità, dovuta alle condizioni favorevoli in cui l’agricoltura mezzadrile si trovava ad operare, rappresentate da un lato dalla buona fertilità di gran parte dei terreni della pianura, dall’altro dalla vicinanza della città, con i suoi traffici e le sue attività manifatturiere che coinvolgevano direttamente non solo le campagne nel loro complesso, ma anche le stesse aziende mezzadrili, il cui isolamento era interrotto in una misura sconosciuta nelle aree tradizionali della mezzadria classica.

La vitalità del settore agricolo e la diffusione capillare di attività manifatturiere e commerciali, benché non dessero luogo ad una floridezza stabile del sistema economico, sempre minacciato da crisi ricorrenti e da un’incertezza di fondo per tutto il XIX secolo18, permettevano comunque alla comunità pratese di essere una delle più ricche della Toscana e di godere di “un modesto benessere da lavoro”19: a Prato era difficile trovare grosse concentrazioni di ricchezza20, ma era altrettanto poco diffusa la miseria estrema. Nel censimento del 1841 figuravano appena 15 uomini e 10 donne mendicanti e appena un centinaio di impotenti e ammalati21. Al contrario relativamente ampia era la fascia media di benessere, in gran parte dovuta proprio alla possibilità per le famiglie contadine di integrare i redditi agricoli attraverso le occupazioni

17 Pazzagli C., 1988, p. 170 e sgg.

18 Corinne Maïtte ha individuato proprio nella costante incertezza che caratterizzò lo sviluppo economico

di Prato per tutto il XIX secolo, determinata in particolar modo dalla precaria posizione di Prato nel contesto internazionale e dalla concorrenza di alcuni centri toscani che potevano disporre di mano d’opera e di materia prima a costi più bassi, come il Casentino, la ragione fondamentale delle caratteristiche più evidenti dell’industria pratese: l’orientamento verso prodotti di bassa qualità volto ad intercettare il consumo di quelle fasce meno favorite della popolazione che scoprivano lentamente e parzialmente l’economia di mercato; la piccola dimensione dell’impresa, l’elevato tasso di esternalizzazione e di turn-

over, la pluriattività imprenditoriale, l’investimento nella terra, la flessibilità della mano d’opera, il valore

della famiglia e le strategie delle alleanze, erano tutti aspetti di una razionalità adattiva dell’imprenditoria pratese, volta a contenere gli effetti congiunturali delle crisi ricorrenti e della costante incertezza del mercato (Maïtte C., 2001, p. 427)

19 Soldani S., 1988, p. 678.

20 Le più grandi proprietà terriere dell’area pratese appartenevano quasi tutte all’aristocrazia fondiaria

fiorentina (Pazzagli C., 1988, p. 152).

manifatturiere, anche stagionali o saltuarie, delle donne e dei bambini. Ad un tenore di vita complessivamente elevato corrispondeva uno stato di salute della popolazione relativamente buono: la comunità pratese fu raramente colpita dalle epidemie che interessarono invece molte comunità toscane nella prima metà dell’800 e nei secoli precedenti, con l’unica rilevante eccezione dell’epidemia di colera che afflisse la città tra il 1854 e il 1855. In questo caso il morbo colpì a Prato molto più duramente che nel resto della regione22, anche se, data l’estensione dell’epidemia, il tasso di letalità della malattia tutto sommato piuttosto basso e quindi l’elevata resistenza al colera dei pratesi confermavano un tenore di vita non disprezzabile.

Documenti correlati