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La città dolente: politica e società in un Comune sciolto per mafia

Il ruolo dei prefetti ed i Comuni sciolti per mafia

5.2 La città dolente: politica e società in un Comune sciolto per mafia

E’ il 3 maggio 1991, un particolare macabro sovrasta la scena e attira i riflettori dei media nazionali e internazionali, un evento che verrà ricordato come la strage di Taurianova, cittadina di circa 17.000 abitanti della provincia di Reggio Calabria, nella Piana di Gioia Tauro. Una delle vittime viene decapitata e la sua testa lanciata in aria per dare luogo ad un agghiacciante tiro al bersaglio di ulteriori colpi d’arma da fuoco in pieno centro cittadino. Era il segno del disprezzo che si voleva dimostrare nei confronti dei nemici in relazione alla violenza dello scontro mafioso tra clan contrapposti. I fatti riguardano direttamente il Consiglio Comunale di quella cittadina, nel quale si succedevano dimissioni e surroghe. Dagli accertamenti esperiti da parte dell’Alto Commissario per il coordinamento della lotta alla mafia, risultò una vera e propria occupazione di quella Amministrazione da parte della mafia, mentre un politico del posto, Francesco Macrì, meglio noto come “Ciccio mazzetta”, per lungo tempo sindaco e direttore dell’Azienda Sanitaria Locale, si permetteva il lusso di dichiarare pubblicamente di essere il politico calabrese che aveva “sistemato” più gente. Pertanto, su questi presupposti e vista la ferocia dell’esecuzione, il legislatore considerò straordinaria e meritevole d’intervento una mattanza purtroppo ordinaria. A distanza di poche settimane dalla strage, il 31 maggio 1991, per dar prova di una reazione energica da parte dello Stato all’aggressività mafiosa, il Consiglio dei Ministri con decretazione d’urgenza emana il decreto legge n. 164, convertito nella Legge n. 221/1991, introducendo lo scioglimento dei Consigli Comunali e Provinciali per presunte infiltrazioni mafiose. Il nome stesso del decreto, da alcuni definito decreto Taurianova, testimonia il carattere emergenziale della legislazione, che ha contraddistinto la storia altalenante di tutta la legislazione antimafia.

La norma costituisce, indubbiamente, una deroga ai principi di democraticità e di autonomia locale: deroga necessitata, però, dalla preminenza da attribuire, tra gli interessi costituzionalmente protetti, a quello relativo alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. E’, senz’altro, una norma “speciale”, che prevede misure di carattere

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straordinario per situazioni straordinarie, quali sono quelle nelle quali si delineano ipotesi di collusione, anche indiretta, degli organi elettivi con la criminalità organizzata, collusioni tali da rendere pregiudizievole, per i legittimi interessi della comunità locale, il permanere di quegli organi dimostratisi inidonei a gestire correttamente la cosa pubblica. La normativa costituisce un intervento sanzionatorio, la cui finalità è l’eliminazione di quelle situazioni in cui, a prescindere anche da ogni accertamento circa il grado di responsabilità individuale dei componenti del consesso sciolto, il governo locale viene assoggettato ad anomale interferenze che ne alterano la capacità di confermare la propria azione di legalità.

Il successivo d. l. n. 529 del 20.12.1993, convertito in legge n. 108 dell’11.01.1994, modifica ed integra la originaria previsione normativa, nel tentativo di colmare le lacune di una legislazione che, a fronte di provvedimenti straordinari di eccezionale entità, non aveva ancora previsto i necessari corrispondenti strumenti di intervento. L’inserimento delle disposizioni, riportate pressoché integralmente, nel Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, il d. lgs. n. 267 del 18.8.2000, ne elimina, formalmente, il carattere di “specialità”, ancorandole organicamente nella parte dedicata al “controllo sugli organi” (articolo 143 e seguenti), ma non diminuisce l’efficacia della norma, che si conferma tra quelle a tutela della sicurezza dell’ordine pubblico nella sua più ampia accezione recata dall’art. 159 del d. lgs. n. 112 del 31.3.1998 che, nel fare riferimento “alla sicurezza delle Istituzioni, dei cittadini e dei loro beni”, lo definisce quale “complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari su cui si regge l’ordinata civile convivenza della comunità nazionale”. Se il concetto di ordine pubblico è ancorato a canoni oggettivi, la sua lezione è causa di provvedimenti straordinari, giustificati dall’obiettivo fondamentale dell’azione dello Stato che è quello di garantire la sussistenza delle condizioni di convivenza civile.

La norma non si propone di reprimere condotte criminose, in quanto non collegata a modelli penalistici, ma persegue l’obiettivo di tutelare il diritto della collettività allo svolgimento democratico della vita amministrativa e di garantire il pieno dispiegamento dell’autonomia dell’Ente locale. Se l’intervento sostitutivo da essa previsto è indubbiamente “sanzionatorio”, la sua ratio è caratterizzata da aspetti di prevenzione sociale a difesa delle comunità locali e, pertanto, essa è correttamente inserita nell’alveo strutturale del Testo Unico. Il rispetto del principio di leale collaborazione, inteso nel suo senso più pieno e lato di “dovere” da esercitare nei confronti della collettività locale,

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impone, quando ricorrano quelle condizioni, l’intervento inteso a recuperare, ripristinare, appunto, la legalità violata.

In questo quadro, dal 1990 ad oggi, vanno considerati gli oltre cinquecento commissariamenti degli enti locali e la rimozione dai loro incarichi di un numero all’incirca identico di amministratori pubblici. Era ed è, perché il fenomeno, seppur in misura ridotta, è ancora attuale, un grande impegno per assicurare la tenuta del quadro istituzionale locale e il ritorno alla legalità in un momento storico, particolarmente importante e difficile, caratterizzato dal passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario nonché dal dissolvimento e dalla trasformazione delle forze politiche già esistenti e dalla nascita e dalla affermazione di nuovi movimenti e partiti.

Nello stesso arco temporale, tra gli enti locali commissariati, fondamentalmente per insanabili crisi amministrative connesse a gravi problemi giudiziari o di ordine pubblico, vi furono quasi tutte le grandi città e provincie tra cui: Roma, Milano, Torino, Venezia, Genova, Napoli, Caserta, Salerno, Bari, Reggio Calabria, Catania e Palermo. A questi vanno, poi, aggiunti oltre cento commissariamenti dei comuni per assicurare il ritorno alla legalità di apparati pubblici piegati agli interessi e ai favori delle famiglie mafiose.

Si tratta di una patologia, purtroppo ormai diffusa anche in aree non meridionali, nei cui confronti non vi può essere alcuna tolleranza in quanto la infiltrazione e il condizionamento della criminalità organizzata rappresentano il pieno e totale dispregio della legge e delle libertà della società civile, affiancando al malgoverno l’intimidazione e l’abuso. In tutti questi casi, i commissari inviati dai prefetti hanno il triplice compito di riorganizzare le attività degli enti locali, di favorire la ripresa del dialogo politico e di agevolare le istanze della società civile proprio per ricostituire il patto sociale. Anzi proprio quest’ultimo aspetto è uno degli obiettivi fissati esplicitamente dalla legge (art.15-bis della legge n. 55 del 15 marzo 1990) per i commissariamenti dovuti all’azione di contrasto alla criminalità organizzata, facendo assumere alla misura di rigore il presupposto necessario per procedere al risanamento e dunque non solo repressione, come avviene negli altri casi della lotta ai poteri criminali.

In Italia sono stati sciolti numerosi Consigli Comunali, dei quali, la maggior parte in Calabria, Campania, Sicilia e Lazio ed in alcuni di essi la legge è intervenuta due o tre volte, è il caso di Niscemi (CL), Casapesenna (CE), Nola (NA), Bagheria (PA), Caccamo (PA), Melito di Porto Salvo (RC), dove, tra scioglimenti e proroghe, si giunge a un

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numero consistente di anni di completa assenza dell’amministrazione democraticamente eletta. Questo dimostra come, per certi versi, la legislazione vigente non sia completamente efficace a recidere i legami tra le organizzazioni mafiose ed esponenti del mondo politico e come lo strumento normativo non abbia sempre rappresentato un’occasione di bonifica della macchina amministrativa che, spesso, anche a Consigli Comunali sciolti, continua a garantire le stesse logiche di governo del territorio e i medesimi contatti con i boss. A conferma della gravissima situazione in alcune realtà, il Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso, nell’audizione del 7 febbraio 2007, ha affermato: “In certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi”, sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al governo e al controllo delle istituzioni repubblicane.

In un ambiente caratterizzato dalla debolezza dei partiti, dalla relativa autonomia dei gruppi politici dirigenti propensi ad operazioni trasformistiche e dalla capillare presenza della criminalità organizzata, non stupisce dunque che le amministrazioni locali risultino altamente permeabili alle pressioni mafiose. “La mafia, – afferma a questo riguardo Umberto Santino nella sua ricostruzione delle vicende relative al movimento antimafia – dalla formazione dello Stato unitario ad oggi, ha avuto un ruolo significativo nella formazione delle rappresentanze istituzionali, controllando e raccogliendo voti, partecipando direttamente o in forma mediata alle competizioni elettorali”.

Un vero e proprio far west è rappresentato dalle vicende di Nettuno, ridente cittadina balneare a pochi chilometri dalla Capitale, Comune sciolto per mafia nel 2005. Il malcostume nella gestione della cosa pubblica è cominciato il 25 maggio 2003, giorno delle elezioni amministrative, e si è interrotto nel novembre 2005 quando si è abbattuto il decreto di scioglimento del Consiglio Comunale per infiltrazioni mafiose, grazie anche alle continue denunce del Coordinamento antimafia locale. A Nettuno Cicerone soleva riposarsi amabilmente descrivendo il posto come il più quieto, fresco e piacevole. Avranno pensato lo stesso gli ‘ndranghetisti in trasferta in terra laziale, dove celebravano anche i riti di affiliazione. Nettuno è il secondo caso di scioglimento fuori dalle tradizionali regioni a presenza criminale, prima era successo a Bardonecchia (TO) nel 1995. All’inerzia dell’amministrazione e al generale e diffuso disservizio offerto ai cittadini, faceva da contraltare la tempistica con cui erano rilasciati provvedimenti autorizzativi o concessori in favore di personaggi colpiti da gravi procedimenti penali. Le collusioni tra esponenti politici e la criminalità avvenivano nel modo più semplice

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possibile, frammentando l’apparato burocratico-amministrativo ed attribuendo a persone affidabili incarichi dirigenziali di rilievo. In tal modo importanti settori amministrativi, come Finanze e Patrimonio, risultavano concentrati nelle mani di un solo dirigente su cui, tra l’altro, pesava già una serie di procedimenti penali per reati contro la Pubblica Amministrazione. E’ il settore dell’Urbanistica e dell’Edilizia ad avere destato maggiori preoccupazioni tra gli inquirenti. Il contrasto all’abusivismo si è svolto, quasi sempre, sulla base di esposti di privati cittadini, mentre l’Amministrazione continuava a rilasciare titoli concessori in aperto contrasto con il Piano Regolatore Generale, per avviare speculazioni sul prezzo dell’immobile o incrementare l’attività di imprese edili molto vicine ad esponenti della malavita locale.

Ma è tutta l’amministrazione pubblica a risultare asservita ad interessi personalistici: i servizi cimiteriali sono svolti, da molti anni, da una cooperativa in cui il rappresentante legale era un consigliere comunale in carica; i lavori di adeguamento della sala consiliare sono stati affidati, a seguito di una gara informale, ad un’impresa il cui titolare era stretto parente di un amministratore; la stazione di stoccaggio dei rifiuti urbani, nell’impossibilità di usare quella autorizzata dalla Regione per morosità nel pagamento dei servizi di smaltimento, era gestita da una ditta il cui rappresentante legale risultava avere stretti rapporti di interesse ed economici con il sindaco e la giunta; infine, un’assoluta mancanza dei criteri di imparzialità è stata riscontrata nell’erogazione di ingenti contributi verso un’associazione il cui presidente rivestiva anche la carica di assessore con delega alle politiche sociali, turismo e spettacolo; le procedure per l’ampliamento del porto turistico di Nettuno sono oggetto di irregolarità. L’anno 2008 si sono svolte le elezioni nell’auspicio che la nuova amministrazione comunale sarebbe stata rappresentata da eletti eticamente ineccepibili, per evitare che, dopo la gestione commissariale, tutto sarebbe proseguito come prima ed un particolare invito, rivolto dal prefetto di Roma Carlo Mosca, che ha chiesto ai partiti di prestare attenzione alle candidature. L’esperienza del comune laziale dimostra che nei territori ad alta densità mafiosa le amministrazioni comunali, spesso esposte al pericolo di infiltrazioni della criminalità, possono diventare esse stesse strumento di azioni illecite e veri e propri produttori di illegalità, sia sul piano della gestione concreta dei servizi sia su quello più generale di politiche pubbliche fortemente inquinate dalle mafie. Gli effetti di questa contaminazione mafiosa sono devastanti. Inefficienza, disprezzo per i diritti civili, ricerca della complicità dei cittadini attraverso l’omissione dei controlli di legalità e della

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riscossione di tasse e tributi, abusivismo, sono solo alcune delle caratteristiche degli Enti Locali raggiunti dalla mafia.

La legge n. 221 del 1991 risponde a questo pericolo, prevedendo la possibilità dello scioglimento dei Consigli Comunali e Provinciali per presunte infiltrazioni mafiose. Con il varo della normativa il legislatore ha inteso prevenire la commissione di eventuali atti illeciti, non già sanzionarli una volta avvenuti, mirando ad evitare che i gruppi mafiosi estendano le proprie reti di relazioni al campo della politica e dell’amministrazione locale. Non c’è, pertanto, bisogno che il sindaco sia arrestato, che una delibera venga annullata o che il capo dell’ufficio tecnico sia colto in flagranza di reato con una tangente in tasca. E’ il carattere presuntivo delle infiltrazioni che conta, non l’accertamento delle avvenute infiltrazioni. Pertanto, la procedura di scioglimento non prende in considerazione le responsabilità individuali di consiglieri comunali, assessori, sindaco, ma è la capacità complessiva dell’amministrazione di resistere alle pressioni dei gruppi mafiosi che conta. A volte, infatti, per giungere ad uno scioglimento, il prefetto non ha nemmeno dovuto riscontrare illeciti amministrativi, gli è bastato constatare la condizionabilità, intesa in senso ampio, dell’amministrazione locale. Il provvedimento adottato dal Governo consente di avviare il processo d’intervento qualora emergano “elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”.

Una politica regolativa, in grado di azzerare le scelte della comunità, che non ha una finalità punitiva nei confronti degli amministratori locali, quanto piuttosto preventiva intendendo evitare che l’azione amministrativa venga sviata dalla sua normale condotta. Il potere di iniziativa è devoluto al prefetto che, avuta notizia dalla magistratura o dagli organi di polizia di potenziali infiltrazioni in un Ente Locale, predispone la procedura di accesso con la quale si attua una vera e propria indagine condotta da un’apposita commissione di nomina prefettizia sull’operato dell’amministrazione, concludendosi con la stesura di una relazione. Quest’ultima viene inviata al ministro dell’Interno affinché valuti l’opportunità di giungere ad uno scioglimento, disposto il quale, il ministro provvede alla nomina di tre commissari straordinari, scelti tra i funzionari dello Stato

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provenienti dalla carriera prefettizia, cui vengono conferiti i poteri del sindaco, della giunta e del consiglio. Inizia così il periodo di commissariamento che può durare, a seconda delle circostanze, fino a trenta mesi.

La normativa non prevede che vengano inviate sul territorio unità aggiuntive delle forze dell’ordine né che vengano rafforzati gli uffici giudiziari competenti, magari con degli incentivi per il personale in questione. Altresì la legge non assicura forme di sostegno alla società civile e agli attori politici locali in vista di un superamento della condizione di infiltrabilità e di un riscatto alle successive elezioni. Pertanto, in quanto al bilancio delle risorse umane, l’investimento statale è probabilmente inadeguato alle gravi situazioni che lo Stato stesso ha certificato con uno scioglimento degli organi democratici.

Sul piano delle risorse economiche, la normativa prevede che vi siano canali privilegiati per accedere a finanziamenti pubblici sia nel periodo dello scioglimento che in quello della prima amministrazione eletta dopo il commissariamento. In realtà, per vari motivi che attengono alle capacità tecniche ed amministrative dell’Ente Locale e ai tempi necessari per progettare e realizzare interventi sociali e infrastrutturali, non sempre queste possibilità sono sufficientemente sfruttate.

Nei termini dell’analisi delle politiche pubbliche qui impiegate, lo Stato si preoccupa molto degli output da realizzare, cioè gli scioglimenti, ed in questo appare essere efficace, ma si preoccupa molto meno degli outcome della politica pubblica, vale a dire le trasformazioni effettive della realtà indotte dall’intervento statale. Letta così, la politica in oggetto raggiunge certamente l’obiettivo per il quale è stata progettata, cioè mandare a casa un’amministrazione condizionabile dalle mafie, ma ne ottiene anche altri, non previsti e non voluti, tra i quali la caduta della fiducia dei cittadini nelle istituzioni, che è uno dei requisiti essenziali per il proliferare della cultura della mafia. Pertanto, si verifica l’effetto non previsto e non voluto dalla legge: una politica che nasce per indebolire i gruppi mafiosi prepara in realtà il terreno per una loro rivitalizzazione.

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