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Il faticoso cammino verso la cultura della legalità e per un’amministrazione trasparente

Il prefetto, le istituzioni e la legalità

4.1 Il faticoso cammino verso la cultura della legalità e per un’amministrazione trasparente

La crescita della coscienza civile e il perfezionamento di alcuni degli strumenti più efficaci di contrasto alla criminalità organizzata non possono prescindere dall’evoluzione giuridico-legislativa che ha accompagnato le strategie di lotta alle mafie. Se giudicassimo in astratto le leggi varate nel corso degli anni sui temi della legalità, della trasparenza e della sicurezza non sarebbe nulla di eccezionale: misure che dovrebbero apparire normali. Eppure, per tradurre in norme dei principi elementari di giustizia e di risarcimento sociale, è stato necessario l’impegno e la costanza della società civile organizzata, di amministrazioni dello Stato e di sindaci.

“Il 1° febbraio 1893, su una carrozza ferroviaria in corsa sulla linea Termini – Palermo, viene assassinato Emanuele Notarbartolo, rampollo di una delle più eminenti famiglie aristocratiche siciliane, esponente della Destra storica, ma personaggio super partes, apprezzato unanimemente per la dirittura morale e per le capacità amministrative dimostrate quale sindaco di Palermo (1873-76) e direttore generale del Banco di Sicilia (1876-90)”14.

Impegnato in un’opera di moralizzazione della struttura finanziaria più importante dell’isola che rischiava di colpire al cuore gli interessi del sistema di potere politico – mafioso, Notarbartolo venne ucciso su commissione del deputato Palizzolo, altro uomo di spicco della classe dirigente del tempo. Questo delitto segna un salto di qualità per la mafia, che tornerà a colpire così in alto solo un secolo dopo. Infatti, quello di Notarbartolo, che può considerarsi la prima vittima esponente di una pubblica amministrazione, è il primo dei cadaveri eccellenti, nonché l’ultimo sino alla morte del Procuratore Generale Pietro Scaglione, e, quindi, dall’Unità d’Italia al 1971. Una storia antica, lunga più di un secolo. Infatti, la prima diagnosi sui tentativi di penetrazione della mafia all’interno delle amministrazioni risale all’inchiesta condotta da Leopoldo Franchetti e da Sidney Sonnino, uomini della Destra storica, pubblicata nel 1876. Al termine del loro viaggio in Sicilia, per indagare sulle condizioni politico – amministrativo –

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sociali, essi compresero, con straordinaria lucidità, che il fenomeno mafioso non era riconducibile a semplice delinquenza né a generico comportamento, ma costituiva il sottoprodotto di una forma di criminalità politica praticata da alcuni settori.

Fin dall’Ottocento è presente una resistenza politica, istituzionale e sociale, a volte più incisiva a volte più debole, al Sud come al Nord. L’impegno per l’affermazione della legalità, denso di avvenimenti e di contraddizioni, ha subito fasi alterne in cui, a momenti di forte slancio, sono seguiti periodi di riflusso, di minor vigilanza e di allentamento. Ma resta fermo che la trasparenza procedurale, l’efficienza amministrativa, la partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni, la formazione alla legalità sono forti deterrenti all’infiltrazione della criminalità organizzata.

Un tentativo di contrasto alla criminalità venne messo a segno dal prefetto di “ferro”, Cesare Mori, negli anni venti del ‘900 ed, in una linea di continuità storica, cadde sotto i colpi del fuoco mafioso, il 3 settembre 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, dopo avere arginato le brigate rosse nel nord d’Italia. "La mafia è cauta – disse il prefetto in un'intervista a Giorgio Bocca, pubblicata su Repubblica - è lenta, ti misura, ti

verifica alla lontana. Si ammazza l'uomo di potere quando si crea questa combinazione fatale. È diventato potente ma si può uccidere perchè è isolato". Quando ancora i cadaveri del

generale e della sua giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, erano in macchina, un cittadino attaccò una cartello che recitava: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Il figlio Nando ricorda l'ultima vacanza trascorsa col padre, era l'estate del 1982, e lui si sentiva un uomo in gabbia. Cercava aiuto ma nessuno più gli rispondeva al telefono.

In questo lavoro non parliamo di idee astratte ma di bisogni concreti, ricostruiamo vicende umane, incontriamo alcuni tra gli uomini, spesso sconosciuti e dimenticati, che riassumono e incarnano le aspirazioni e le lotte della parte migliore della società, dai rappresentanti delle istituzioni agli esponenti delle pubbliche amministrazioni che hanno scelto di percorrere la faticosa strada verso la libertà ed il riscatto dalla mafia. Non eroi solitari ma protagonisti di una storia che si è sviluppata dentro una sostanziale continuità, pur con grandi mutamenti intercorsi nelle varie fasi storiche, a partire dalla fase dell’inesistenza, in cui si negava l’esistenza della mafia e quei pochi che provavano ad imbastire indagini o inchieste giudiziarie si scontravano con una normativa carente e frammentaria. Bisognerà aspettare il 1982 perché la mafia entri finalmente nell’elenco ufficiale dei delitti, con l’articolo 416-bis. Uno dei tanti, troppi bis che si riscontrano nella storia della risposta istituzionale alla mafia,

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tappando un buco nella legislazione, di solito dopo un eclatante fatto di sangue. Cosa Nostra uccideva, accumulava enormi ricchezze, intrecciava rapporti con pezzi dell’amministrazione pubblica e della politica ma di essa si negava l’esistenza.

A ciò si aggiunga la crisi in cui è stata coinvolta, dal secondo dopoguerra fino ai primi anni ’90, non solo la concezione del “fare politica” ma anche quella del “fare amministrazione”. La dipendenza degli amministratori dal ceto politico senza autentici spazi di autonomia, nonostante la normativa emanata per operare una netta distinzione tra competenze politiche e competenze amministrative; la scelta dei vertici amministrativi sulla base più delle appartenenze che delle capacità; la farraginosa regolamentazione dell’attività amministrativa che in realtà ha consentito di eludere le regole; la possibile appartenenza dei funzionari amministrativi ad associazioni segrete o riservate, con giuramenti di fedeltà talvolta antitetici ai propri doveri, da una parte hanno ridotto l’imparzialità dell’azione amministrativa e dall’altra hanno vanificato i sistemi di controllo. Si è disattesa, per anni, l’osservanza dei criteri necessari per costruire un’amministrazione efficiente e trasparente. La criminalità si è spesso inserita in questi ambiti, là dove i diritti sono stati scarsamente garantiti, là dove non si è riusciti ad affermare il rispetto della legalità.

Tuttavia se l’amministrazione di una grande città può essere paragonata alla guida di un’enorme nave, per le difficoltà di manovra che presenta, per l’inerzia del suo moto direttamente proporzionale alla stazza, la pubblica amministrazione può essere paragonata ad una petroliera le cui stive sono appesantite, oltre che dalle grandi questioni sociali ed economiche realmente esistenti, dalla zavorra di stereotipi pesanti come macigni, che ostacolano qualunque percorso di cambiamento. Da anni al comando di queste navi destinate, nell’immaginario collettivo, ad una deriva di illegalità ed ingiustizia, ci sono sindaci, funzionari, uomini, i quali, appena afferrato il timone, hanno decretano un sonoro indietro tutta, prendendo di sorpresa gran parte dei passeggeri, abituati alla vecchia, per alcuni comoda e rassicurante, rotta. Qualcosa sta cambiando nella pubblica amministrazione, nei suoi impenetrabili santuari si intravede un’inversione di marcia che pone la questione della lotta alle mafie al primo punto dell’agenda delle politiche locali. Se c’è una terapia d’urto, essa avrà successo, se il timoniere riuscirà a vincere l’inerzia della grande nave, se riuscirà a superare le resistenze di quanti remano contro. E’ una storia che si sta scrivendo, la pubblica amministrazione, intanto, ci sta provando.

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“Nel variegato panorama degli enti appartenenti alla Pubblica Amministrazione, le Autonomie Locali hanno cercato di caratterizzarsi per la loro capacità di instaurare rapporti particolari con le comunità di base e con i cittadini: hanno inteso offrire l’immagine di un potere pubblico meno distante e più aperto alle esigenze, alle aspettative della società civile. Siffatta aspirazione appare coerente con la loro natura costituzionale: i Comuni e le Province sono enti comunitari, esponenziali degli interessi propri della società civile organizzata e rappresentativi degli indirizzi politici e culturali da essa espressi”15. Non è un caso se le principali esperienze partecipative sono maturate, non all’interno degli apparati dello Stato centrale e delle Regioni, ma negli Enti Locali Territoriali, i quali hanno dotato i cittadini, singoli o organizzati, di appositi strumenti giuridici e di varie opportunità istituzionali. A tal proposito appare evidente che alcune delle previsioni contenute nella legge n. 142/1990 non costituiscono novità, bensì la codificazione di esperienze amministrative già operanti ovvero di opportunità che il sistema giuridico consentiva.

Il prefetto si pone come cerniera e snodo istituzionale a garanzia della legalità innescando un circuito virtuoso tra istituzioni, pubbliche amministrazioni territoriali e cittadini nel contrasto alle mafie. Le istituzioni locali sono oggi tra i protagonisti principali nella lotta antimafia e realizzano iniziative che, peraltro, si muovono in settori non compiutamente disciplinati sul piano della legislazione nazionale. Non è un caso che nel nostro Paese assistiamo ad un fiorire di iniziative spontanee contro il diffondersi delle mafie, esperienze che dimostrano come la politica, anche quella locale, sia capace di adottare provvedimenti efficaci, muoversi con procedure trasparenti, manifestando apertamente la propria incompatibilità con il sistema di potere criminale.

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