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La legalità non è un principio comunemente condiviso

Il prefetto, le istituzioni e la legalità

4.2 La legalità non è un principio comunemente condiviso

Nella storia dell’Italia repubblicana, a differenza delle altre moderne democrazie, la legalità non è stato un valore comunemente condiviso, è stata invece terreno di scontro e di laceranti divisioni. Lo provano quattro considerazioni.

Dopo la Liberazione, i nuovi valori della Costituzione furono avversati da una parte delle forze politiche e da una considerevole parte delle alte burocrazie civili e militari, passate sostanzialmente indenni dal regime fascista allo Stato repubblicano. Essi furono considerati

15Intervento di Giancarlo Rolla, docente di diritto pubblico – Università di Siena, Autonomie locali e diritti di

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come pericolosamente sovversivi dell’ordine politico e la sua attuazione, ancora oggi parziale, fu il frutto sofferto di lotte difficili e lunghe. La Corte Costituzionale venne istituita solo nel 1956, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958.

L’Italia della seconda metà del secolo scorso, con le sue stragi, i suoi attentati ed i suoi morti, è stata la patria moderna dell’omicidio politico. Non si dispone di statistiche precise, ma si può affermare che nessun Paese avanzato al mondo ha avuto nel secondo dopoguerra un tasso di violenza politica così elevato.

Un’intera classe dirigente ha dovuto ritirarsi per effetto delle indagini sulla corruzione, molti uomini politici, che hanno assunto responsabilità di governo, appartenenti alle forze dell’ordine, sono sotto inchiesta. Anche questo è un unicum tutto italiano.

Il senso di solidarietà nazionale, desumibile dall’adempimento ai doveri fiscali, si ferma a percentuali di gran lunga più basse che negli altri Paesi.

Tali aspetti rivelano i caratteri della società italiana che non si identifica né con lo Stato né con alcuni valori nazionali, ciò dipende dal fatto che la nostra storia è una storia di comunità e di città, non di Stato e di nazione. L’Italia dovrà attendere a lungo per diventare Stato unitario. Questa condizione storica ha due conseguenze.

La prima concerne la debolezza dell’idea nazionale e della presenza dello Stato come fornitore di servizi e garante di diritti, producendo così una forma di separatezza della società dalla politica che, non poche volte, ha condotto a fenomeni di aggiustamento privatistico degli interessi individuali rifuggendo l’applicazione del principio di legalità, proprio perché la fonte di promanazione di quelle regole non ha acquistato la credibilità sufficiente a farle rispettare. La mafia si radica su questa separatezza tra società e Stato ponendosi essa stessa come garante di quei servizi che lo Stato non riesce a fornire, svolgendo una duplice funzione. E’ snodo tra società e pubblici poteri, nel senso che fa ottenere come favori ciò che spetterebbe come diritto, ed è garante degli interessi dei propri affiliati, indipendentemente dalla loro legittimità, inserendosi sui difetti e sulle mancanze dello Stato.

La seconda conseguenza consiste nel fatto che non abbiamo valori nazionali comunemente condivisi. Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza, hanno coinvolto solo una parte del Paese. Quelle che ne sono uscite sconfitte, tanto a metà dell’800 quanto un secolo dopo, hanno frenato, per ragioni diverse, la portata innovativa e nazionale di quegli eventi.

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La legalità è diventata una variabile dipendente dalla ragion di Stato. La necessità, vera o supposta, di combattere il nemico interno ha ribaltato il rapporto tra potere e legalità. Le inchieste parlamentari e giudiziarie hanno dimostrato che furono coperti gli autori delle stragi, deviate le indagini per impedire che la verità potesse essere accertata. Non sappiamo ancora se i lutti degli italiani debbano essere ascritti ad una limitata sovranità nazionale o ad una degenerazione interna. Sono rimaste l’abitudine all’impunità, le cattive prassi, le arroganze, le prepotenze, si sono intessute ragnatele di interessi personali e di gruppi, di burocrazie e di correnti politiche.

Su cosa, allora, si è costruito il primato della legalità? E qui sfogliamo le pagine dell’altra storia d’Italia, dove ha operato una grande maggioranza di uomini onesti, di qualsiasi idea politica, che ha pagato prezzi altissimi. Esiste un’altra Italia che non ha coperto né terroristi né stragisti, che non ha intessuto alcun rapporto con la mafia, che è scesa in piazza dopo gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio, che ha preferito la libertà. L’Italia degli insegnanti e dei ragazzi, del movimento sindacale, delle grandi esperienze democratiche degli Enti Locali e delle Regioni, del mondo del giornalismo serio ed impegnato a far conoscere la verità, della magistratura e di quelle forze politiche attente e corrette. Questa Italia ha frenato le collusioni e gli intrighi del potere, così la democrazia è cresciuta nonostante gli scempi e le logiche discriminatorie si sono ritirate in ambiti sempre più ristretti.

La lotta contro la mafia è un terreno essenziale per edificare la legalità. Non basta l’antimafia dei delitti, quella che si occupa della repressione, occorre anche l’antimafia dei

diritti, sulla quale attecchisce il radicamento dei valori civili e, per questa via, si costruisce il

futuro. In questa ottica è da sconfiggere la cultura della delega e dell’applauso, secondo la quale la storia la fanno gli eroi anziché essere costruita da tutti, non esistono liberatori ma cittadini che si liberano.

Va condannata la convenienza degli illeciti proliferati dalla ricorrente prassi di condoni i quali, oltre ad azzerare, quasi per intero, reati anche di grave entità, favoriscono nella collettività il convincimento, non solo di poter disobbedire impunemente alle leggi, ma di vedere premiata la furbizia e penalizzato il comportamento onesto.

Anche l’eccessiva produzione legislativa, contraddistinta da norme spesso farraginose, di difficile comprensione e, a volte incoerenti l’una con l’altra, è indicata quale motivo concorrente al depotenziamento del senso di legalità.

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Vanno seguiti alcuni principi amici, tra cui quello della responsabilità, inteso come stimolo, controllo, proposta e attuazione di una reale e non solo declamata partecipazione. Va rinvigorito lo strettissimo rapporto tra l’esercizio dei diritti e l’adempimento dei doveri, perché chi è orfano di diritti è straniero nella terra dei doveri. Occorre rafforzare la distinzione tra pubblico e privato, la mafia azzera questa divisione, perché utilizza il potere pubblico per interessi privati.

Oggi, più che mai, emerge la necessità dell’impegno. In primo luogo per le caratteristiche dei periodi di transizione. Noi siamo in una fase che ha avuto inizio nel 1978, con l’assassinio di Aldo Moro, quando si chiuse la vicenda politica che era cominciata con la Liberazione. Il tentativo di Moro di affrontare la crisi italiana attraverso una corresponsabilizzazione nella guida del Paese di tutte le forze che avevano costruito la Repubblica e approvato la Costituzione, fallì dopo il suo omicidio. Sono seguiti circa due decenni tra i più convulsi della storia repubblicana. Dopo l’ondata emotiva delle stragi del 1992 e del 1993, allo stato attuale si registra, purtroppo, un calo di tensione ideale, manca il necessario impulso di carattere politico che stabilisca priorità ed indirizzi.

Lo sviluppo della vita sociale secondo un genuino criterio di legalità esige alcuni irrinunciabili requisiti. Leggi chiare, avvertite non come normative imposte dall’alto ma come sistema di regole che vincola i cittadini con un patto che travalica gli egoismi individuali. Il passo da compiere è, dunque, quello di favorire una nuova appropriazione della legalità, mediante comportamenti intrinseci allo status di una cittadinanza che riconosce di reggersi su legami di solidarietà e su una memoria comune e condivisa. Una legalità organizzata in contrapposizione alla criminalità organizzata.

4.3 Legalità e trasparenza come indicatori di qualità e di vulnerabilità delle

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