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Concetto giuridico 1 Principi consuetudinari

Nel documento GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE (pagine 125-129)

PIATTAFORMA CONTINENTALE GRECO-TURCA

3. Concetto giuridico 1 Principi consuetudinari

Il pragmatico spirito che animava il diritto romano non aveva avuto dubbi nell’affermare che «il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico di tutto il genere umano (communis hostis omnium)» (Cicerone, De officiis, III, 107). Su queste basi giuridiche si fondò la teoria, ancora oggi in vita nell’ordinamento internazionale, secondo cui la pirateria è un crimine internazionale (crimen juris gentium). La relativa nozione di diritto consuetudinario è teorizzata con chiarezza nella seguente statuizione emanata nel 1927 dalla Corte permanente di giustizia internazionale con riguardo al caso Lotus: «[il pirata] è privo della protezione della bandiera che egli può mostrare, egli è trattato come un bandito e come un nemico del genere umano che qualsiasi nazione può catturare e punire nell’interesse di tutti…». Du-plice è dunque, a questa stregua, la natura del pirata che è a un tempo un bandito, in quanto depreda le sue vittime come qualsiasi altro predone di terraferma, ma anche «nemico del genere umano», poiché attenta alla libertà di navigazione.

La libertà dei mari non è però solo minacciata dalla pirateria ma, in certa misura, ne rappresenta essa stessa la causa. L’alto mare (v.) che era ed è tuttora il luogo di elezione della pirateria è, infatti, uno spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato. Si spiega così l’asserzione, apparentemente paradossale, del giurista cinquecentesco Alberico Gentili che «[il] pirata delinque di meno, poiché agisce nel mare che non è sottoposto ad alcuna legge». Il contrasto alla pirateria, inteso come diritto-dovere attribuito a tutti gli Stati, è divenuto nei secoli principio obbligatorio proprio per supplire alla mancanza di una specifica autorità competente ad agire per porre rimedio all’anarchia dell’alto mare. L’applicazione generalizzata di questo principio si è consolidata, a metà Ottocento, con la fine della guerra di corsa.

3.2 Regolamentazione convenzionale

Il concetto consuetudinario di pirateria così formatosi è stato recepito e codificato nella II Convenzione di Ginevra del 1958.. Esso si basa su tre elementi fondamentali senza i quali non è possibile aversi pira-teria in senso stretto, e cioè: 1) la commissione del fatto in alto mare; 2) l’uso di una nave a danno di un’altra (criterio delle due navi); 3) il fine personale di depredazione (private ends secondo la terminologia anglosassone). In anni recenti, nel corso della crisi della pirateria del Corno d’Africa di cui si dirà più avanti, si è ipotizzato un suo superamento in modo da comprendere anche la violenza esercitata nelle acque territoriali (v.) nell’ambito del concetto più generale di «armed robbery at sea» inteso come «any illegal act of violence or detention or any act of depredation, or threat thereof, other than an act of piracy, committed for private ends and direct against a ship or against persons or property on board such a ship, within a State’s in-ternal waters, archipelagic waters and territorial sea». In realtà, tale illecito marittimo — previsto nella IMO Resolution A.1025(26) related to the Code of Practice for the Investigation of the Crimes of Piracy and Armed Robbery Against Ships — non trova una base nel diritto internazionale in quanto è solo strumentale a in-dividuare una fattispecie penale punitiva. L’armed robbery, al di fuori del quadro delle risoluzioni delle NU sulla pirateria del Corno d’Africa, non è perciò una situazione che autorizza gli Stati a entrare nelle acque territoriali straniere per il suo contrasto. Resta, infatti, fermo che la competenza è esclusiva dello Stato costiero, a meno di specifica autorizzazione.

Il concetto tradizionale di pirateria è integralmente confermato dall’UNCLOS (articoli 101 e 102) che configura appunto un’attività di depredazione o di violenza compiuta in alto mare o in zone non soggette alla giurisdizione di alcuno Stato (per esempio, coste dell’Antartide), per fini privati, dall’equipaggio da una nave mercantile o aereo privato ai danni di altra nave o aereo privato (ma non da un aeromobile a danno di una nave). La nave che è sotto il controllo effettivo di persone che intendono utilizzarla o che l’hanno utilizzata per commettere uno degli atti sopra indicati è considerata nave pirata. Anche la nave pirata utilizzata come «nave madre» per assistere operativamente piccole imbarcazioni impegnate in azioni di pirateria è considerata nave pirata. Sono assimilati agli atti commessi da una nave privata quelli compiuti da una nave o aeromobile militare il cui equipaggio si sia ammutinato. Il semplice ammutina-mento non seguito dall’abbordaggio di un’altra unità non rappresenta tuttavia, di per sé, una forma di pirateria. Inoltre, non costituisce nemmeno pirateria l’uso della forza, condotto con modalità illecite, da parte di navi da guerra neutrali nei confronti di navi mercantili di altra bandiera. Difatti, durante la I conferenza del diritto del mare del 1956, non furono accolte le proposte tendenti a recepire i principi degli articoli 2 e 3 dell’Accordo di Nyon del 1937: in questa intesa, stipulata durante la guerra civile Spa-gnola, si stabiliva che ogni sommergibile non identificato, il quale avesse attaccato una nave mercantile non appartenente ad alcuna delle parti in conflitto con la Spagna, fosse equiparato a una nave pirata e potesse quindi essere attaccato e affondato da qualsiasi altra nave da guerra.

3.3. Pirateria e terrorismo marittimo

Quanto al concorso nella pirateria, l’UNCLOS (art. 101, lett. b), c) fa anche rientrare nella fattispecie le attività di partecipazione volontaria e di incitamento o favoreggiamento. Si discute se tali possano es-sere quelle compiute da persone operanti a terra in appoggio logistico ai pirati. Il fine privato può anche essere diverso dallo scopo di depredazione (c.d. «animus furandi») potendo pensare per esempio a una vendetta privata. Il fine privato non è quindi in teoria escluso nemmeno se coesiste un fine di altra natura, quale quello politico. L’importante è che l’azione non abbia in sé una predominante connotazione politica in quanto, in questo caso, si configura l’altro illecito del terrorismo marittimo (v.) disciplinato dalla con-venzione di Roma del 1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione ma-rittima (denominata SUA Convention dall’acronimo del titolo in inglese) e dal susseguente protocollo adottato a Londra nel 2005 (SUA Protocol). Diversa è, infatti, la struttura dei due illeciti, sicché non è ac-cettabile sul piano giuridico formale la tendenza di alcuni Stati a equipararli tra loro, quasi che la loro repressione e perseguibilità penale sia un’opzione discrezionale. Solo la pirateria, quale crimine di ca-rattere internazionale, è dunque perseguibile in alto mare da parte delle navi da guerra e dalle navi in servizio governativo di qualsiasi nazionalità. Nel caso del terrorismo marittimo il regime convenzionale del protocollo di Londra presuppone invece il consenso dello Stato di bandiera. Va tuttavia notato che tale approccio, tendente a confondere ed equiparare nella sostanza le due differenti figure di illecito, è

somalo e alla nascita di bande criminali stanziate in approdi, come quello di Eyl nel Puntland, e dedite a lucrare dai sequestri di mercantili per conto di gruppi armati.

4.2 Azione delle Nazioni unite

La reazione della comunità internazionale a tali fenomeni può farsi risalire al sequestro nel 2008 dello yacht francese Le Ponant, quando apparve chiaro che il Consiglio di sicurezza delle NU non poteva che adottare misure straordinarie. Il che fu fatto con la risoluzione 1816 (2008) la quale, riconoscendo la pi-rateria somala come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, sulla base del capo VII della Carta autorizzava gli Stati ad adottare tutte le «necessarie misure» chiedendo loro di dislocare in area assetti navali. Questa risoluzione, come anche le altre di analogo contenuto emanate successivamente, ha indicato nell’UNCLOS (e nel diritto consuetudinario in essa recepito) il quadro giuridico applicabile alle attività di antipirateria con ciò escludendo la possibilità di far ricorso al diritto dei conflitti armati.

Tale impostazione giuridica, perfettamente attagliata alla realtà della pirateria somala, ha avuto due im-plicazioni. Da un lato l’uso della forza contro i pirati è stato ritenuto configurabile solo entro i limiti della inevitabilità, ragionevolezza, necessità e proporzionalità proprie delle attività marittime di enforcement del tempo di pace delineate dalla giurisprudenza del Tribunale del diritto del mare (v.) nel caso Saiga (v.

Polizia dell’alto mare). Dall’altro, i pirati non sono stati considerati «legittimi combattenti» da annientare o catturare come prigionieri di guerra ma banditi da assicurare, nel pieno rispetto dei diritti umani (ma non del diritto umanitario), alla giustizia. D’altronde era già stato Cicerone, come già detto, a chiarire che «il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico di tutto il genere umano».

Un’apparente deroga a tale regime generale risiede nella facoltà concessa dalle Nazioni unite alle navi da guerra in attività antipirateria di operare anche nelle acque territoriali somale. Com’è noto, l’alto mare e le acque internazionali (v.) della ZEE e della zona contigua sono il teatro del contrasto alla pirateria, mentre al di fuori di tali zone l’attività repressiva è un’esclusiva attribuzione dello Stato costiero che la esercita nelle proprie acque interne e territoriali. Non è perciò possibile l’inseguimento di una nave pri-vata che cerchi di sottrarsi alla cattura rifugiandosi nelle acque territoriali di un altro Stato (prassi del re-verse hot pursuit), a meno del consenso di questo. Le Nazioni unite hanno quindi permesso in via eccezionale, su autorizzazione del Transitional Federal Government (TFG) somalo, l’ingresso nelle acque territoriali di Forze navali straniere. Questo spiega perché nelle varie risoluzioni si parlasse indifferen-temente di interdizione della pirateria e dell’armed robbery, cioè a dire di quella forma di violenza in acque interne e territoriali che, come già chiarito, esula dalla nozione di pirateria in senso stretto, ma che presenta rilievo ai fini penali.

4.3 Problemi di giurisdizione

Il problema della giurisdizione esercitabile nei confronti dei pirati catturati si è rivelato cruciale nel-l’ambito delle attività svolte al largo della Somalia. Sin dall’inizio delle operazioni antipirateria è stato, infatti, evidente che il modus operandi di alcuni Stati presenti in area con loro navi da guerra era orientato al rilascio, in prossimità delle coste somale, dei pirati catturati. Questo, sia per mancanza di volontà di confrontarsi con le complesse questioni giudiziarie relative alla convalida di arresti eseguiti senza l’ac-quisizione di validi strumenti di prova, sia per l’incapacità di processare i pirati per mancanza, nell’or-dinamento giuridico nazionale, di norme punitive della pirateria. Per esempio, la corvetta danese Absalon, dopo aver catturato 10 pirati e averli tenuti a bordo per sei giorni, li lasciò liberi sulle spiagge somale a seguito di un provvedimento di chiusura delle indagini, per insufficienza probatoria, assunto dai giudici del proprio paese.

Tale prassi (detta «catch and release») è stata contrastata dalle Nazioni unite che in varie sedi ha sollecitato gli Stati che non l’avevano ancora fatto a dotarsi della necessaria legislazione incriminatrice. Peraltro, il Consiglio di sicurezza delle NU ha cercato di mitigare l’ambigua formula dell’art. 105 dell’UNCLOS che non impone agli Stati alcun obbligo di perseguire penalmente i pirati, indicando criteri per l’esercizio della giurisdizione. È stato così che sin dalla prima risoluzione del 1816 (2008) è stato fatto appello a tutti gli Stati e in particolare «agli Stati di bandiera, dei porti o rivieraschi, gli Stati della nazionalità delle vittime o dei perpetratori di atti di pirateria o rapina armata, e altri Stati con giurisdizione rilevante in base al diritto internazionale e alla legislazione nazionale, di cooperare nel determinare la giurisdizione». Di ciò ha tenuto conto l’Unione

eu-ropea, sulla base del mandato dell’operazione navale antipirateria EUNAFVOR Atalanta approvato con la Joint Action 2008/851/CFSP del 10 novembre 2008, nello stipulare accordi con Kenya, Seychelles, Mau-ritius e Tanzania per il trasferimento dei pirati in custodia amministrativa sulle navi dopo la cattura. Da notare infine che la comunità internazionale, a prescindere da tali accordi aventi natura contingente, ha privilegiato la giurisdizione territoriale delle corti penali somale, scartando ogni altra ipotesi di affida-mento della giurisdizione a tribunali internazionali già esistenti o da costituire ad hoc.

Nel documento GLOSSARIO DI DIRITTO DEL MARE (pagine 125-129)