La categoria delle operazioni per il manteni-mento della pace e della sicurezza internazionale at-tuate nel contesto della Carta delle Nazioni Unite si declina in vari modi che vanno dal semplice capa-city-building alle missioni di imposizione della pace (peace-enforcing) durante un conflitto armato, pas-sando attraverso il vero e proprio peace-keeping in cui i militari svolgono un ruolo neutrale di interposi-zione, potendo usare la forza solo per difendere se stessi e i propri mezzi. Tale varia tipologia — spesso
caratterizzata da connotazioni ibride — può essere peraltro inquadrata nel contesto più vasto delle peace support operations (PSOs) che, pur privo di connotazioni giuridiche, rende bene l’idea delle finalità delle singole missioni.
Un posto a sé, nell’ambito delle PSOs, hanno le operazioni navali di pace (peace-keeping naval opera-tions). Purtroppo si tende a lasciare in ombra questo settore, confondendolo con tutte le altre attività na-vali. Eppure, la dimensione marittima delle attività di mantenimento o di imposizione della pace da anni ha assunto una propria rilevanza che è testimoniata dalle numerose missioni internazionali condotte da tutte le Marine nel quadro della Carta. Gli esempi sono tanti. È ancora viva la memoria del primo caso di embargo navale (v.) coercitivo condotto in Adriatico, negli anni Novanta del secolo, sulla base di spe-cifiche risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle NU contro l’ex Iugoslavia. La missione navale (deno-minata Sharp Guard) riguardava l’adozione di misure di controllo e imposizione coattiva in mare di sanzioni economiche decise dalle Nazioni unite, sulla base del capo VII della Carta: l’art. 42 stabilisce, infatti, che «il Consiglio di Sicurezza… può intraprendere, con Forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale…». Altri casi di embargo sono, com’è noto, quello nei confronti dell’Iraq, legittimato dalla UNSCR 665 (1990) e quello relativo alla Libia, ancora in corso, sulla base della UNSCR 1973 (2011) e di altre successive. Questo tipo di operazioni legittima l’esercizio di misure coercitive da parte delle navi da guerra dei paesi partecipanti verso il naviglio mer-cantile di qualsiasi bandiera che si presuma coinvolto in traffici marittimi commerciali con lo Stato sot-toposto a embargo.
Ma non ci sono solo gli embarghi navali. A partire dal 2002 la nostra Marina partecipò per esempio alla operation Enduring Freedom (OEF) nel Golfo Persico e nel Mare Arabico, durante la quale la coalition
Spazi marittimi Palestina (Fonte: UN Doalos).
of willings a guida americana operava, in applicazione dei principi della Carta delle NU, contro i non-state actors (Talebani e al-Qaeda) che avevano appoggiato in Afghanistan le attività di terrorismo inter-nazionale. Alle unità navali partecipanti era assegnato il compito — avvalendosi dei diritti di belligeranza verso il naviglio straniero — di procedere al suo fermo, visita e ispezione (stop, visit and search, secondo la terminologia anglosassone) nel caso di sospetti di coinvolgimento in attività terroristiche. Tra l’altro, nel corso dell’operazione, nel gennaio-febbraio 2002, nostri velivoli imbarcati sulla portaeromobili Gari-baldi, svolsero anche attività aeree in appoggio alle forze operanti in Afghanistan.
Ma c’è di più. Nel 2006 una nostra Forza navale, con componente anfibia, condusse in acque libanesi l’operazione Leonte, svolgendo vari compiti in applicazione della UNSCR 1701 (2006) che aveva decre-tato la fine del blocco navale israeliano al Libano, tra cui la creazione di un corridoio umanitario per l’evacuazione di cittadini stranieri e il trasporto di aiuti sanitari e alimentari alla popolazione, nonché la sorveglianza volta a impedire rifornimenti di armi alle milizie libanesi.
Anche le attività di contrasto alla pirateria (v.) si inseriscono nel filone delle PSOs navali. La pirateria del Corno d’Africa è stata, infatti, qualificata come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale dalle numerose risoluzioni, a decorrere dalla 1816 (2008), che hanno autorizzato gli Stati ad avvalersi di tutti i mezzi necessari a debellare la minaccia al traffico marittimo.
Infine, bisogna ricordare che la Marina Militare italiana svolge dal 1982 quella che è la più perfetta in-carnazione dello spirito di neutralità e imparzialità (con il consenso delle parti) che informa il vero e proprio peace-keeping: la missione di interposizione del contingente navale della Multinational Force and Observers (MFO), costituito dal gruppo navale italiano (Comgrupnavcost 10) il quale pattuglia lo stretto di Tiran (v.) per garantire la libertà di navigazione in applicazione degli accordi di Camp David del 1979 tra Stati Uniti, Israele ed Egitto.
PELAGOSA (Isola di Palagruca)
Vedi: Demilitarizzazione (Mediterraneo);
Piattaforma continentale (Mediterraneo);
Pesca (Mediterraneo).
PESCA
1. Le «guerre del pesce»
Intuitivo è il concetto di risorse naturali (v.) ittiche riferibile alle varie specie che popolano i singoli mari e che l’uomo, sin dagli albori della civiltà, ha utilizzato per le proprie esigenze alimentari. Per mil-lenni la pesca è rimasta attività condotta localmente dalle popolazioni costiere per il proprio sostenta-mento, non essendovi né alcuna necessità — per l’abbondanza delle risorse — di praticare uno sfruttamento intensivo dei mari, né capacità tecnica di navigare in acque d’altura.
Bisogna attendere il secolo XVII per assistere alle prime dispute, nel Mare del Nord, tra pescatori di diversa nazionalità per la pesca delle aringhe che aveva assunto i caratteri di un’industria, grazie alla fiorente attività di conservarle sotto sale o affumicarle, gestita dagli olandesi. Questi pescavano libera-mente lungo le coste britanniche e scozzesi sulla base di un privilegio loro rilasciato dai reali inglesi nel 1496. Col tempo la loro avidità e prepotenza spinsero la Gran Bretagna ad adottare una politica prote-zionistica della pesca: re Giacomo I nel 1609 — proprio nell’anno in cui Ugo Grozio esprimeva le sue ce-lebri tesi sulla libertà dei mari (v.) — emanò un suo proclama con cui, creando le «Kink’s Chamber» (v.
Acque territoriali), sottoponeva a licenza la pesca nei mari adiacenti l’Inghilterra.
Inglesi e olandesi ingaggiarono nello stesso periodo un’altra disputa per la pesca delle balene nel mare Artico (v.) tra le isole Svalbard e la Nuova Zemlja. Non si trattava però di un contenzioso relativo a diritti sovrani come quello condotto da re Giacomo I, piuttosto di un conflitto tra società commerciali di diversa bandiera che operavano in acque extraterritoriali. In Atlantico simili contenziosi sono ancora ricorrenti, soprattutto per la pesca del merluzzo nei Banchi di Terranova frequentati dagli spagnoli. Ma anche per via della Brexit che ha determinato l’impossibilità per i pescatori danesi o francesi di accedere alle acque britanniche. Per non dire delle interminabili dispute che hanno opposto i nostri pescatori alla Tunisia nel c.d. «Mammellone» (v.).
2. Regime giuridico internazionale
Lo svolgimento delle attività di pesca nell’ambito delle acque territoriali (v.) rientra, per principio se-colare oramai consolidato, nei diritti esclusivi dello Stato costiero che, a tale scopo, ha facoltà di emanare leggi e regolamenti per riservare ai nazionali lo sfruttamento delle relative risorse (Ginevra I, 14, 5; UN-CLOS 21, 1 (e). Questi diritti non sono esercitabili nella zona contigua (v.), nel caso in cui lo Stato costiero l’abbia istituita senza tuttavia prevedere, contemporaneamente, una riserva di pesca a proprio favore mediante istituzione di una specifica zona di giurisdizione nazionale. Complementare rispetto a tale principio è quello della libertà di pesca spettante a tutte le nazioni in alto mare (v.) (Ginevra II, 2; UN-CLOS 87, 1. (e).
Con l’affermazione dell’istituto della ZEE (v.) che si incentra sui diritti sovrani dello Stato costiero nello sfruttamento delle risorse naturali viventi (UNCLOS 56, 1.(a) la situazione è però cambiata. Col passare del tempo, gran parte degli Stati costieri stanno via via affermando diritti sovrani di pesca su larghe por-zioni di alto mare, impedendo così l’attività dei cittadini degli Stati che esercitavano tradizionalmente la pesca in quelle aree: a essi potrebbe tuttavia essere consentito l’accesso per lo sfruttamento di limitati con-tingenti di cattura ragguagliati al surplus delle proprie capacità di pesca (UNCLOS 61 e 70).
Alto mare e ZEE sono dunque, ai fini della pesca, zone con regimi del tutto separati. Ciononostante in anni recenti si sono verificati gravi contenziosi in aree per così dire «grigie» aventi caratteristiche sui generis. Un caso che ha fatto epoca è stato per esempio il sequestro del battello spagnolo Estai abbordato dal Canada nel 1995 in alto mare ove era impegnato nella pesca dell’halibut. Il peschereccio operava in un’area dei Banchi di Terranova che ricadeva al di là della ZEE canadese ma che era sottoposta a misure di conservazione stabilite dalla Northwest Atlantic Fisheries Organization (NAFO), cui aderivano volonta-riamente, oltre al Canada, gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea, Spagna compresa. L’intervento coercitivo canadese fu ritenuto in sé illegittimo, quale applicazione extraterritoriale di misure di enforce-ment verso mercantili di altra bandiera non giustificate dall’esercizio del diritto di inseguienforce-mento (v.). La Spagna, da parte sua, avrebbe dovuto prevenire e reprimere l’illecito commesso dal peschereccio nel violare le misure di conservazione, nell’ambito della giurisdizione di bandiera in applicazione degli im-pegni assunti con l’adesione al NAFO.
Il tradizionale diritto di tutti gli Stati di far svolgere ai propri cittadini attività di pesca in alto mare è dunque soggetto alle limitazioni (UNCLOS 116) concernenti: 1) le misure per la conservazione delle ri-sorse viventi dell’alto mare imposte ai nazionali nel quadro di accordi di cooperazione con altri Stati (Ginevra III, 3, 4 e 8; UNCLOS 117 e 118); 2) il rispetto dei diritti e degli interessi degli Stati costieri nelle zone adiacenti le proprie ZEE relativamente agli stock a cavallo di queste aree, mammiferi marini, grandi migratori, specie anadrome e catadrome (UNCLOS 63-67).
Nel quadro di tale regime di cooperazione tra gli Stati, per la conservazione e gestione delle risorse dell’alto mare, sono state adottate negli ultimi anni varie iniziative. Anzitutto vi è la Convenzione delle NU di New York del 4 agosto 1995 sulle specie ittiche sconfinanti (straddling fish stocks) e altamente mi-gratorie, il cui habitat si colloca a cavallo delle 200 miglia. L’accordo pone il principio dell’«approccio precauzionale» come criterio guida per la definizione delle politiche degli Stati di conservazione e sfrut-tamento delle risorse ittiche dell’alto mare. Altri principi cui s’ispira l’accordo sono l’unità biologica degli stock, la compatibilità delle misure di gestione e conservazioni applicabili, la responsabilità dello Stato di bandiera verso l’attività dei propri battelli da pesca e la cooperazione internazionale delle organizza-zioni internazionali, regionali e sub-regionali di pesca. Rilevante è quanto in esso previsto circa l’uso della forza nell’ambito della polizia della pesca (v. ZEE). Inoltre, va citato il Codice di condotta per la pesca responsabile della FAO che contiene disposizioni non vincolanti, in linea con i più moderni principi precauzionali di conservazione delle risorse marine.
Vedi anche: Pescherie sedentarie; Protezione biodiversità marina.
3. Regime comunitario
In base all’art. 38 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE la definizione di una politica comune della pesca è una competenza esclusiva dell’Unione; agli Stati membri resta invece il potere di adottare i provvedimenti di applicazione dei provvedimenti comunitari e i poteri di polizia
nei confronti dei battelli da pesca di bandiera, nonché le misure di controllo sui medesimi. La politica comune stabilisce principi di non discriminazione e di eguaglianza delle condizioni di accesso tra gli Stati membri. L’UE ha la titolarità esclusiva del potere di emanare misure per la preservazione delle ri-sorse marine e di concludere accordi di pesca con Stati non aderenti secondo la seguente tipologia:
— accordi basati sul diritto reciproco delle parti contraenti di praticare la pesca nelle rispettive zone di pesca in modo da realizzare uno sfruttamento in comune delle risorse ittiche (caso degli accordi tra la Comunità e i paesi scandinavi);
— accordi secondo i quali l’Unione concede alla controparte delle compensazioni finanziarie in cambio dell’accesso alle risorse di pesca in favore di battelli da pesca comunitari (caso degli accordi con i paesi dell’Africa centrale);
— accordi in cui, in aggiunta ai tradizionali meccanismi di autorizzazioni alla pesca in favore di battelli comunitari dietro pagamento di compensazioni finanziarie, si prevedono forme di partenariato com-merciale volto a incrementare lo sviluppo della pesca dei paesi contraenti (caso dell’accordo stipulato con il Marocco il 13 novembre 1995).
Principio primario della politica comune della pesca è quello della parità di condizioni di accesso ed esercizio delle attività di pesca a «tutte le navi che battono bandiera di uno Stato membro e sono immatricolate nel territorio della Comunità», disciplinato dal Regolamento EU 1380/2013.
PESCA (MEDITERRANEO)