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143 se si considera ciò che dovrà risultare dalla non dubbia estensione delle strade ferrate a tutti i principali punti delle nazion

civili». 266

Visto l'enorme quantità di persone e merci movimentabili lungo la relazione Genova Milano, il guadagno di tempo corrispondeva ad un innegabile successo da ogni punto di vista e non poteva più essere impedito da una ottusa divisione politica. Di parere opposto erano le autorità asburgiche che percepivano il pensie- ro di Cavour come una minaccia per la stabilità interna e la sua politica doganale.

Le strade ferrate, in particolare il collegamento Genova - Milano, erano già, a quella data, uno dei cardini di una concezione infrastrutturale che avrebbe guidato nel decennio successivo il disegno politico e risor- gimentale di Cavour.

Il ruolo strategico avuto nelle dinamiche risorgimentali dalla relazione ferroviaria tra il porto di Genova e i mercati del nord e dall'attenzione rivolta a quello di Milano, è stato ripreso dallo studioso Teofilo Ossian De Negri nella sua Storia di Genova . Dopo aver evidenziato che l'Austria tendeva a separare ciò che è inse- parabile, Milano e Genova, pianura lombarda e mare ligure, De Negri affrontava il tema delle strade ferra- te:

« la politica ferroviaria piemontese si è resa pieno conto delle necessità dell'emporio ligure e le favorisce, non solo aprendo nel 1854 la linea principale Torino- Genova che, a pochi anni dalla rivolta del 1849 soffocata dal La Marmora, è anche un simbolo di un clima nuovo d'incontro e di cordialità tra le due capitali, di terra e di mare; ma pure sviluppando una rete da Genova a Novara e verso i valichi alpini che procede parallela al confine lombardo. Il che, come è risaputo, avrà importanza decisiva anche dal punto di vista strategico nelle operazioni del '59. Ma sul piano economico tale orientamento è in parte falso e farà sentire più vivo il bisogno di forzare la barriera del Po e del Ticino e di far proseguire verso i più facili valichi delle Alpi lombarde, attraverso Milano, le linee radianti da Genova e da Alessandria. E' stato già messo in rilievo come nella politi- ca ferroviaria si siano espressi in modo stridente i contrastanti interessi del Piemonte e dell'Austria, e si sia determinato qua- si il dissidio. Certo è che la politica sabauda e il commercialismo genovese, in questo campo perfettamente all'unisono, qua- si vengono a trovarsi tra mano uno strumento, le ferrovie mozze, o flesse fuori dal loro naturale allineamento, che è come un richiamo, o un trampolino di lancio, per correr l'avventura del varco del Ticino».267

La relazione tra Genova e Milano aveva radici lontane del tempo, geografiche economiche, politiche, e sembrava la chiave di volta del pensiero ferroviario dei pensatori piemontesi e lombardi del tempo. Per co- storo Genova era lo sbocco naturale al mare di Milano, che garantiva alla prima il collegamento col Nord Eu- ropa ed il bacino del Po. Questa visione era contrastata da coloro che, come i veneziani e i veneti, cercava- no di risollevare le sorti della portualità e dei commerci di Venezia proprio attraverso il collegamento con Milano e l'area produttiva delle città lombarde, con uno sguardo anch'essi ai traffici del Nord Europa; infatti, fin dal 1835 avevano iniziato a ragionare di una strada ferrata da Venezia a Milano, il cui primo stralcio venne aperto nel 1842 e nel ‘48 contava già alcune tratte in esercizio. In mezzo c'era la borghesia mila- nese, maritatasi con Venezia ma attratta dal fascino di Genova. L'argomento era stato affrontato con grande lucidità da Carlo Cattaneo nel suo saggio del 1836 Ricerche sul progetto di una strada di ferro da Mi- lano a Venezia, in cui parlava della realtà genovese e dei legami storici esistenti con Milano, interrotti dal realismo politico impostosi con la Restaurazione dopo il 1814; questa aveva demolito il sistema continen- tale napoleonico, che privilegiava gli scambi economici e dei rifornimenti via terra, preferendogli il siste-

266

C. Benso Cavour, Sulla opportunità di costruire una ferrovia diretta tra Milano e Genova, Il Risorgimento- n°109, 4 maggio 1848, cit. in Domenico

Zanichelli, Gli scritti del Conte di Cavour , Vol. 2° - seconda edizione, Nicola Zanichelli, Bologna 1892, Testo in Appendice n° 5. 267

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ma protettivo, che favoriva le vie del mare e rendeva complicate quelle via terra. Per Cattaneo alle lacune della monarchia sabauda che, pur avendo percepito le potenzialità del porto ligure non aveva saputo espri- merle, si era aggiunta anche l'inerzia dell'imprenditoria locale nonostante accenni di ripresa. Considerato che lo spostamento dell'asse commerciale verso i porti di Venezia e Trieste aveva limitato solo tempora- neamente il peso dei traffici verso il Nord Europa, Cattaneo coglieva una opportunità importante: garantire un sistema di comunicazioni globali progressivamente integrato , una sorta di “ organismo unico continenta- le che superasse nel libero scambio le frontiere e le ostilità fra gli Stati, e attraverso il quale raccordare navi e ferrovie, terra e mare“268 in una logica di libera concorrenza.

Queste alcune sue riflessioni sui punti primari su cui avrebbe dovuto fondarsi l’iniziativa:

«Concludiamo con l’asserire in succinto che l’impresa di una strada ferrata tra Venezia e Milano, qualora gli uomini consen- tissero veramente ad eseguirla… dovrebbe contare più sul trasporto delle persone che delle merci. … Riguardo alle merci … che tutto il commercio estero e di transito principalmente, si vedrebbe crescere gradualmente a meno che gli Stati europei ritornassero dietro l’esempio della Gran Bretagna e quei principj di libera concorrenza dai quali la Svizzera non si dilungò mai, dando così solide basi alle sue manifatture ed alla sua prosperità… Che una bella parte dei destini di quest’impresa s’appoggia alla propagazione di simili opere verso i golfi di Genova e di Guascogna…. Che la riuscita generale dipende da un congruo concorso di tutti questi introiti parziali. Dalle quali conclusioni viene per corollario la necessità di comprendere nel- la nostra linea quel maggiore numero di città che compatibilmente si possa».269

Nell’analizzare il percorso migliore in cui attestare la stazione di Milano, Cattaneo disegnava un sistema in- termodale strada- ferro-acqua, che prevedeva l’innesto alla ferrovia delle altre direttrici di traffico prove- nienti da Genova , Torino e Roma, facendo assumere al bacino di Milano la funzione di un vero e proprio in- terporto, come nei modelli odierni:

«Posto che convenga prendere di mira la parte più bassa del nostro recinto, e che da quella parte si uniscono i tre Navigli e possano farsi agevolmente convergere le strade di Roma, di Genova, di Torino, massime poi se venissero ad assumere la forma di strade ferrate; ne consegue che quello sia il luogo più opportuno alla costruzione dell’emporio mercantile. Si for- merebbe così per noi quasi un porto marittimo».270

Pur consapevole delle difficoltà che una simile impresa avrebbe comportato, Cattaneo sollecitava a non sco- raggiarsi, perché prima o poi sarebbero diventate opere di prima e superiore necessità; se ritenute eseguibi- li le opere avrebbero dovuto essere realizzate ad una ad una tenendo conto del principio della priorità, in un quadro di prospettiva integrata e federata di direttrici e sistemi di traffico territoriali:

«Ma certo, un paese che voglia sostenere la sua potenza industriale e pecuniaria a fronte delle nazioni vicine, non può per alcuna difficoltà di lavoro lasciarsi atterrire da simili imprese, perché fra pochi anni saranno opere di prima e superiore ne- cessità. A Genova visti i progetti di strade di ferro andarsi propagando intorno a Marsiglia, nasce già un giusto timore che la corrente commerciale tra il Mediterraneo e l’ Europa interiore e settentrionale non abbia a deviarsi da quella retta linea che da Genova per l’ Appenino e le Alpi guida al Reno. Quindi è ben naturale che un popolo vigilante e denaroso pensi ad agevo- lare il varco da Genova al lago Maggiore con una linea ferrata e già se ne ragiona da molti. Se fossero certi di trovare a Mila- no un’altra strada ferrata che li conducesse per Venezia verso Trieste e Odessa , essi preferirebbero sicuramente di congiun- gere le due linee passando per Milano; poichè farebbero un’ opera sola e due servigi. Allora Milano diverrebbe il punto d’ intersezione tra la linea di Levante e quella di Mezzodì; e sarebbe il primo mercato dell’ Europa meridionale; e allora la ma- teria dei transiti potrebbe divenire una larga fonte di lucro. Ma se la linea di Milano a ‘Venezia s’avesse a differire, egli è cer- to che la linea genovese dovrebbe studiarsi brevissima e diretta dagli Appenini al Verbano, evitando l’inutile perditempo di

268

Cit. in M. Bocci, Genova e Milano ,la Grande vie del Risorgimento, cit , p.11. 269

Carlo Cattaneo, Ricerche sul progetto di una strada di ferro da Milano a Venezia , Annali Universali di Statistica, Vol. XLVIII Fasc.144- Giugno 1836, cit,. pp.304-5. 270

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un transito per la nostra frontiera. Perlorchè la nostra esitanza potrebbe divenir doppiamente dannosa. E la valle del Rodano raccoglierebbe i frutti stoltamente da noi rifiutati.»271

L'intuizione intermodale di Cattaneo, che intravvedeva la possibilità di collegare Genova, Milano e Venezia e, con esse, i due mari e il vecchio continente , era sicuramente rivoluzionaria ma troppo avanzata per quei tempi, tanto che sarebbe stata ripresa solo dalle politiche volute da Cavour. La guerra del sale, scop- piata tra il 43 e il 46 tra il regno sabaudo e il Lombardo Veneto, cui fece seguito la rappresaglia sui dazi doganali del vino piemontese, confermavano da una parte la chiusura austriaca a qualsiasi incentivazione del porto di Genova, dall'altra mettevano in luce l'atteggiamento rigidamente protezionistico dei due go- verni , nonostante le condizioni di mercato fossero cambiate.

Registrate le difficoltà e gli ostacoli alla realizzazione di una linea diretta Genova - Milano, la discussione nei settori economici genovesi, dove nel frattempo erano sorti importanti istituti bancati (Banca di Genova nel 1844 e Cassa di Risparmio nel 1846) si spostava su scenari diversi, su linee di collegamento del Mar Ligure col Lago Maggiore e la Svizzera; nel 1846 l'economista genovese Michele Erede si faceva promotore di una proposta in questo senso mentre le istituzioni e la classe dirigente genovese- vincendo le vecchie resi- stenze- faceva pressione sulla monarchia per un inasprimento dei rapporti con l'Austria.

Secondo lo studioso Mauro Bocci, il Quarantotto italiano , se fu il frutto di una grande crisi economica eu- ropea, fu anche il risultato di comuni energie genovesi e milanesi.272

Tornando al ruolo politico assunto da Cavour, nel 1849, dopo l'abdicazione di Carlo Alberto a favore del fi- glio Vittorio Emanuele II°, venne eletto Senatore.

Divenuto Ministro dell'Agricoltura nel 1850 e anche delle finanze nel 1851, nel governo guidato da Mas- simo D'Azeglio, ne ereditò la carica dal 1852 favorendo lo sviluppo dello Stato, con particolare riguardo alle infrastrutture viarie, di navigazione e ferroviarie, indispensabili a dare impulso economico al paese e a co- struire l'immagine di grande potenza nello scenario europeo che gli avrebbe poi consentito di tessere al- leanze utili a riprendere la campagna contro l'Austria, vero ostacolo all'unificazione del paese.

Nel pensiero dello statista Cavour l'aspetti politico e quello economico erano strettamente interconnessi. La sua visione laica di uno stato liberale si coniugava con una forte spinta innovatrice in ogni settore , sia agricolo che industriale, di cui le infrastrutture avrebbero dovuto essere l'asse portante dello sviluppo eco- nomico, sociale e culturale.

Divenuto primo ministro, Cavour fece destinare più del 10% del bilancio allo sviluppo delle infrastrutture, erogando contributi per la costruzione di ferrovie, strade e sussidiare le compagnie di navigazione; stimolò e incoraggiò il settore privato a investire e dar forma a nuove imprese, come lo sarebbero stati i Cantieri An- saldo di Genova. Pur suscitando la diffidenza dei liberisti puri, l'intervento dello Stato nell'economia con- sentiva l'espansione produttiva, anche se di contro cresceva l'indebitamento.

271

C. Cattaneo, Ricerche sul progetto di una strada di ferro da Milano a Venezia, cit., pp.326-7. 272

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L'azione di stimolo all'economia instillava fiducia in chi vedeva nello Stato sabaudo il soggetto capace di so- stenere il ruolo di contrasto all'egemonia austriaca e di raccogliere attorno a sé le istanze dei patrioti. La conduzione di questi progetti arditi, in un periodo di recessione economica, rappresentava uno dei punti di forza di Cavour per sostenere un movimento nazionale non rivoluzionario. Quasi senza volerlo, Cavour faceva dello Stato sabaudo un modello, accettando , nonostante nel '56 avesse dichiarato utopistico l'uni-

tarismo di Manin - la tesi giobertiana dell’egemonia sabaudo-piemontese, che sfociava nell'unitarismo.273

Il sacerdote Vincenzo Gioberto, noto negli ambienti intellettuali per la sua iniziale adesione a movimenti patriottici moderati ma antimonarchici, fu una tra le più alte figure del Risorgimento italiano. Il suo pensie- ro politico, tracciato nella sua opera, Del primato morale e civile degl' Italiani, pubblicata a Bruxelles nel 1843, faceva leva sul valore della cristianità per costruire un progetto di una confederazione di stati sotto la presidenza del Papa, che passò sotto il nome di neoguelfismo. Per realizzarlo occorreva creare una corrente d'opinione che accomunasse gli italiani in un movimento federativo che si riferiva ai principi cattolici e sfociasse poi in un partito moderato nazionale.

Se alla Confederazione avrebbero partecipato i principi italiani, non era però chiaro come Gioberti inten- desse il ruolo del principe straniero - l'Austria- che dominava nel Lombardo Veneto, né come avrebbe giusti- ficato l'atteggiamento reazionario e antiliberale dell'allora papa Gregorio XVI°. Gli attacchi dei gesuiti da una parte e dei repubblicani dall'altra, lo portarono a meglio esplicitare il suo pensiero, precisando nell’opera I prolegomeni del Primato, scritta nel 1846 ma pubblicata postuma nel 1865, che il Primato ave- va la funzione di propagandare il progetto federativo e che quello che importava era la lega, alla cui guida

guidata si sarebbe potuta porre la personalità di maggior senno e capacità, principe o papa che fosse:

« Che se fra le asserzioni del Balbo e le mie corre qualche divario, ciò accade per lo più quando si tratta di portar sentenza su qualche scrittore o su qualche popolo… Ovvero il dissenso è men reale che apparente, e nasce dallo svario di prospettiva con cui si possono contemplare i medesimi oggetti. Imperocchè, discorrendo della confederazione italiana, io volli princi- palmente esporre e chiarire il concetto di essa nella sua bellezza e perfezione ideale; laddove il Balbo si propose di cercare i modi più acconci alla sua prossima applicazione. Lo scopo di lui fu dunque al tutto pratico, e il mio in alcune parti speculati- vo solamente. Quindi è che io non feci parola del principale ostacolo che si attraversa alla redenzione d'Italia; e non che do- lermi del mio silenzio, ora me ne rallegro, poiché l'autore delle Speranze vi ha supplito con tanto corredo di sapienza e di moderazione. Parimente io ebbi l'occhio all'idea sola, ragionando del capo della lega italica; e, certo, il Balbo non vorrà ne- garmi che, idealmente parlando, Roma, e non altra città, il pontefice cristiano, e non altro principe, dovrebbero esserne la sede e capitanarla; come io concedo al mio nobile amico che questa civile presidenza del papa sarebbe oggi di malagevole o impossibile esecuzione. Né tale discrepanza fra la teorica e la pratica dee stupire, poiché ha sempre luogo più o meno nelle cose del mondo; dove l'idea non può mai incarnarsi a compimento, nè prender forma sensata, se non uscendo dalla genera- lità propria, rinunziando in parte alla sua purezza, piegandosi e conformandosi in particolare alle condizioni dei luoghi e dei tempi, e universalmente alla debolezza e imperfezione ingenita della nostra natura. Ma quando l'idea non consuona colla materia in cui si dee imprimere, che si ha da fare? Cercare un mezzo termine, che al difetto supplisca. Né questo mediatore dialettico, conciliativo della teoria colla pratica nell'ardua impresa della redenzione italiana, può altrove trovarsi che nella persona di un principe secolare, il quale esprima civilmente l'idea cattolica, com'essa è rappresentata e messa in atto spiri- tualmente dal romano pontefice. …. Ma qual sarà questo principe? La risposta è agevole: siccome niuno pensa a convocare i comizi della Penisola per farlo a tratta o a mano, quegli avrà l'alto incarico che saprà guadagnarselo da sè medesimo. Il capo di ogni grande instituzione suol essere autonomo nella sua origine, e per lo più non si diversifica dall'autore di essa; perchè chi fonda un ordine, lo capitaneggia, almeno per qualche tempo, ripugnando che alla causa preceda l'effetto. Così duce e moderatore della lega italica sarà quel principe che primo volgerà il senno e le cure a metterla in atto. Egli solo sarà degno del grado, perchè l'avrà creato: e chi oserà, fuori di lui, aspirarvi, o venirne seco a contesa? La gara possibile tra i regnanti della Penisola non riguarda dunque il premio dell'impresa, ma il cominciamento di essa; e tal gara, non che essere indegna o nociva, è utile e nobilissima. Il voler particolareggiare sulle contingenze avvenire sarebbe superfluo, giacchè il Balbo ed io siamo d'accordo che non si debba nè si possa ragionevolmente uscire dai generali. Bene si può affermare, senza esitazione,

273

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che qualunque sia l'orditura della nostra lega e il capo che le si voglia assegnare, ella dee essere informata dall'idea cattoli- ca; la quale è il gran vincolo dell'Italia, come nazione. »274

Era evidente come Gioberti si sentisse amareggiato per le reazioni acutamente critiche che erano state mosse, anche dagli stessi ambienti ecclesiastici. Era, altresì, evidente come il suo pensiero si fosse modi- ficato alla luce degli eventi e con realismo lo avesse portato a guardare alla nuova classe emergente, la borghesia:

«E questo è l'elemento vivo e immutabile a cui io mirava, discorrendo, come feci, del dogiato italico; giacchè in ogni manie- ra di cose e di attinenze l'idea sovrasta all'oggetto sensato e alla persona che la rappresenta. Che se anche negli ordini spiri- tuali della Chiesa, dove pure la tela gerarchica è di necessità assoluta, la vita non è interrotta dai corti interregni del pontifi- cato, o da uno scisma passeggiero della società cristiana, come fu quello di Occidente; la colleganza italiana può benissimo essere animata dagli spiriti ortodossi, ancorchè mossa e guidata da un principe secolare e guerriero. Nè paia strano che io parli di spiriti ortodossi in proposito di politica e di confederazione; perchè il cattolicismo, a mio senno, non è solo una reli- gione, ma una civiltà. 0 più tosto è una religione, secondo il significato nativo ed universale di questa parola, poichè forma il legame comune degli intelletti e la dialettica suprema. A coloro che perciò mi accusano di subdole intenzioni, quasi che, di- scorrendo di religione in proposito di politica, io miri a stabilire la dominazione dei preti, non posso già rendere la pariglia; anzi, mi veggo sforzato a retribuir bene per male, ammirando la semplicità loro. Non ignoro che il voler persuadere altrui, il genio cattolico dover essere l'anima della civiltà italica, è dura impresa al dì d'oggi, e forse l'assunto più difficile che un Ita- liano si possa proporre, essendo combattuto da una lunga abitudine, da mille speciose apparenze e da infinite preoccupa- zioni. Tuttavia (sarò franco a costo di parer temerario) questi ostacoli non sono tali che mi spaventino; nè dispero affatto di scemarli e fors' anco di vincerli, non dico in tutti, ma in molti; e forse qualcuno dei miei presenti lettori sarà già men pronto a darmi il torto, se avrà la pazienza di giungere al fine di questo mio scritto.»275

Oramai aveva preso atto che la classe borghese, cui riconosceva, nelle doti dialettiche, attitudine alla mo- derazione, abilità nell'assorbimento degli opposti estremismi, la capacità di guidare la rinascita nazionale, sarebbe stata l'unica realtà in grado di dirigere le sorti del cambiamento e di destreggiarsi tra aristocrazia reazionaria e le nuove classi che apparivano all'orizzonte chiedendo e spazi di rappresentanza.

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