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Poco dopo l'apertura della Napoli - Granatello di Portici, anche il Granducato di Toscana, sotto la guida del giovane Leopoldo II°, appartenente alla dinastia degli Asburgo – Lorena e salito al trono nel 1824, venne annoverato tra gli Stati dotati di strade ferrate.

Il giovane sovrano, aperto alle idee liberali, attuò da subito una politica a sostegno dell'autonomia dall'Au- stria, di tolleranza verso le istanze sociali, di riduzione delle tasse e di incentivazione delle opere pubbliche, tra cui la bonifica della Maremma, il potenziamento del porto di Livorno e la costruzione di nuove strade. Leopoldo aveva abbracciato la causa liberista che dava via libera all'impresa privata lasciando allo stato la funzione di controllo.

Nonostante il Granducato fosse considerato tra gli stati dotati di maggiori vie di comunicazione, il poten- ziamento della rete stradale denotava l'importanza riservata al sistema delle infrastrutture, premessa ad ogni sviluppo economico del paese. Ad ogni modo, attorno alle strade esisteva un problema rappresenta- to, come un po' ovunque in tutta la penisola, dalla condizione del fondo, spesso fangoso o polveroso (a se- conda che piovesse o meno) che rendeva precario ogni trasporto di persone o merci.

Nonostante le spinte innovative, l' economia restava prevalentemente agricola e questo aveva portato, nei primi decenni del secolo, autorità e classe dirigente toscana a mantenere sotto tono le spinte verso un' accelerazione di tipo industriale, sebbene fosse perseguita una politica di sfruttamento minerario e si so- stenesse la vocazione commerciale di alcune realtà territoriali presenti attorno a Firenze, Pisa e Livorno . In una Memoria, apparso sul Giornale Agrario Toscano, sui vantaggi che avrebbero potuto ricavare i Ro- magnoli dalle nuove strade comunicazioni interne tra Romagna e Toscana, oggetto di un incontro all’Accademia degli Incamminati di Modigliana, tenutosi il 4 giugno 1737, l’estensore accennava al valore delle buone strade come veicolo di ricchezza economica e sociale:

« Se gli avi risorgessero da i sepolcri, e vedessero le molte strade che, per sovrana munificenza, fra pochi anni comode e faci- li le comunicazioni interne della Romagna Toscana renderanno, ed agevolissimo l’andare alla Capitale del Gran-Ducato, si rimarrebbero pieni di stupore, e ricordando che ai dì loro le pubbliche vie non erano che ardui sentieri tracciati per lo più sovra balze, o fangosi, o con alpestri salite, e precipitose discese, congratulandosi con noi di tanto bene , aggiungerebbero la loro alla nostra gratitudine verso l’Augusto principe che le ordinò. … Le strade buone e comode sono il veicolo della ricchez- za. E’ questo un assioma di esperienza. Fanno esse l’effetto delle vene nel corpo umano: l’agricoltura, e le arti ne sono l’alimento che cresce a misura che ne domandano. … Noi, però, mentre ferve opera tanto benefica, incominciar dobbiamo a correggere le rotazioni agrarie, ed a migliorare la nostra industria colonica per far acquistare credito in commercio ai nostri prodotti, e d’agricoltura e d’arti, e per godere anche noi, in parte almeno, di quel molto bene, che intero è serbato ai nostri figli e nipoti, se proseguiranno il nostro cammino. La prima correzione deve essere quella di vincere l’ignoranza e la capar- bietà dei nostri contadini. … Una volta che giungiamo a gustare i vantaggi delle comode strade , non rivolgeremo i nostri sguardi sul passato che per commiserare la sorte degli avi nostri, ed augurar loro di aver vissuto a questi tempi.»185

Nel 1839 , 41 e 43 Firenze ospitò ripetutamente il Congresso degli scienziati;186nella capitale del Granduca-

to si stampavano alcune tra le testate giornalistiche di maggior risonanza della penisola, come l'Antologia, la Gazzetta di Firenze e il Giornale Agrario, che diffondevano notizie, informazioni, curiosità, fungendo

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Franc. Verità, Alcuni cenni sui vantaggi chericavar potranno i Romagnoli dalle nuove strade, con l’agricoltura e la manifattura. Giornale Agrario Toscano Vol. XI, , Vieusseux., Firenze 1837.

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da divulgatrici delle novità scientifiche e vetrina per la dialettica politica; questa conoscenza si trasferiva , inevitabilmente, negli studi professionali e nei salotti dell'aristocrazia o della buona borghesia, alimentando il confronto tra gli intellettuali ed arricchendo il dibattito sulla questione italiana.

In queste occasioni di confronto non mancava una riflessione sulla novità del tempo rappresentata dalle strade ferrate e dalle prospettive di progresso che essa avrebbe portato. La presa di coscienza fu lenta e graduale, contrastata da posizioni di chiusura e pareri critici sulla reale efficacia della nuova tecnologia, sul- le trasformazioni sociali e i rischi che portava con sé.

L'ipotesi di una strada ferrata prese consistenza nel 1834 all'interno della corte di Leopoldo che si trovò su- bito divisa tra procedere alla costruzione con propri fondi oppure lasciare questo compito ai privati.

Nonostante contrastasse con il credo liberista, una delegazione di tecnici del Dipartimento di Acque e Stra- de si recò all'estero, in paesi quali la Gran Bretagna, il Belgio, gli stati tedeschi, l'Austria, per far tesoro delle esperienze sino ad allora maturate, studiare i modelli realizzati e verificarne l'applicabilità in patria; i risulta- ti furono presentati a Leopoldo che si orientò per la libera impresa, nonostante fosse stato indicato che l'impatto ambientale richiedeva uno stretto controllo pubblico. Tra le riflessioni presenti in quella relazione emergeva anche la necessità di concepire fin da subito una rete pianificata di collegamenti. La scelta di pri- vilegiare l'iniziativa privata portava, nei fatti, il Granduca a valutare ed approvare le proposte che di volta in volta gli imprenditori presentavano; quest'ultime erano legate all'interesse d'impresa ma scollegate da una pianificazione strategica dei comparti economici, produttivi e di mobilità. Ad ogni modo le concessioni alle imprese vennero equamente distribuite su tutto il territorio, elemento che induce a parlare di forme di controllo sulle attività, anche se non di una vera e propria pianificazione.

La questione dell'introduzione del sistema di trasporto su vie di ferro ebbe, comunque, il vantaggio di ri- mettere in discussione tutta la struttura produttiva dello Stato, alimentare quel dibattito in campo politico ed economico che, senza mutare la struttura del sistema esistente, consentiva un confronto che prima non c'era mai stato.

Altro elemento positivo prodotto dalle strade ferrate fu la maturazione della classe imprenditoriale. La forma di Società anonima , adottata per realizzare le intraprese, aveva il vantaggio di riuscire a rastrellare sul mercato del credito le ingenti somme necessarie agli investimenti ferroviari; tale caratteristica indusse gli imprenditori ad associarsi utilizzando questa forma societaria che poi riproposero in altri settori, come quello creditizio e minerario, creando una vera e propria rivoluzione nel modo di pensare dell'epoca. I capi- tali, però, non provenivano tutti dal Granducato; una buona parte delle azioni delle strade ferrate furono collocate sul mercato inglese, le altre vennero vendute nelle borse di Milano, Parigi, Vienna, Francoforte. Solo una piccola parte fu acquistata con fondi provenienti dalla Toscana e questo a causa della fragilità del- le sue strutture d'impresa private.

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Comunque, l'Inghilterra, per la politica attuata dal governo o per l'intraprendenza della classe imprendi- toriale, non rappresentò solamente il modello economico e finanziario di riferimento.187 Dall'Inghilterra

giunse gran parte dei materiali, mobili e fissi, che servirono a costruire ed esercire le prime linee, i tecnici, i macchinisti, gli addetti. Il ricorso alla tecnologia inglese fu obbligato, visto che la produzione side- rurgica locale non era in grado di farvi fronte, per vari motivi quali: il ritardo tecnologico, l'incapacità a pro- durre i materiali in grande quantità, l'elevato costo dei prodotti finiti, non competitivi rispetto ai prodotti inglesi. Così, nei primi anni delle ferrovie in Toscana non sorse alcuna aspirazione ad affrancarsi dalla di- pendenza estera, a produrre da sé i materiali o a sviluppare tecnologia, come in qualche modo aveva ten- tato di fare il Regno delle due Sicilie. I materiali necessari a costruire la prima linea, la Leopolda, vennero sbarcati a Livorno su ordinazione del progettista, Robert Stephenson, cui era stato affidato l'incarico di ge- stire i lavori. Per le altre linee, le compagnie si rivolsero, anch'esse, al mercato estero, principalmente bri- tannico. Gli acquisti venivano autorizzati in esenzione di dazi e rappresentavano il contributo pubblico ga- rantito da Leopoldo alle opere ferroviarie. La presenza di tecnici e know how britannici guidò le scelte sullo scartamento standard che, naturalmente fu proposto, accettato ed applicato come modello di riferimen- to.188

Di produzione locale era, invece, il legname da costruzione. Il disboscamento per rifornire di legname le imprese di costruzione e produrre carbone di legna per i mezzi di trazione, in sostituzione del carbone fossi- le, aveva prodotto una ricaduta negativa al punto da temere, da una parte la sparizione delle foreste de- maniali, dall'altra la crescita dei costi di approvvigionamento.

Un altro aspetto ambientale riguardava le trasformazioni del territorio indotte dalle nuove costruzioni fer- roviarie; tra queste si annoveravano i nuovi insediamenti possibili lungo le linee, come fabbriche, agglome- rati urbani, ma anche i ponti, le gallerie, gli attraversamenti stradali o delle proprietà , su cui gli organi di governo esercitarono una moderata regia per ridurre l'impatto. Nelle città l'arrivo dei binari fu più invasivo, perché sconvolse gli equilibri stabiliti da secoli. A volte c'era la necessità di abbattere mura, tagliare le pro- prietà, ristrutturare o ricostruire nuovi sistemi urbani idraulici, regolare i varchi di attraversamento. I cittadi- ni vedevano i loro ritmi di vita modificarsi ineluttabilmente; ora il tempo era scandito dagli arrivi e dalle partenze dei treni.

Sugli aspetti ambientali il Dipartimento di Acque e Strade e gli organismi tecnici leopoldini vigilarono, rego- lando i rapporti tra progettisti e imprese costruttrici da un lato e gli amministratori pubblici e le popolazioni dall'altro. Alla fine l'impatto delle opere non fece registrare evidenti segni di invasività o alterazione degli equilibri ambientale e sociale. Ci fu, comunque, chi tentò di fermare l'avanzata delle ferrovie, innanzitutto coloro che vedevano perdere il proprio lavoro: carrettieri, barrocciai, navicellai, vetturini; molti di questi, però, seppero riconvertirsi in funzione dei nuovi bisogni introdotti dalle strade ferrate, proponendo servizi integrativi, fornendo servizi vettura a completamento del viaggio in treno, organizzando il trasporto dei ba-

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A.Giuntini, Treni nel verde, Strade ferrate in Toscana dalle origini ad oggi, cit,, p.11. 188

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gagli. C'era chi accusava le locomotive di provocare danni alle colture e alla salute delle persone. Tra i de- trattori c'era chi ipotizzava danni ai commerci, perché avrebbero arricchito i pochi a danno dei molti, o chi vedeva nel passaggio dei binari una divisione irreversibile, una cesura alla continuità dei terreni, gravemen- te dannosa alla produzione agricola e all'indotto industriale., una rottura della continuità stradale, una frammentazione della vita sociale delle comunità, un depauperamento ulteriore per le classi povere.

Tra i detrattori si accodava spesso anche la stampa locale. La voce della Verità- Gazzetta dell’Italia Centrale, nel 1838 pubblicava una serie di articoli dal Titolo Dubbj sulle strade di ferro in cui il giornalista si poneva seri dubbi sull’effettiva capacità delle nuove tecnologie industriali di affrancare dalla miseria le classi più povere

L’estensore dell’articolo partiva dall’analisi condivisa di come ci fosse uno stretto legame tra l’aumento della specie umana, illimitata, e la capacità produttiva alimentare, limitata, che determinava dei periodici squi- libri, ripristinati solo con funeste crisi ( malattie, morie, guerre, emigrazioni, ecc.) :

«È gran quistione agitata fra gli economisti se le sussistenze, ossia i prodotti del suolo destinati all' alimentazione degli uomini crescano in proporzione dell' accrescimento della specie umana. In altri termini, si dimanda se un territorio ben coltivato che basta alla comoda sussistenza di una popolazione come 2, possa produrre come 4 quando sia d' uopo far fronte alla consumazione d' un numero d'individui duplicato in forza dell' accennata legge di moltiplicazione dei viventi. I più savj economisti… (s)ostengono essi che mentre l’ aumento della specie è per natura illimitato, le forze produttive del suolo hanno per lo contrario un confine ristretto, oltre il quale non vi ha che spossamento dei terreni, impotenza di mezzi agricoli, penuria e sterilità. Questo isterilimento, questa scarsezza di viveri, combinata coll'eccessivo incremento di una popolazione demoralizzata, diventa poi, nel corso ordinario delle cose, una delle cause più attive che determinano il ricorso di quelle funeste crisi o malattie sociali da cui l' inghiottono migliaja e migliaja d'uomini (*), col fine di ristabilire il rotto equilibrio tra le sussistenze e la popolazione. Quindi i guasti eccessivi del senso ( potentissima causa spopolatrice ), le guerre, le morìe, l’anarchia civile, le emigrazioni forzate, la dissoluzione sociale. Per questa ragione, e non per altra, dove aversi come verità o teorema provatissimo che in fondo ad ogni gran quistione sociale s'agita sempre una quistione di Pane.

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Considerato che dietro ogni questione sociale si agitava sempre una questione di pane, l’articolista si chiedeva quale fosse il fine delle novità tecniche industriali e della libertà commerciale propagandate dalla nuova dottrina umanistica: forse la diffusione egualitaria dei beni materiali? Ma diffondere non significava accrescere!:

Ora prendiamo i perfezionamenti dell'industria, le libertà commerciali, i sistemi di materiali migliorie nelle loro applicazioni più conseguenti, nelle deduzioni loro più estese, in una parola, secondo le dottrino umanitarie. Qual è la finale tendenza loro? La diffusione più eguale possibile dei beni materiali fra gli uomini. Infelicemente diffondere non vuol dire accrescere: si ponderi bene questa distinzione che forse potrebbe chiarire, da se sola, i grandi abbagli degli economisti del progresso. Gli sbocchi dei generi alimentarj e industriali moltiplicati e agevolati all' infinito per mezzo dei moderni macchinismi, possono bensì facilitare il versamento e la distribuzione delle esuberatiti derrate, per es., di Sicilia ed Ungheria ecc. in seno alla Svizzera, all'Olanda ecc., ma non possono far sì che quei terreni, comunque feracissimi, producano tanto che, per 1'inevitabile accrescimento della popolazione, anche quei fertili paesi un giorno o 1’altro non soffrano il caro dei viveri. Anzi se quegli abitanti, per le rimanenze dei generi di prima necessità e per la ridondanza del fecondo loro suolo, prima non avrebbero mai o quasi mai sofferto grave penuria, ora per la smania del movimento industriale, ceduto il di più dei loro prodotti all' estera dimanda e ridotti al puro necessario, saranno esposti a casi più frequenti di fame e carestia. 190

Se i vantati miracoli potevano migliorare la diffusione dei beni materiali, il problema delle sofferenze non poteva mai essere risolto definitivamente dal progresso industriale, decantato con fanatismo dagli speculatori. I perfezionamenti industriali - trai quali metteva le strade ferrate – erano fumo apparente di prosperità, perché potevano avvantaggiare le classi più forti ma non sollevare le masse dalla propria

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Dubbj sulle strade di ferro, La Voce della Verità, Gazzetta dell’Italia Centrale, n° 1077 , p.1 , Specola, Modena 26 giugno 1838. 190

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