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Il territorio dello Stato Pontificio, che si snodava per oltre due terzi della sua superficie lungo la dorsale appenninica, lambendo a nord la pianura padana, occupava nella penisola italiana una posizione centrale per ogni direttrice di traffico nord- sud e rappresentava, con i suoi sbocchi sul Tirreno e Adriatico, un cro- cevia importante nei flussi tra il nord Europa, con i suoi mercati, ed i paesi che si affacciavano sul Medi- terraneo orientale, porta per raggiungere l’Oriente e le sue aree commerciali.

Di contro, la conformazione montuosa di buona gran parte del territorio e la presenza della malaria lungo i litorali avevano ridimensionato ogni iniziativa industriale, a tutto vantaggio dell’agricoltura e la pastorizia, che restavano le attività principali. La povertà dell’economia dei luoghi aveva, inoltre, dato vita ad un marca- to fenomeno di banditismo al punto da costituire una piaga sociale.

L’accidentalità del territorio, che faceva da cornice alla situazione di precarietà in cui versavano le strade, in gran parte ancora quelle consolari, aveva costituito un ostacolo all’adozione di iniziative che consentissero la navigabilità dei fiumi e canali esistenti o alla costruzione di nuovi corsi d’acqua.

Secondo i regolamenti in vigore, i viaggi in diligenza e i trasporti delle merci erano accompagnati da auto- rizzazione scritta e i viaggiatori dovevano rispettare rigidamente il piano di viaggio e sottoporsi ai controlli di polizia e doganali posti lungo il percorso.

Furono la situazione complessiva della mobilità e la posizione strategica dello Stato a spingere numerosi intellettuali, sull’onda dei successi britannici e della grande eco della stampa, ad avanzare al pontefice Gre- gorio XVI° - salito al soglio pontificio nel 1831, una serie di proposte progettuali per la costruzione di linee ferroviarie. Erano progetti individuali, scoordinati tra loro, disarticolati e tendenti a sopperire a carenze lo- cali più che a realizzare una rete organica.

Nessuno di questi trovò seguito per la forte contrarietà del Papa allo sviluppo del mezzo ferroviario ; il pon- tefice considerava i treni e le locomotive a vapore degli sbuffanti mostri metallici, una manifestazioni del demonio, pericolosi per il cambiamento degli equilibri sociali.160

Di indole contemplativa, egli era portato a diffidare del nuovo mondo di cui le ferrovie erano un simbolo, sostenuto in ciò da una stampa catastrofista e da consiglieri che, con cifre alla mano, gli dimostravano che

l'economia romana non era in grado di gestire sistemi di trasporto troppo costosi, non ammortizzabili.161

Tra le varie domande ce n’erano alcune di notevole rilevanza per le dimensioni ed i territori attraversati. Il 1° agosto 1844 una Società di Bologna, costituita da 12 cittadini dell’alta borghesia e nobiltà, rappresentati dal Marchese Camillo Pizzardi, chiedeva a Roma l’autorizzazione a costruire una rete di strade ferrate tra cui primeggiava la linea Roma- Ancona- Bologna – Piacenza. La risposta fu negativa. Il 25 settembre dello stesso anno la medesima Società presentava la domanda per una line da Ancona a Castelfranco Emilia, in

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Ernesto Petrucci, Il '48 e la questione ferroviaria nello stato pontificio, Storia e futuro, 1.4.2002, pp.4-5,in http://www.storiaefuturo.com/arretrati/2002/pdf/0101011.pdf 161

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direzione del confine col Ducato di Modena; la domanda veniva reiterata il 22 febbraio del 1846 accompa- gnata dall’appoggio del Legato pontificio di Bologna. Le richieste rimasero senza risposta.

Ecco cosa scriveva nel 1845 Carlo Ilarione Petitti nel suo Delle strade ferrate :

« Gli Stati pontifici, posti nell’Italia centrale, sono in condizione molto favorevole per aver linee di strade ferrate, le quali sa- rebbero, non solo interessanti e fondatamente presunte utili nel rispetto del commercio interno; ma offerirebbero ancora al commercio estero tali vantaggi da rendere quelle linee, ove siano bene coordinate, d’una grande importanza, non che ita-

liana, europea.

L’impulso ad illuminati e savi concetti venne al proposito, dalla dotta Bologna; da quella città, la quale fino dall’epoca prima del rinascimento de' lumi in Europa tanto nelle scienze che nelle lettere e nelle arti belle, sempre ha mostrato una singolare intuizione a curare ogni ramo del progresso civile.

Sollevatisi a considerazioni di grave momento, non ristrette entro ai confini d’un gretto municipalismo, ma spinte persino ol- tre la cerchia de’ limiti naturali, non che dello Stato pontificio, della Penisola intera, uomini di largo, avveduto e generoso proposito seppero scorgere che nell’attuale rivoluzione dei traffici del mondo, Bologna e le province che la circondano po- teano tendere a «singolari vantaggi; — che cotesti vantaggi erano loro attribuiti dalla favorevole condizione dei luoghi; — che se avessero trascurato di assicurarseli, avrebbero corso gravi pericoli di decadenza, da cui per ogni verso conveniva pre- munirsi».162

Nel frattempo, nel 1844 un nuovo comitato di alte personalità dell’aristocrazia e borghesia bolognese , formatosi nell’ambito della locale Società Agraria, aveva chiesto, senza successo, di costruire un’ulteriore linea tra Ferrara - Bologna ed il confine toscano.

Nell’ambito della Curia romana , la diffidenza verso la nuova tecnologia era arrivata al punto tale che ai sa- cerdoti era stato vietato di concedere l’assoluzione a coloro che “ …avessero rischiato la vita sopra le mac- chine infernali che violano le leggi della natura sulla velocità”.163

Ai divieti e alle posizioni contrarie si aggiungevano gli articoli di stampa, pronti a descrivere gli effetti nega- tivi che la velocità del treno produceva sui malcapitati viaggiatori rispetto ai trasporti esistenti o a riprende- re e stigmatizzare gli innumerevoli guasti ed incidenti che una tecnologia ancora in fase sperimentale cau- sava.

Nel 1843 il poeta Gioacchino Belli componeva un sonetto in cui metteva in evidenza l’ostilità del Papa e di molti suoi contemporanei per il nuovo simbolo del progresso, vista come opera infernale: se fosse ritenuta buona il Papa se sarebbe già messa a casa sua :

Che nnaturale! naturale un cavolo. Ma ppò èsse un affetto naturale volà un frullone com’avesse l’ale? Cqui cc’entra er patto tascito cor diavolo. Dunque mó ha da fà ppiú cquarche bbucale

d’acqua che ssei cavalli, eh sor don Pavolo? Pe mmé ccome l’intenno ve la scavolo:

st’invenzione è ttutt’opera infernale. Da sí cche ppoco ce se crede (dímo la santa verità) ’ggni ggiorno o ddua ne sentimo una nova, ne sentimo. Sí, ccosa bbona, sí: bbona la bbua. Si ffussi bbona, er Papa saría er primo

de mette ste carrozze a ccasa sua.164

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C..I. Petitti di Roreto, Delle strade ferrate e del miglior ordinamento di esse,, cit., pp.312-3. 163

Giacomo Martina, Pio IX (1846-1878), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, citato in Maurizio Panconesi, Le Ferrovie di Pio IX, Calosci- Cortona, Cortona 2005, p. 19.

164

Gioacchino Belli, Le carrozze a vvapore, 15 novembre 1843 in Paolo Bordini , Altro che il popolo. Contro la scienza è Belli il reazionario, Il Mondo del Belli,3.gennaio 2011, in http://mondodelbelli.blogspot.it/2011/01/altro-che-il-popolo-contro-la-scienza-e.html

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Anche la statua di Pasquino, figura caratteristica della città usava pungere gli eccessi del sistema di governo papale; per questo prendeva la voce e ironizzava sull’atteggiamento di avversione dimostrato dal Papa. Do- po la morte di Gregorio XVI°, rappresentò così la sua comparsa davanti San Pietro lungo la strada per rag- giungere il Paradiso:

“San Pietro, ditemi, ci vuole ancora molto molto per arrivare? …Molto! – rispose San Pietro.

Ma io sono stanco! – gli replicò il Papa.

Vedi… - aggiunse San Pietro- Se tu avessi fatto le strade ferrate, a quest’ora saresti già in Paradiso”.165

Dietro l’aspetto colorito della rappresentazione superstiziosa e dell’ irriverenza popolare, vi era sicuramente la preoccupazione per le implicazioni di natura economica, politica e sociale. Il Cardinal Luigi Lambruschini, Segretario di Stato di Gregorio XVI, era fermamente contrario ad ogni forma di apertura nei commerci in- dotta o sviluppata con la costruzione delle strade ferrate. La motivazione della sua posizione era contenuta nei timori di compromettere la sicurezza dello Stato, nelle implicazioni e ricadute sulla debole produ- zione artigianale e industriale locale; egli temeva che, in caso di apertura dei mercati, queste attività pro- duttive, che sino ad ora erano state possibili per la mancanza di una vera e propria concorrenza, sarebbero state spazzate via dall’invasione dei prodotti provenienti dall’estero.

Petitti riteneva che l'economia dello Stato pontificio potesse essere sviluppata grazie alle sua posizione centrale rispetto alle direttrici di traffico ferroviario della penisola, e che inizialmente aveva contato sulla lungimiranza della Curia Romana , era però preoccupato per la posizione attendista presente a Roma:

«Se a siffatte considerazioni...relative all'interesse d'ogni luogo, aggiungiamo poi ancora quella gravissima prima notata

dell'immenso vantaggio che deriverebbe a tutta la Penisola, e specialmente allo Stato pontificio, del transito lungo di essa, perciò anche di questo, del commercio di tutta Europa coll'Oriente; di leggeri si potrà comprendere come debba premere a questo governo di non lasciare sfuggire l'occasione di procurarsi un tale beneficio. Perocchè, trascurata una tale occasione, si fa, per chiunque sia anche men perspicace, evidentissimo che aperte dovunque le nuove vie di comunicazione, e facilitato con favori e con comodi d'ogni maniera il transito delle persone e delle merci per altra parte, lo Stato che persisterà a non entrare in una consimile sistema, sarà per l'avvenire condannato ad un pregiudicevolissima segregazione; e quindi, non solo non conseguirà alcuno de' profitti ingentissimi che ritraggono quegli Stati dove con più savio consiglio seguesi un opposto si- stema, ma pur anco perderà gli stessi utili bell'attuale condizione di cose.»166

Durante il papato di Gregorio XVI°, il governo pontificio aveva affrontato una pesante crisi economica che lo aveva costretto a ricorrere ai sette prestiti presso banchieri esteri (cinque dai Rothschild di Parigi , uno dai Parodi di Genova e uno dai Torlonia di Roma) , con esborso di interessi elevati (un terzo di tutte le entrate) che rendevano temeraria qualsiasi iniziativa in campo ferroviario. A questo si aggiungeva la carestia che nel 1846 colpì pesantemente le colture cerealicole, principali fonti di sostentamento delle popolazioni più po- vere.167

Ma il trascorrere del tempo aveva lavorato a favore di una revisione critica più possibilista sulla nuova tec- nologia.

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M. Panconesi, Le Ferrovie di Pio IX, cit,. p. 24. 166

C. I.Petitti Delle strade ferrate e del miglior ordinamento di esse, cit., p.359. 167

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Nel 1846 Benedetto Blasi, segretario della Camera di Commercio in Civitavecchia, scriveva al cavaliere Ange- lo Galli, computista generale della Camera apostolica, in una lettera dal titolo Del danno che avverrebbe al- lo Stato Pontificio da qualunque strada ferrata di comunicazione tra la Toscana e l’Adriatico, che qualsiasi collegamento ferroviario tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana che ponesse in relazione il porto di Livorno con la costa Adriatica, avrebbe messo in crisi l’economia dello Stato, a partire dall’attività portua- le e commerciale, ma confermava, nel contempo l’impulso positivo delle ferrovie sulle sorti degli stati:

«… se la Toscana potrà per una facile ed economica comunicazione, quale si è la strada ferrata, metter capo nell’Adriatico, è egli mai possibile che non facesse direttamente , e perciò fuori dello Stato Pontificio quel commercio che altrimenti sarebbe costretta fare con esso? Si veramente! Essa trarrebbe dall’Adriatico, (e forse negletta anche Ancona) tutto ciò che le conver- rebbe. Nè basta. Le nazioni di ponente scalerebbero in Livorno tanto per provvedersi delle merci tratte dall’Adriatico quanto per spedire nell’Adriatico i loro prodotti. Quindi avverrebbe che le provincie meridionali dello Stato sarebbero escluse per la concorrenza della Toscana dal commerciare cogli esteri, perché Livorno diverrebbe l’emporio del commercio di levante e di ponente sul Mediterraneo, sia per effetto della già esistente floridezza del suo commercio e per l’avviamento che già vi esi- ste, sia perché le nazioni a ponente d’Italia e di Europa, seppure non vi trovassero maggiore economia nel costo, vi trove- rebbero sempre, per la vicinanza maggiore, economia di tempo, di trasporto, di pericolo. E a che servirebbe mai per lo Stato Pontificio la unione dei due mari? Alla sola comunicazione del commercio interno fra le provincie settentrionali e meridiona- li; al cambio dei respettivi prodotti di esse; non mai al commercio esterno, perché la Toscana intieramente lo assorbirebbe. Le merci del nord e di levante condotte, per esempio, a Civitavecchia, rimarrebbero affatto inutili pel traffico all’estero, per- céè il regno delle Due Sicilie le avrebbe direttamente dall’Adriatico per mezzo della sua comunicazione ferrata; e le nazioni di ponente, come già dicemmo le trarrebbero da Livorno. Suppongasi che l’Italia non potesse avere altra comunicazione che quella da Napoli a Barletta. Non forse Napoli diverrebbe sul Mediterraneo l’emporio del commercio di levante e ponente in Italia? Invece aprasi la comunicazione di Ancona a Civitavecchia; questa toglierà a Napoli quel beneficio, perché le nazioni di ponente verranno a commerciare in Civitavecchia e non progrediranno a Napoli. Nella guisa stessa se Livorno potrà con- giungersi coll’Adriatico, assorbirà il commercio che potrebbe fare Civitavecchia.»168

A sua volta Angelo Galli elencava alcune delle obiezioni che venivano mosse alle strade ferrate dagli am- bienti conservatori di allora: accrescimento del pauperismo, danno ai commercianti, compromissione della sicurezza degli stati e interna, facilità di contrabbando. A queste contrapponeva nel suo studio Sulla oppor- tunità delle strade ferrate nello Stato pontificio e sui modi per adottarle i vantaggi che sarebbero derivati dalla costruzione di una vera e propria rete di trasporto nelle regioni pontificie, partendo dall’osservazione di quanto accadeva alle economie degli stati che le avevano sperimentate: i principali nodi commerciali dell’Adriatico e del Mediterraneo avrebbero migliorato la circolazione e gli scambi a totale beneficio delle attività produttive:

« Animato l'uomo da irresistibile tendenza di migliorare la sua condizione, tutti i mezzi fisici e morali costantemente asso- cia, impiega ed a questo scopo incessantemente dirige. E se dopo profondi studi ed immense fatiche, raggiunge una va- gheggiata miglioria, sorge immediatamente il desiderio di altra, cui pur altra succede, ed in tale alternativa di continui de- sideri, di brevi e fallaci lusinghe, consuma la vita....Molte sono queste utili invenzioni e scoperte, che possiam dire ogni co- sa di cui profittiamo, intese d'invenzione nel suo nascere; ma calcolandosi la loro importanza in ragione dello slancio e del- la cossa che più o meno rapida, più o meno estesa producono nella società, passano alcune quasi inosservate; altre fanno l'effetto delle grandi catastrofi, e sono vere rivoluzioni sociali. Appartengono a questa classe, fra le altre, le invenzioni della stampa della polvere pirica, della bussola, l'applicazione in ultimo del vapore alle manifatture ed ai trasporti che si cono- scono sotto il nome di strade ferrate.»169

Bisognò attendere la morte di Gregorio XVI° , avvenuta il 1° giugno 1846 e l’ascesa al pontificato di Pio IX°, il marchigiano Giovanni Maria Mastai Ferretti, per registrare delle decisioni operative su progetti di co- struzione delle strade ferrate. Il nuovo pontefice , che si era dimostrato attento alle nuove idee innovatrici che stavano attraversando l’Europa, raccoglieva le simpatie delle forze liberali e dei laici di tutta la penisola

168

Benedetto Blasi, Del danno che avrebbe lo stato pontificio da qualunque strada ferrata di comunicazione, Roma, Tipografia Belle arti 1846, , pp.14-5. 169

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per le sue aperture a politiche di libero scambio e di modernizzazione, di impronta federalista, che sino ad ora erano rimaste impermeabili ad ogni novità riformatrice. Così, le pressioni dei sostenitori della ferrovia non si fecero attendere molto.

Alcuni giorni dopo la sua elezione al soglio pontificio, una delegazione di notabili bolognesi, sostenuti dalla curia locale, rinnovava al pontefice l'istanza che aveva avanzato alcuni mesi prima a Gregorio XVI° con cui :

« … implorava dal sovrano la facoltà d'intraprendere studi tecnici per due tronchi di strade ferrate, l'una dal Po sino a Bolo- gna, l'altra da Bologna sino in Toscana per la valle del Reno, e mentre accennava alle ragioni e ai benefici di siffatta intrapre- sa, tanto per la generale utilità quanto per le speciali condizioni del Paese nostro...protestava delle vedute disinteressate dei richiedenti per lo unico fine di giovare al bene pubblico».170

Dietro l'istanza non c'era solo l'interesse della comunità ma anche il velato disegno dall'Austria per legare la programmata rete del Lombardo Veneto al porto di Livorno al fine di garantirsi una base navale per la pro- pria flotta nel Tirreno che potesse contrastare l'aggressività sempre più incalzante e le mire espansionisti- che del Regno di Sardegna.

L’8 luglio 1846, appena salito al soglio pontificio, Pio IX° nominò una Commissione consultiva per le Strade Ferrate dello Stato di Sua Santità, composta da prelati e laici con lo scopo di ricevere ed esaminare i vari progetti di strade ferrate ed elaborare una proposta organica.

Il 7 novembre dello stesso anno , grazie al lavoro della Commissione, il Segretario di Stato Cardinale Gizzi firmò la Notificazione con la quale venivano indicate le linee che il governo Pontificio considerava di prin- cipale importanza e delle quali si autorizzava la costruzione:

1) quella che da Roma per la valle del Sacco mette al confine Napolitano presso Ceprano, 2) quella che congiunge a Roma il porto di Anzio;

3) quella di Roma a Civitavecchia;

4)

quella che da Roma correndo lungo i luoghi più popolosi dell’Umbria, com’è principalmente Foligno e la valle del fiume Potenza, mette in Ancona: e quindi da Ancona a Bologna seguendo le tracce della via Flaminia Emilia.171

La Notificazione stabiliva, inoltre, i criteri di presentazione delle domande e i requisiti per essere prese in esame:

-descrizione della linea con le relative informazioni artistiche ed economiche; -tempi di progettazione, costruzione, di durata della concessione;

- valore della cauzione per garantire gli accordi previsti in preliminare, in convenzione e i costi d’ esproprio dei terreni.,

-l’esposizione delle risorse materiali e finanziarie con cui condurre l’impresa. .

I criteri di selezione delle imprese erano il frutto delle esperienze fino ad allora maturate in Europa; ma do- ve si erano succeduti troppo ricorrentemente fallimenti societari, vuoi per gli ostacoli incontrati in corso d’opera a causa di progetti definitivi approssimativi, vuoi per gli errati preventivi sui costi di costruzione che portavano ad esaurire i fondi prima di concludere le opere e costringevano a ricorrere nuovamente al mer-

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Delle cose operate da una società di cittadini bolognesi a fine di promuovere la costruzione di una strada ferrata dal Po per Ferrara Bologna al confine toscano. Notizie e documenti pubblicati dalla società stessa nell'agosto del 1847, Bologna 1847, p.13 in S. Maggi, Le ferrovie, cit., p.31.

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cato azionario col rischio di far fallire l’impresa e i finanziatori, vuoi per la difficoltà di reperire finanziamenti se non con l’assicurazione da parte di governi di corrispondere degli interessi.

Definendo le linee portanti del sistema ferroviario pontificio, che prevedevano di raggiungere le zone di confine, la Commissione creava le condizioni perché la rete potesse, in armonia con l’altro obiettivo dell’abbattimento delle barriere doganali, innestarsi con quella degli stati confinanti: Regno delle due Sici- lie, Granducato di Toscana, Ducato di Modena, Lombardo Veneto. Era un vero e proprio piano regolatore che non dava spazio all'estemporaneità ma organicità ad ogni proposte di costruzione. Se era pur vero che nello Stato Pontificio non era stato ancora costruito nemmeno un metro di binario , la situazione nelle re- stanti parti della penisola non era allettante: le linee in costruzione ammontavano solo a 260 km, realizzati nel Lombardo Veneto, Granducato di Toscana e Regno delle Due Sicilie.

La celerità con cui Pio IX° affrontò la questione ferrovie può essere ricondotta alla consapevolezza che solo lo sviluppo dei commerci avrebbe dato impulso all’economia e risollevato lo Stato dalla grave prostrazione

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