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Anche nel vecchio continente, dove il sistema di trasporto su rotaia era conosciuto e utilizzato già nel Me- dioevo, la presenza delle miniere e le accresciute necessità estrattive e trasportistiche avevano fornito una forte spinta alla ricerca di soluzioni innovative. In uno scenario geopolitico diverso da quello attuale, la prima esperienza ferroviaria significativa vide la luce in Francia, nel 1832, seguita dal Belgio e Regno di Ba- viera (1835), poi dalla Sassonia, dall’’Impero Austriaco (1838), dal Regno delle due Sicilie e dai Paesi Bassi (1839).

Sulla progettazione e costruzione della rete europea pesò naturalmente l’esperienza britannica, la cui tecnologia e il know- how erano avanti di 10 anni rispetto alle altre realtà e per questo furono i più appli- cati. Le maestranze britanniche, dai progettisti ai tecnici, macchinisti, operai, fino agli sterratori, godevano di tanta stima al punto che la loro opera veniva richiesta all’estero o portata in garanzia con la proposta di costruzione di linee, vendita di locomotive o gestione del servizio, fatta dalle compagnie britanniche. Se la tecnologia britannica, generalmente assunta a modello, aveva indotto a mantenere alcune caratteri- stiche, quali lo scartamento o la guida a sinistra e la segnaletica, le ferrovie continentali introdussero, tutta- via, alcuni caratteri distintivi.

Il primo segno di differenziazione, nonostante l’ omogeneità delle scelte, è riscontrabile nel peso strategi- co e politico che ebbe lo scartamento sullo sviluppo del sistema continentale. L’acquisto di locomotive, carri o materiali usciti dagli opifici britannici e la consulenza richiesta agli ingegneri ferroviari di quel paese, in particolare a George Stephenson e al figlio Robert, indussero gli investitori a preferire come distanza tra rotaie la misura introdotta da Stephenson, a meno di ragioni diverse, generalmente di natura politico- militare, imposte dai governi. Quelle scelte, condivise abbastanza uniformemente, escluse Russia, Finlan- dia, Spagna e Portogallo ed avvenute in modo casuale, non preordinato né contestuale, si rivelarono, col passare del tempo, l’elemento fondamentale per consentire l’interconnessione delle reti dei singoli stati, germe per scenari più evoluti, come la comparsa di iniziative federative europee, all’indomani della prima guerra mondiale.

Un altro elemento di distinzione riguardò la scelta di una sagoma limite più ampia. Pur comportando costi aggiuntivi nella produzione dei mezzi rotabili e nella costruzione delle gallerie, un maggior volume consen- tiva di migliorare il comfort delle vetture passeggeri e aumentare la capacità di carico dei carri. La sagoma limite era stata definita Inizialmente per linea. Fu anche in questo caso la prospettiva dell’interconnessione delle tratte e dei potenziali vantaggi offerti a spingere i vari investitori e gli stati ad orientare, inizialmente, le scelte verso soluzioni uniformi. Come vedremo più avanti, la necessità di convergere su scelte tecniche e d’esercizio condivise pose, col tempo, gli stati di fronte all’esigenza di fornire al proprio interno indirizzi omogenei ai programmi di sviluppo e di concludere con i paesi limitrofi accordi sull’adozione di comuni criteri di costruzione che permettessero la circolazione dei treni tra stati differenti. Affrontata ufficialmente

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la questione negli anni '70, Il primo protocollo tra Stati che uniformava le norme tecniche di costruzione delle ferrovie venne approvato a Berna nel 1907, e reso esecutivo in Italia dal 1908.

La distinzione maggiore rispetto al modello britannico si ebbe, però, sulle autorizzazioni a costruire. Mentre i governi britannico e statunitense, rifacendosi ai principi economici del laissez faire, (secondo cui lasciando spazio e garantendo la libera iniziativa privata- quindi senza intromissione dello Stato - si contri- buisce al bene comune), avevano assunto una posizione defilata nella concessione delle autorizzazioni (pro- cesso dal basso verso l’alto), nel continente le richieste ebbero una trattazione diversa; esse venivano presentate ai governi o ai sovrani che prima di approvarle o respingerle entravano nel merito, stabilendo i percorsi e dettando le linee progettuali. Mossi da ragioni diverse, i governi continentali compresero, però, fin da subito che dietro l’introduzione della nuova tecnologia si celava una forte spinta rivoluzionaria. Sia che l’analisi delle ricadute fosse positiva o negativa, le ferrovie avevano una valenza nazionale che richiede- va necessariamente il coinvolgimento dello stato. Pianificando le scelte, programmando le costruzioni, si realizzavano i collegamenti più opportuni tra le città ed i territori, si evitava di ripetere l’errore delle dupli- cazioni delle linee, che avrebbero sottratto territorio e risorse alla collettività e si tenevano sotto controllo gli obiettivi strategici dello stato, non solo in materia economica, sociale o politica, ma soprattutto militare, e di controllo dell’ordine pubblico.

La realtà continentale era di continua turbolenza, segnata da numerose rivolte e proteste popolari e que- sta condizione influenzava qualsiasi investimento. Prima che ad aspetti economici, le ferrovie dovevano ri- spondere a fini strategici militari per garantire la sopravvivenza dei governi in carica: consentire di reagire rapidamente per controllare e sedare eventuali insurrezioni interne, garantire la piena mobilità dell’esercito in caso di guerra, non pregiudicare la sicurezza interna e garantire la difesa in caso di attacco esterno. D'altra parte, il variare delle sorti militari di uno stato diventava un rischio per l’investitore che, ini- zialmente autorizzato a costruire da uno stato, avrebbe potuto trovare la propria compagnia ferroviaria di- visa tra stati, come successe ad esempio per la Venezia – Milano, trovatasi divisa tra l' impero Austriaco e l'appena nato Regno d'Italia, con i conseguenti problemi di amministrazione, o ammortamento degli inve- stimenti, che ne derivarono.

Fu, quindi, per la loro natura strategico militare che le ferrovie continentali si trovarono invischiate nella politica dei vari governi. Si aggiunga che la funzione di collegamento sul territorio e tra territori veniva percepita dai governi, oltre che come un volano per l’economia dello stato, come un modo per cementare l’unità del paese, ovvero un'opportunità per creare coesione tra comunità culturalmente diverse attorno al- la stessa autorità, ovvero instillare il senso di appartenenza ad una nazione, la medesima idea di nazione. La facilità e rapidità di spostamento incrementavano gli scambi, favorivano l’incontro tra persone, il con- fronto sui temi politici. Le affinità tra territori erano più riconoscibili. Laddove lo stato non si identificava con la nazione, ma dove lingua, cultura, tradizione, storia erano le medesime, le ferrovie erano il punto di contatto che spingeva alla ricerca di legami etnici e simbolici, al recupero delle tradizioni collettive, alla condivisione della stessa storia, alla ricerca di una patria comune. Come vedremo più avanti, Belgio, stati

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tedeschi e italiani ricevettero dalla costruzione dei sistemi ferroviari una spinta formidabile al consolida- mento dell’unità dello stato o alla costruzione del nuovo stato.

Nella nostra penisola, piena di vestigia che ne decantavano la perduta gloria e grandezza ma suddivisa in tanti staterelli, di cui una buona parte era sottoposto al controllo politico diretto o indiretto degli Asburgo, le strade ferrate furono viste dalle classi sociali e dagli uomini che avrebbero dato vita al risorgimento, come il mezzo per abbattere le tante barriere e gabelle doganali, raggiungere l’unità economica, far rina- scere il senso di appartenenza civile e politica. A questo concorse la stampa, attraverso riviste e periodici, fornendo resoconti sull’evoluzione del sistema, sostenendone l’utilità e facendo circolare le idee di integra- zione economica, sociale e politica.

Il risultato fu che le ferrovie vennero percepite come un elemento portante dell’infrastruttura sociale e cul- turale di un paese, talmente determinante nella tutela dell’unità nazionale al punto che lo Stato stesso doveva in qualche modo guidarne la regia.

I governi, laddove riconoscevano l’importanza strategica dei collegamenti ferroviari ma i capitali privati ne- cessari alla loro realizzazione erano di difficile reperimento, non si sottrassero dal sostenere direttamente o indirettamente il loro finanziamento. La funzione dirigistica e l’atteggiamento autoritario assunti nella gestione delle autorizzazioni contrastavano, comunque, con il laissez faire britannico e statunitense, atten- to a non ostacolare la libera impresa e ad alterare il principio della concorrenza. In ballo c’erano però tanti e tali interessi che il clima di costante instabilità politica aleggiante nel continente costrinse e convinse i governi ad assumere l’iniziativa, abbandonando ogni remora attendista.

Non sarebbe, comunque, trascorso molto tempo prima che il dibattito sulla presenza e ruolo dello stato nel sistema ferroviario, che aveva investito gli stati continentali, si allargasse anche alla Gran Bretagna. Nel 1844 si registravano 240 richieste di autorizzazioni a costruire presentate in Parlamento, al punto da co- stringere il governo a correre ai ripari e a nominare una Commissione per mettere ordine nelle concessioni; il lavoro della Commissione si arenò per le opposizioni del capitale privato; il paese sembrava percorso da una vera e propria euforia incontenibile, tanto da contare all’inizio degli anni '50 su una rete di 11.000 km di binari.45

Nel 1866, era il capitale privato a fare appello allo Stato; dopo l’ennesima difficoltà del sistema fi-

nanziario, che portò al crollo dei mercati, le società in difficoltà ricorsero, seppur senza esito, all’aiuto del governo.

Un elemento di ulteriore distinzione tra la terra di Albione e il Continente fu quello della proprietà dei suoli. Mentre nel primo caso le Compagnie diventavano proprietarie dei terreni di posa dei binari, nel se- condo queste li prendevano in concessione per un determinato periodo e poi li restituivano al demanio. Spesso, nell’atto di concessione venivano previsti forme di finanziamento pubblico, erogate direttamente o tramite garanzia di tassi di redditività delle quote obbligazionarie, che lo stato poi cercava di recuperare con tasse sulle tariffe.

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Altro aspetto di diversificazione è riscontrabile nella questione tariffaria. Il mondo anglosassone sviluppò la sua rete di trasporti ferroviari in regime di puro capitalismo, libero da ingerenze statali, decidendo le tariffe con criteri di concorrenza, secondo le leggi del libero mercato. Secondo questo modello i prezzi non erano sempre uguali, variavano da linea a linea in base alla domanda ed alle condizioni di monopolio a volte pre- senti, con vive proteste da parte della popolazione. In forza dei differenti sistemi giuridici e politici e dell’apporto finanziario, i governi continentali non solo intervenivano nella pianificazione delle costruzioni, ma anche sulle scelte tariffarie concernenti sia il trasporto interno che internazionale nel caso le linee vali- cassero i confini di stato; nella maggior parte dei casi mantenevano basse tariffe quasi a sottolineare la na- tura di pubblico servizio offerto dalle varie compagnie ferrovie, gestite in regime di compartecipazione sta- tale.

Al di là dell’aspetto tariffario, le scelte programmatiche dei governi non erano sempre omogenee; andava- no dall’attuazione di una rete unificata e rigidamente controllata dallo stato, come nel caso belga, alle ferro- vie in cui erano coinvolti pubblico e privato, come nel caso di Francia e amministrazioni tedesche. Tutti, co- munque, erano d’accordo nell’intervenire sulla gestione dei servizio, attraverso azioni di regolamentazio- ne e controllo, anche dei minimi dettagli.

A tutti era chiara l’importanza delle relazioni internazionali, condivisa dagli imprenditori, investitori finan- ziari, rappresentanti delle forze politiche. La continuità delle reti tra stati, grazie alla comune adozione del- lo scartamento standard faceva fiorire ipotesi di collegamenti tra il porto di Amburgo e quello di Trieste o verso l’oriente attraverso il porto di Brindisi ( la valigia delle Indie). L’ostacolo, prima che politico, era rappre- sentato dalla difficoltà d’accesso ai vari sistemi nazionali, contraddistinti ognuno da proprie regole di co- struzione e d’esercizio. Queste differenze tecniche, ancorché minime, rappresentavano una barriera al concepimento di una rete paneuropea. La questione fu affrontata ufficialmente in una serie di conferenze internazionali tenutesi a Berna tra il 1878 e il 1886; qui si pose l’esigenza di uniformare i regolamenti tecnici ferroviari attraverso precisi accordi politici e giuridici che sancissero l’accesso alle varie reti e la loro coope-

razione, obiettivo che, come accennato, fu raggiunto nel 1907 col protocollo di Berna.46 Tuttavia rimasero

fuori da quei protocolli i segnali e i tipi di elettrificazione, quest’ultima presumibilmente prematura, tanto da complicarne ancor oggi la circolazione.

Le ferrovie continentali si diffusero nelle fasi iniziali in modo disomogeneo, passando da periodi di forte slancio ad altri di contrazione. In fase di recesso, gli stati prendevano direttamente l’iniziativa, consapevoli del loro peso strategico sul sistema economico nazionale. I collegamenti riguardavano in prevalenza le città più densamente abitate, le aree a maggior sviluppo commerciale ed industriale, i centri portuali.

A partire dagli anni ’50 allo sviluppo del sistema ferroviario contribuì il cambio del clima politico generale Infatti, dopo le rivoluzioni del ‘48, cadute le monarchie assolute e sostituite con governi costituzionali e varie forme di rappresentanza parlamentare, la partecipazione al potere politico si era allargata ad una fa-

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scia più ampia di categorie sociali. Grazie a questi nuovi ruoli, borghesia imprenditoriale e intellettuale, co- munità locali, associazioni dei lavoratori presero a caricare le ferrovie di nuovi significati che, da una parte coglievano le opportunità di sviluppo economico, di collegamento tra loro i vari centri cittadini, dall'al- tra guardavano con sempre maggior forza oltre i confini del proprio Stato. L'economia non era solo un fatto localistico ma cercava sbocchi su nuovi mercati, interni ed esteri.

Tra le esigenze economiche c’era la necessità di ridurre i costi per trasporto di materie prime dai centri mi- nerari e produttivi agli opifici per consentirne la lavorazione e per incrementare la produzione di manufatti da vendere sui mercati interni ed esteri; c’era la necessità di far arrivare nel minore tempo possibile le der- rate alimentari, soprattutto quelle deperibili per stimolare la produzione diversificata in campo agricolo. Spesso l’obiettivo di migliorare gli scambi commerciali passava attraverso il collegamento con i sistemi di trasporto acqueo, canali navigabili o porti, tanto che quelli di maggior rilievo divennero ben presto dei terminali ferroviari.

Con le merci e le persone si spostavano anche le idee. Comparivano sulla scena internazionale nuove dot- trine di pensiero politico, elaborate e portate avanti dalle nuove forze sociali che avevano trovato spazio di rappresentanza sulla spinta della rivoluzione industriale. Affiorava un forte bisogno di partecipazione alla vita politica, di concorrere alle scelte decisionali; maturavano nuove istanze di giustizia sociale. La natura e la pervasività di questi movimenti di pensiero resero angusti i confini dei singoli stati, portarono a delineare scenari e relazioni economiche e sociali più complesse, orizzonti politici più avanzati, sino ad al- lora impensabili. Lentamente si prese a concepire una mobilità sempre più allargata, dapprima con sem- plici collegamenti cittadini, poi con i grandi centri produttivi, commerciali e portuali per arrivare a progetta- re relazioni lungo direttrici che andassero oltre i confini dei propri stati. Ad ogni modo, laddove il territorio era prevalentemente montuoso, gli investimenti ferroviari rallentavano ogni programma di sviluppo e di in- vestimento, come era nel caso della rete svizzera. Ad esempio, la confederazione svizzera, che disponeva di un debole sistema industriale e di scarse risorse economiche, riuscì a realizzare una linea dorsale lungo le vallate alpine per collegare, pur con grandi difficoltà ed in ritardo, alcune sue grandi città; le storiche re- lazioni territoriali con città francesi e tedesche di confine portarono quel primo nucleo di rete a raggiun- gere le frontiere ed a collegarsi con le corrispondenti ferrovie estere. Fu, infine, grazie alla sua centralità nello scacchiere continentale, snodo indispensabile per collegare i porti del Nord al Mediterraneo e Atlanti- co, che iniziò ad essere coinvolta in progetti di ampi collegamenti internazionali, mediante tunnel alpini. Dopo quello del Frejus , completato tra Francia e Italia nel 1867, vide la luce il traforo del San Gottardo, approvato dal parlamento federale nel 1871 e aperto al traffico nel 1882. L’opera fu finanziata per oltre la metà dall’Italia e la rimanente parte da Germania e Svizzera in parti uguali. A Italia e Germania, che si as- sunsero i costi maggiori, gli interessi in gioco apparivano ben chiari: più facile e meno caro approvvigiona- mento del carbone tedesco e incremento delle attività portuali da parte italiana, sviluppo delle attività commerciali e sfruttamento della nuova direttrice di traffico con le regioni dell’Asia e Africa che si affac- ciavano sull’oceano Indiano, grazie all’aperto canale di Suez, da parte del Nord Europa. Sarebbero seguiti

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altri progetti di costruzione di tunnel come quello del Sempione e di attraversamento del Reno a creare ri- percussioni sui commerci mondiali. All’inizio del 900 la trazione elettrica aumentava ulteriormente l’affidabilità del sistema ferroviario continentale.

In merito ai progetti di tunnel vanno ricordati anche l’idea di attraversare la Manica, avanzata nel 1802 , ri- presa dai progettisti ferroviari a metà secolo e accennata con alcune gallerie di prova nel 1881, ma senza esiti per i rischi militari connessi. Negli anni 60 anche la Spagna si vide presentare la richiesta di un tunnel con l’Africa. La proposta, caldeggiata anche da imprenditori francesi con interessi nelle colonie francesi, fu

accantonata perché la tecnologia di allora non era in grado di raggiungere simili traguardi.47

Le società a capitale privato che avevano scelto di investire nelle strade ferrate avevano rivolto, fin dalla prima comparsa, la loro attenzione alle tratte potenzialmente più appetibili sul piano economico, cercando di realizzare il maggior utile d'impresa possibile, anche attraverso posizione di monopolio che consentiva- no loro di imporre condizioni tariffarie favorevoli al rientro più rapido possibile degli investimenti e alla distribuzione di dividendi agli azionisti, cui subordinavano ogni altra esigenze di mobilità sociale. Mal sop- portavano la concorrenza o le intromissioni tariffaria da parte dei governi che avrebbero ridotto i tassi di redditività preventivati; di conseguenza, facevano di tutto per far valere i propri diritti, anche contro le pro- teste popolari, e non rinunciare ai profitti che distribuivano agli azionisti sotto forma di lauti dividendi o che reinvestivano in nuove intraprese.

In contrasto con questa visione di massima rimuneratività c'era quella delle comunità locali che, al di là dei calcoli di redditività delle Compagnie, chiedevano che venissero realizzati investimenti per nuovi collega- menti al fine di dare risposta alle esigenze sociali dei territori, prerogativa dello Stato. Queste istanze ali- mentarono la speculazione politica, ad ogni livello istituzionale, producendo innumerevoli casi di populismo elettoralistico, a danno delle comunità, o intrecci con gruppi imprenditoriali. La politica si era irreversibil- mente invischiata con le ferrovie che, dimostratesi fondamentali per il progresso economico e industriale dei territori collegati, divennero una vera fonte di potere.

In questo quadro d'insieme si inserivano nuove spinte, si delineando nuovi equilibri. L’aumento della do- manda, le esigenze di maggiore sicurezza e la necessità di aggiornare una tecnologia in costante trasforma- zione, compresi il potenziamento dei rotabili, l’introduzione di nuovi sistemi di circolazione e segnalazione e l’applicazione di nuove procedure di gestione, avevano accresciuto i costi di esercizio e ridotto di conse- guenza i guadagni. La necessità di rientrare dagli investimenti portava le Compagnie a rinunciare ad impe- gnare i propri capitali in rami secondari, poco appetibili se non troppo rischiosi, o ad ammodernare le li- nee. Nel frattempo, anche le necessità degli stati, che inizialmente erano stati a guardare ed avevano la- sciato l’iniziativa in mano al mercato, erano cambiate. Le esigenze, oltre che militari, riguardavano il campo economico, la domanda di mobilità, l’ integrazione tra territori, la prospettiva, in alcuni casi, di consolidare l’identità nazionale e la dimensione sociale, di rinnovare o costruire nuovi legami culturali.

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Il sistema delle imprese sostenute dai capitali privati, già limitato dai regolamenti imposti dagli Stati, non era non era in grado di reggere di fronte al crescere della domanda sociale, ma nel contempo non inten- deva rinunciare alla propria posizione di mercato, a volte di monopolio latente.

Fino ad allora l’apporto di capitale privato non era stato privo di inconvenienti.

Laddove i sistemi finanziari e bancari erano sviluppati ed era relativamente facile reperire capitali da inve- stire attraverso l'emissione di titoli azionari intestati alle costituende Società anonime, si determinò una frenetica e ossessiva corsa a richiedere permessi di costruire, con la speranza di facili guadagni derivanti

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