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I contesti entro cui nascono i due nodi

Gli studi condotti sui rapporti fra politica e società sottolineano la necessità di elementi come la fiducia sociale, le reti di solidarietà orizzontale, l’associazionismo, la partecipazione dei cittadini ad iniziative pubbliche per il buon funzionamento di una democrazia. La letteratura ha spesso interpretato la loro esistenza come l’indicatore di una società matura sottolineando, in riferimento al contesto italiano, la presenza di evidenti differenze territoriali nello sviluppo dei suddetti elementi. In particolare, per molto tempo l’idea del dualismo economico fra Nord e Sud è stata accompagnata da un lato dal perdurare dello stereotipo del “familismo amorale” [Banfield 1976] associato alla cultura meridionale, e dall’altro lato dalla convinzione che tali differenze hanno origine nel diverso passato storico delle due aree del paese [Putnam 1993].

Come evidenziato da diversi studi, più che dall’“arretratezza”, i processi di cambiamento nel Mezzogiorno sono stati influenzati dalla presenza di deboli forme di regolazione sociale; essi hanno cioè risentito fortemente dell’incapacità delle élités politico-istituzionali di recepire il cambiamento e di mediarlo con le condizioni pre-esistenti [Fantozzi 1997]. Il principale fattore di regolazione sociale, in queste zone, è stato a lungo rappresentato dal clientelismo, dapprima nella forma di clientela fondiaria notabilare e poi in quella di clientelismo politico, entrambe caratterizzate dall’instaurarsi di relazioni in cui l’appartenenza, tipico elemento comunitario, si unisce, fondendosi alla razionalità di scopo, su cui invece si basa l’agire dell’associazione [Ibidem]. La manipolazione delle appartenenze e la diffusa sfiducia istituzionale sono degli elementi che influenzano, in misura differente, la nascita e lo sviluppo dei movimenti collettivi che, rispetto ad altre zone del paese, sono nel Mezzogiorno molto più sporadici e frammentati e molto meno efficaci dal punto di vista dei risultati raggiunti. Le mobilitazioni collettive che si susseguono al Sud assumono, infatti, forme più simili alla rivolta o alla sommossa (si pensi ad esempio ai fatti di Reggio Calabria del ’70-’71 [Bova 1995]), che non ai movimenti sociali intesi alla maniera di Melucci come il conflitto fra due attori per l’appropriazione di risorse che entrambi valorizzano [Melucci 1982]. Inoltre, il carattere localistico della politica e il suo riprodursi attraverso relazioni di tipo clientelare favorisce la dispersione degli interessi e la loro organizzazione in una molteplicità di domande individuali o di piccoli gruppi, producendo quella che Catanzaro definisce una situazione di “assenza di azione collettiva nel Mezzogiorno” [Catanzaro 1986].

L’analisi condotta da Catanzaro trae origine dalla volontà di spiegare le cause della bassa partecipazione politica e associativa nel Sud. A partire dai numerosi contributi forniti dalla letteratura sul Mezzogiorno, studi che di volta in volta valorizzano alcuni aspetti piuttosto che altri nel dar conto delle specifiche forme assunte dai processi di mutamento sociale in quest’area dell’Italia, Catanzaro distingue due grandi approcci: il primo tiene conto delle radici storiche dell’assenza di conflittualità, mentre il secondo si focalizza sulle specificità odierne del Mezzogiorno119. All’interno di questo schema teorico di riferimento, Catanzaro avanza la sua tesi sull’assenza di azione collettiva nel sud dell’Italia. L’ipotesi di partenza è che le specifiche caratteristiche assunte dal processo di mutamento che attraversa il Mezzogiorno, dall’Unità d’Italia fino al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, determinano una situazione di assenza di conflitto nelle forme di azione collettiva.

Come abbiamo avuto modo di sottolineare nella prima parte del presente lavoro, il conflitto è l’elemento intorno al quale si costruisce la definizione della “posta in gioco” che muove gli attori collettivi. Indagare le ragioni della sua assenza permette, quindi, di comprendere in maniera più approfondita le cause della scarsa partecipazione politica e associativa nel Mezzogiorno. La prospettiva avanzata da Catanzaro tiene conto innanzitutto delle caratteristiche del Mezzogiorno pre- unitario e degli effetti che la costituzione dello Stato nazionale ha sulla popolazione meridionale, con particolare riferimento alla struttura economica che caratterizza il sud. Fino alla seconda guerra mondiale l’impatto del mercato sul Mezzogiorno è minimo e i rapporti fra il centro e la periferia sono

mantenuti da particolari figure di mediatori politico-sociali: la piccola borghesia intellettuale, connessa all’impiego pubblico, e la mafia. Dopo il secondo conflitto mondiale, invece, il mercato comincia a far sentire i suoi effetti sulla società meridionale: accanto alla diminuizione della produzione familiare per l’autoconsumo aumenta, infatti, il reddito pro-capite, e di conseguenza la domanda di beni di consumo. Anche il ruolo dello Stato viene percepito in maniera diversa: da soggetto “oppressore” esso diviene una istituzione adibita a svolgere essenzialmente funzioni di protezione e assistenza. In effetti, se nella fase storica precedente, la protezione delle masse avviene per opera dei notabili locali, ora tale compito è svolto dallo Stato che, non potendolo esercitare direttamente a causa della sua persistente lontananza dalla “periferia”, lo esplica erogando continui flussi finanziari verso le zone dell’Italia meridionale. La trasformazione del ruolo dello Stato va di pari passo con quella dei “mediatori” che adesso non solo gestiscono i rapporti fra il centro e la periferia, ma si occupano anche dei flussi finanziari provenienti dallo Stato. Si tratta di figure nuove riconducibili principalmente a tre categorie: gli imprenditori politici (uomini di partito e amministratori pubblici), gli intermediari professionali (per esempio, i liberi professionisti) e quelli socio-sindacali [Ivi, 177]. La crisi del notabilato fondiario e la maggiore integrazione delle regioni meridionali nel contesto nazionale sono alla base dello sviluppo del clientelismo politico che, come accennato, per molto tempo svolge un ruolo di regolazione sociale ed economica. Come sottolineato da Fantozzi: “l’appartenenza politico-clientelare utilizza i partiti politici per dare continuità ai vecchi gruppi notabilari e per permettere l’ascesa di nuovi strati sociali borghesi (…). Se poi analizziamo il funzionamento sistemico, notiamo come nel dominio delle appartenenze politico-clientelari si producono sia consenso che sfiducia. In questo dopoguerra, infatti, per molti anni i partiti di governo hanno visto crescere o rimanere stabile il loro consenso elettorale, mentre decresceva la fiducia nelle istituzioni” [Fantozzi 1997, 48-49].

La situazione appena descritta non permette, secondo Catanzaro, il passaggio da un’economia agricola a una economia industriale, e ciò determina una situazione definibile in termini di “salto della fase di edificazione di una società individualistica di mercato” [Catanzaro 1986, 187- 188]. Il mancato sviluppo di una vera e propria società di mercato connessa all’industrializzazione, e il persistere di figure di mediatori che si occupano di gestire i rapporti con lo Stato certamente influiscono sull’assenza, nel contesto meridionale, di quelle associazioni direttamente collegate agli ambienti industrializzati. A ciò si aggiunge il fatto che la “conquista” dei diritti di cittadinanza civile e sociale nel Mezzogiorno non avviene attraverso un processo endogeno; ciò significa che la diffusione di tali diritti si verifica in assenza di alti livelli di rivendicazione da parte della popolazione, contrariamente a quanto avviene, invece, laddove si sviluppa l’industrializzazione. In queste aree, infatti, gli effetti disgreganti del mercato alimentano naturalmente la richiesta di diritti di cittadinanza. Per dirla con Catanzaro, questo vuol dire che nel Mezzogiorno “l’assenza nei soggetti di un principio individualistico di agire di mercato e insieme della consapevolezza di produrre ricchezza per la collettività si è combinata con la rapida espansione dei diritti di cittadinanza civile e sociale diffusi per omogeneità con le zone industrializzate del paese e senza la contropartita di una lotta condotta per ottenerli” [Ivi, p. 188]. In altri termini, la disgregazione del tessuto sociale meridionale, alimentata dalla presenza di una massa di popolazione interessata a perseguire obiettivi individualistici in forma egoistica, ricorrendo anche all’aiuto di quei mediatori di cui si è parlato, impedisce l’emergere di forme di azione collettiva finalizzate ad ottenere il riconoscimento di determinati diritti.

La “fase saltata” di cui parla Catanzaro riferendosi al contesto meridionale, o meglio, il mancato passaggio da un’economia di tipo agricolo a una di tipo industriale non sembra prodursi nelle zone dell’Italia centro-settentrionale. Al contrario, in questi territori le conseguenze disgreganti del processo di industrializzazione sulle comunità locali vengono mitigate sia dal ruolo del mercato sia dalla regolazione socio-istituzionale dell’economia [Ramella 2001a].

Come è noto, questi territori sono espressione di quelle che Trigilia definisce “subculture politiche territoriali”; sono cioè aree che oltre ad essere molto omogenee al loro interno per quel che riguarda la cultura politica e l’orientamento elettorale della popolazione presentano anche una particolare struttura economica, basata su imprese di dimensioni medio-piccole. Si distinguono, in particolare, le cosiddette “zone bianche” dalle “zone rosse” facendo riferimento con questi termini alla concentrazione del consenso elettorale rispettivamente intorno alla Democrazia Cristiana nel primo caso, e al Partito Comunista nel secondo caso. La realtà da noi esaminata, il nodo Lilliput della città di Reggio Emilia, si inserisce appieno in un contesto caratterizzato per molto tempo dal dominio di una subcultura politica di sinistra. Come sottolinea Diamanti, queste subculture politiche territoriali “sviluppano reti associative, strutture, iniziative che operano nei principali settori della vita sociale e individuale dei contesti locali: l’assistenza, il tempo libero, l’educazione, la rappresentanza” [Diamanti 2001, 142]. La vita della comunità locale si struttura, quindi, intorno ad una serie di organizzazioni, cooperative, circoli giovanili, associazioni artigiane, sindacati, che agiscono di pari passo col partito il quale, a sua volta, si occupa di regolare e gestire un intero mondo socio-culturale. Come rilevato da Ramella, nei territori che hanno visto uno sviluppo prevalente della subcultura “rossa” sembra che questa abbia contribuito a dar vita ad una cultura civica fortemente orientata al coinvolgimento degli individui nella sfera politica [Ramella 2001a]. Lo studioso di cui si parla sottolinea, in particolare, che tale cultura civica, definita di tipo “tradizionale”, trae forza sia dalla matrice comunitaria del civismo locale sia dalla matrice politica dello stesso. Ciò vuol dire che da un lato le reti di relazioni comunitarie (familiari, di parentela, di vicinato) attutiscono gli effetti disgreganti della competizione di mercato, permeando di sé il sistema produttivo e alimentando una “logica di cooperazione basata su norme condivise e orientamenti di fiducia e reciprocità” [Ivi, 167]; dall’altro lato la matrice politica del civismo locale, che si esprime attraverso il coinvolgimento degli individui nelle organizzazioni collaterali del partito, alimenta la produzione di una identità collettiva di carattere politico. Quest’ultima si manifesta chiaramente negli elevati tassi di partecipazione pubblica che caratterizza i territori di cui si parla e nella sedimentazione dell’elemento “politico” all’interno delle relazioni sociali.

La rete socio-istituzionale costruita a partire dal radicamento storico e sociale dell’ideologia comunista ha un carattere eminentemente “localista”, cioè fa del territorio locale il destinatario principale dell’azione degli attori politici che si attivano al suo interno. Ma è “localista” anche perché alimenta la capacità di autorganizzazione della comunità locale, rafforzandone al contempo il senso di appartenenza. Come rilevato da Diamanti in riferimento al carattere localista delle subculture politiche territoriali: “i parlamentari espressi da queste zone tutelano gli interessi locali (…) assecondano le domande e le spinte dei soggetti imprenditoriali e sociali. Sostengono le imprese, il mercato e allo stesso tempo le famiglie, le associazioni e le organizzazioni” [Diamanti 2001, 142].

Le trasformazioni che investono la società italiana soprattutto a partire dagli anni Novanta producono i loro effetti anche nelle zone tradizionalmente incentrate sulle subculture politiche territoriali di cui si parla le quali, tuttavia, non scompaiono ma si trasformano a loro volta. Nelle “zone rosse”, in particolare, sembra che l’eredità culturale e politica lasciata dalle suddette subculture venga rimodulata alla luce delle mutate situazioni di contesto, alimentando lo sviluppo di una particolare “cultura civica”, termine che fa riferimento ad un insieme di valori e di comportamenti propri dei quei cittadini che manifestano un certo grado partecipazione nella sfera pubblica [Ramella 2001]. Più precisamente, queste tradizioni subculturali, pur trasformandosi, lasciano sedimentare all’interno della comunità locale di riferimento un capitale sociale fatto di solidarietà collettive e di relazioni cooperative che si estendono pure agli organismi istituzionali, specialmente a quelli che operano a livello locale.

Ciò avviene anche perché nei territori di cui si parla, rispetto alle aree del Mezzogiorno, la tradizione subculturale influisce positivamente anche sulla “struttura delle opportunità politiche” [Tarrow 1990], cioè sulle condizioni che favoriscono o scoraggiano la partecipazione collettiva alla

sfera pubblica, permettendo come sottolinea Ramella, il rinnovamento delle tradizioni civiche [Ibidem].

Nei paragrafi successivi analizzeremo, alla luce del discorso appena condotto, la nascita e l’evoluzione dei due nodi della Rete Lilliput considerati.

La prospettiva di studio avanzata da Catanzaro ci è sembrata utile per introdurre l’analisi del nodo Lilliput di Messina proprio perché tiene conto degli effetti prodotti sull’azione collettiva da una serie di variabili di tipo economico, politico e culturale. Una lettura multidimensionale permette, infatti, di andare più a fondo nell’analisi delle condizioni che favoriscono o ostacolano l’emergere di quegli attori collettivi che animano lo spazio civile, spazio al cui interno si sviluppa la Rete Lilliput.

La debolezza del tessuto associativo italiano in generale, e di quello meridionale in particolare, può forse essere un elemento che facilita la comprensione dei differenti processi che danno luogo allo sviluppo della Rete Lilliput nel Mezzogiorno da un lato, e nel centro nord dall’altro.

Nonostante le differenze territoriali di cui si è parlato poc’anzi permangano ancora oggi, studi più recenti hanno messo in evidenza una sostanziale inversione di tendenza, o meglio hanno registrato un aumento delle forme di partecipazione collettiva che coinvolgono anche le regioni meridionali [Trigilia 1995]. Sebbene non si possa sostenere che all’aumento del numero delle associazioni corrisponde immediatamente un aumento dell’“orientameno civico”, le ricerche di cui si parla lasciano ben sperare nell’ampliarsi della “tendenza al rafforzamento e all’autonomizzazione della società civile” nel Mezzogiorno [Ivi, 165].

D’altro canto fare riferimento agli studi condotti sulle “subculture politiche territoriali” ci consente di aggiungere qualche elemento in più all’analisi che si sta conducendo, permettendoci al contempo di formulare una prima risposta agli interrogativi posti all’inizio della ricerca. Nonostante le importanti trasformazioni delle società contemporanee, è nostra convinzione che l’eredità lasciata dalla tradizione politica subculturale nel territorio da noi considerato abbia contribuito positivamente alla nascita ed al successivo sviluppo del nodo Lilliput di Reggio Emilia. Infatti, come evidenziato nella parte teorica della ricerca, la Rete Lilliput nasce attingendo ad un capitale di relazioni che trova origine principalmente nelle appartenenze di tipo associativo. Questo “capitale relazionale” è ben presente nelle zone dell’Emilia Romagna proprio per l’eredità storica della subcultura politica di sinistra. Il contesto socio-istituzionale che qui si sviluppa può contare, infatti, sulla presenza di una cultura civica che:

• spinge gli individui ad agire mitigando il privatismo e spendendosi, invece, per il bene della collettività;

• espande i sentimenti di fiducia al di là delle relazioni primarie; • alimenta la partecipazione degli individui alla sfera pubblica;

• stimola la partecipazione dei soggetti ad organizzazioni e realtà della società civile [Ramella 2001b].