Dopo aver individuato le dimensioni analitiche che permettono di definire un movimento sociale13, Melucci si focalizza sull’analisi delle sue relazioni interne ed esterne per capire “come gli attori si raggruppano e finalizzano le risorse, come negoziano e formalizzano la relazione all’interno dell’organizzazione, come creano un’ideologia e, infine, come stabilizzano e adattano le loro relazioni con l’ambiente” [Melucci 2000, 30]. Intendendo il conflitto come un rapporto fra due attori per l’appropriazione di risorse alle quali entrambi attribuiscono valore, lo studioso di cui si parla analizza le nuove forme di comportamento collettivo proprio a partire dal loro aspetto conflittualistico. Riprendendo le analisi di Touraine, ma dando maggiore peso alla dimensione relazionale, l’intento dell’autore è, infatti, quello di legare la dimensione conflittuale dell’azione ai rapporti sociali14, superando quella sorta di “metafisica del conflitto” che caratterizza le teorizzazioni del sociologo francese e ponendo le basi per una “teoria della relazione agli oggetti” [Melucci 1982, 40], attraverso la quale spiegare la produzione sociale. Quest’ultima viene, così, ad essere intesa come un’azione che, applicando determinati mezzi di produzione ad una materia prima, trasforma degli oggetti e di conseguenza, modifica l’ambiente umano. Questo tipo di azione ha luogo all’interno di un rapporto sociale e spiega come avviene il prodursi ed il riprodursi degli scambi simbolici che legano fra loro gli individui. Secondo Melucci, infatti, l’atto di produzione e di relazione agli oggetti si genera attraverso un duplice processo che implica “riconoscimento” e “reciprocità”. Riconoscendo un prodotto come frutto della propria azione, l’uomo afferma la sua identità e manifesta la volontà di appropriarsi e di decidere della destinazione di quel prodotto. Questo riconoscimento avviene necessariamente all’interno di un rapporto sociale perché implica la reciprocità del riconoscimento stesso. Per dirla con Melucci: “produzione, riconoscimento, appropriazione, destinazione sono le componenti analitiche del lavoro sociale. Produrre significa anche sapere di poter destinare il proprio prodotto, sulla base della reciprocità del riconoscimento tra i produttori” [Melucci 1976, 28]. Lo scambio fra i soggetti, quindi, non può che basarsi su questo processo che però si interrompe quando si determina la rottura della reciprocità del riconoscimento tra gli attori che producono le risorse fondamentali di una società. Solo allora può crearsi lo spazio per la formazione di gruppi
13 Si veda il paragrafo 1.3.1.
14 “Ritengo invece che il problema sia quello di spiegare il conflitto in termini di relazioni sociali senza farne una
dimensione originaria. Ciò equivale ad ammettere che è necessario costruire uno spazio analitico che preceda la dimensiona marxiana di rapporti di classe e su cui possano essere fondati dei rapporti sociali antagonisti”. Melucci (1982), p. 40.
antagonisti, la cui lotta si colloca nella scissione fra “produzione e riconoscimento” da un lato, e “appropriazione e orientamento” dall’altro lato. Dallo scambio si passa, così, al conflitto proprio perché gli attori in gioco negano reciprocamente il riconoscimento delle rispettive identità.
Ma cosa determina la rottura del riconoscimento?
La produzione sociale presuppone che ci sia un gruppo “dirigente” al quale viene delegato il compito di orientare la produzione. Il controllo esercitato dai produttori “diretti” su questa funzione diminuisce man mano che si accresce la complessità del sistema sociale. Quest’ultima, unita all’aumento della divisione del lavoro e degli scambi, alla necessità di maggiore specializzazione, e in generale, alla velocità dei mutamenti esterni, aumenta le distanze fra gli attori e questa, a sua volta, provoca una riduzione del riconoscimento della funzione di controllo. Come sottolinea Melucci: “ciò per cui gli attori si battono è sempre la possibilità di riconoscersi e di essere riconosciuti come attori, cioè come soggetti della loro azione” [Melucci 1982, 67]. In tale contesto, si inserisce la competizione per l’appropriazione e l’orientamento delle risorse fondamentali della società che oppone due attori: quello che dirige il processo produttivo, identificando i suoi interessi di gruppo con l’intera produzione sociale, e quello che rivendica la destinazione della produzione sociale, contestando l’uso che di essa fa l’avversario.
Nella società post-industriale, caratterizzata da un elevato livello di complessità interna, il dominio si esercita attraverso il controllo sull’informazione, sui modelli culturali dell’azione individuale, sugli apparati simbolici del sistema. E’ per questo che i gruppi che controllano la produzione sociale hanno la necessità di estendere il loro potere a tutti i settori della vita quotidiana, manipolando le motivazioni dell’azione individuale e rendendole funzionali ai propri interessi.
Il conflitto che si estende oltre la sfera materiale della produzione investe sempre di più le relazioni sociali, e di conseguenza l’identità degli individui. Per dirla con Melucci, è proprio l’identità personale “la proprietà che viene difesa e rivendicata, l’area di appartenenza su cui si radica la resistenza e la lotta collettiva” [Melucci 1977, 151].
Il concetto di identità assume (come il conflitto) una natura relazionale, si produce, cioè, attraverso la capacità di un attore di riconoscersi e la possibilità di essere riconosciuto da altri attori.
L’auto-riconoscimento e l’etero-riconoscimento si articolano, a loro volta, in altre due dimensioni che, unite alle precedenti, concorrono a formare l’identità come un sistema di relazioni. Le dimensioni di cui si parla sono l’identificazione, cioè la capacità di un attore di affermare la sua unità e la sua continuità e di ottenere che essa venga riconosciuta dagli altri, e l’affermazione della differenza.
Nel concreto, quindi, l’identità è la capacità di un attore di gestire questo sistema di relazioni, o per dirla con Melucci, di “riconoscere gli effetti della sua azione come propri, affermando la sua diversità e ottenendo riconoscimento” [Melucci 1982, 68-69]. Tenere insieme i poli opposti di questo sistema è un lavoro faticoso che coinvolge l’individuo, impegnandolo in uno sforzo continuo per ricomporre l’unità e l’equilibrio del sistema stesso. E’ evidente che l’identità non si può generare senza il riconoscimento intersoggettivo sul quale si fonda l’auto-identificazione. Questo assunto evidenzia la difficoltà di separare in maniera schematica l’identità individuale da quella collettiva proprio perché non si può prescindere dalle radici relazionali dell’identità stessa.
A livello individuale, l’identità si presenta come un “processo di apprendimento” per mezzo del quale il soggetto si rende autonomo dal sistema. La naturale dipendenza dall’ambiente esterno viene superata, in un primo momento, attraverso i processi di socializzazione e di interiorizzazione dell’apparato simbolico della cultura nella quale si è inseriti, e poi grazie ad una progressiva autonomizzazione che permette all’individuo di produrre da solo ciò che prima aveva acquisito in maniera del tutto passiva.
Anche a livello collettivo l’identità indica ciò che assicura al gruppo la sua permanenza e la sua continuità. Inoltre, essa stabilisce “quali sono i limiti di un gruppo rispetto al suo ambiente naturale e sociale (…) [e] regola l’appartenenza degli individui, definendo i requisiti necessari per far
parte di un gruppo, i criteri per riconoscersi ed essere riconosciuti come membri” [Melucci 1983, 152].
Pur considerando la distinzione analitica fra identità individuale e identità collettiva, è necessario sottolineare che in entrambi i casi l’identità si compone di tre elementi:
1. la capacità di “autoriflessione” dell’attore su se stesso;
2. la percezione dell’“appartenenza”, cioè la capacità dell’attore di riconoscere come propri gli effetti della sua stessa azione;
3. la nozione di “permanenza”, cioè la capacità di un attore sociale di stabilire una continuità temporale, che gli consenta di “stabilire un rapporto tra passato e futuro e di legare l’azione e i suoi effetti” [Ivi, 153-154].
Quindi, da qualunque punto di vista la si consideri, l’identità implica sempre un riferimento alla sua natura intersoggettiva, relazionale. Come sottolinea Melucci, essa coincide, a livello individuale con “processi consapevoli di individuazione”, mentre sul piano collettivo si esplica in quanto azione [Melucci 1982, 64].
I nuovi movimenti che prendono corpo all’interno delle società complesse permettono di coniugare la tensione fra definizioni interne e definizioni esterne dell’identità perchè: “offrono agli individui la possibilità collettiva di affermarsi come attori e di trovare un equilibrio fra auto- riconoscimento ed etero-riconoscimento. Luogo dell’azione e della solidarietà essi permettono, nello spazio e nel tempo dell’agire collettivo, di dar norme e coerenza ai diversi poli dell’identità” [Ivi, 72].
Pertanto, nei “Nuovi Movimenti Sociali” il livello individuale dell’azione assume un significato di estrema importanza perché, legandosi alle dinamiche che guidano il mutamento generale delle società complesse e ai processi di “produzione-controllo” dell’identità che hanno luogo al suo interno, diviene il fulcro fondamentale dei meccanismi collettivi.