2.8 L’evoluzione delle organizzazioni di movimento
3.1.1 L’azione collettiva nella società globale
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, il moltiplicarsi di mobilitazioni di protesta ed il sorgere di nuovi conflitti politici e sociali che sembrano trovare uno sbocco comune prima nella “battaglia di Seattle” e poi, nelle contestazioni dei vertici internazionali, dimostrano l’esistenza di un attore collettivo che, pur nella sua estrema eterogeneità, individua nel processo di globalizzazione neoliberista e nelle istituzioni che lo guidano (prima fra tutte il WTO) il comune nemico, l’obiettivo verso cui dirigere le proteste. E’ bene chiarire questo punto poiché al movimento di cui si parla viene spesso attribuita la definizione di “no-global”, definizione certamente errata se si considera che gli stessi militanti dichiarano di non opporsi alla globalizzazione tout court, ma alle degenerazioni dell’economia di mercato causate dal prevalere, a partire dagli anni Ottanta, di scelte economiche neoliberiste25. Il cambiamento che fa da sfondo al sorgere del movimento globale è, come sottolineato nelle pagine precedenti, di tipo strutturale investe, cioè, la struttura stessa delle società così come essa si presentava in epoca moderna. Se gli anni Ottanta segnano la vittoria del liberismo, grazie alle politiche reaganiane e tatcheriane, e la caduta dei modelli fordisti, fiore all’occhiello dei governi occidentali nel ventennio precedente, gli anni Novanta mostrano un’ulteriore accelerazione dei processi appena esposti, aggravati dal crollo dei regimi dell’Europa orientale. Tutto questo dà il segnale di una nuova organizzazione del mondo.
Circa dieci anni prima della “battaglia di Seattle”, un’imponente manifestazione attraversa le strade di Berlino ovest. E’ il 1988 e 80.000 persone protestano contro il vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale che si svolge nella città tedesca. Oggetto del dissenso sono le scelte politiche effettuate dalle istituzioni sopra citate, accusate di perpetuare le condizioni di
sottosviluppo dei paesi del Terzo Mondo. La protesta di Berlino ovest è importante non solo per lo straordinario numero di manifestanti che vi partecipa, ma soprattutto perchè segna il momento a partire dal quale le principali istituzioni della globalizzazione (Organizzazione Mondiale del Commercio, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, G8, Unione Europea, Forum Economico Mondiale) vengono identificate come gli obiettivi della protesta perchè ritenute responsabili di un ordine mondiale ingiusto.
Un altro momento di svolta è certamente l’insurrezione zapatista del gennaio del 1994. Il primo gennaio di quell’anno, giorno dell’entrata in vigore degli accordi del Nafta che sanciscono un progetto di liberalizzazione economica fra Messico, Canada e Stati Uniti, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) inizia la sua battaglia per la difesa dei diritti dei popoli indigeni. La rivolta in Chapas, guidata dal Subcomandante Marcos, fa il giro del mondo grazie all’attenzione rivolta alla comunicazione e allo stesso carisma di Marcos che nei suoi comunicati si definisce: “un gay di San Francisco, un nero in Sudafrica (...), un indigeno nelle strade di San Cristobal, un ebreo in Germania, un pacifista in Bosnia”, parole che sottolineano il carattere globale di una protesta locale e che fanno dell’insurrezione in Chapas “il punto di focalizzazione di tutti gli esclusi dal sistema neoliberista” [Aguiton 2001, 10]. Il passo successivo avviene nell’estate del 1996 quando migliaia di persone provenienti da tutto il mondo si ritrovano nella Selva Lacandona, in Messico, per prendere parte all’“incontro intergalattico” manifestando il loro sostegno all’EZLN e la loro opposizione alle politiche neoliberiste.
Il 17 maggio del 1998, a Birmingham, in occasione del vertice del G8, 70.000 persone rispondono all’appello di “Jubilee 2000” e manifestano per l’annullamento del debito dei paesi del Terzo Mondo; qualche mese più tardi, nel settembre dello stesso anno, il movimento attraversa le strade di Ginevra provocando il fallimento degli Accordi Multilaterali per gli Investimenti. Poco tempo prima degli eventi di Seattle, nel giugno del 1999, l’iniziativa “Stop the city”, organizzata dalla rete ecologista inglese “Reclaim the streets”26, vede la partecipazione di più di 10.000 manifestanti che, forzando i cordoni della polizia, riescono ad entrare nel cuore della città nel giorno della riunione annuale dei paesi più ricchi del mondo. Un mese dopo, a Colonia, contro il vertice G8, si radunano circa 10.000 persone che manifestano per la cancellazione del debito.
Le mobilitazioni che si susseguono nel corso degli anni Novanta portano alla luce un modo nuovo di organizzare la protesta: i controvertici, eventi convocati in coincidenza dei vertici ufficiali di organizzazioni governative internazionali e costruiti da reti di organismi non governativi e da realtà differenti che trovano in internet uno straordinario strumento per coordinare la protesta e ampliarne la portata. Accanto ai controvertici che rappresentano, in effetti, il momento di maggiore visibilità del movimento e ne sottolineano la capacità di mobilitazione, si sviluppano, nel corso degli anni Novanta, anche delle importanti campagne che concorrono a formare la base sulla quale prende corpo la protesta di Seattle. Le più importanti sono certamente la già citata campagna “Jubilee 2000” e quella contro il “M.A.I.” (Multilateral Agreement on Investments). La prima, lanciata nella primavera del 1996 in Inghilterra su iniziativa di una importante Ong, “Christian Aid”, nasce con un obiettivo molto chiaro: l’annullamento del debito dei paesi poveri entro il 2000, anno scelto dalla Chiesa cattolica per celebrare il Giubileo. La campagna in questione riscuote subito un enorme successo tanto che, in soli due anni dal lancio ufficiale, in 66 paesi si organizzano coalizioni che fanno riferimento a “Jubilee 2000” e la petizione da essa lanciata raccoglie circa ventiquattro milioni di firme provenienti da 166 paesi diversi.
26 “Reclaim the streets” è una rete di militanti ecologisti radicali la cui nascita è strettamente legata all’attuazione di un
piano di ricostruzione stradale deciso, nel 1989, dal governo britannico. Sin dal 1992 i militanti di questa nuova realtà mettono in atto una serie di azioni dirette nonviolente per impedire la costruzione di opere ritenute ad alto impatto ambientale. Come sottolinea Aguiton: “Era una militanza di rottura con “Greenpeace” e “Friends of Earth”, organizzazioni viste come poco propense a nuove forme radicali di lotta (...). Se l’opposizione alle nuove linee autostradali è stata molto importante per mobilitare i giovani, altri temi, non sempre legati all’ambiente, erano presenti fin dai primi passi di questo movimento: l’opposizione all’apertura di nuove miniere e cave (...), l’accusa alle banche giudicate responsabili dell’aumento del debito dei paesi del terzo mondo” Aguiton (2001), p. 112, 113.
La campagna contro il “MAI” prende corpo nella seconda metà degli anni novanta dall’iniziativa di una serie di reti di organismi presenti in varie nazioni che si mobilitano contro l’approvazione di un accordo fra i 29 membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) da estendere, poi, a tutti i paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. L’accordo di cui si parla non va in porto poiché la Francia, sottoposta alle crescenti pressioni della società civile nazionale, decide di ritirarsi dai negoziati provocandone il fallimento.
Il 30 novembre del 1999 a Seattle un numero inaspettato di manifestanti, circa 50.000, blocca i lavori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) dando vita a quella che dai telegiornali di tutto il mondo viene definita la “battaglia di Seattle”. Pochi mesi più tardi, precisamente il 29 gennaio del 2000, la situazione si ripete a Davos, in Svizzera dove il Forum Economico Mondiale (WEF) viene contestato da 1300 manifestanti giunti da tutta Europa. Questi eventi sono seguiti da una serie di appuntamenti attorno ai quali si riunisce un movimento composito ed eterogeneo, espressione di quella che da più parti è stata definita “società civile mondiale” [Della Porta D., 2005, p. 218, 219]: Genova, 25 maggio 2000 (convegno sulle biotecnologie Tebio), Praga, 26 settembre 2000 (vertice del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale), Nizza, 6 dicembre 2000 (vertice dell’Unione Europea), Davos, 27 gennaio 2001 (Forum Economico Mondiale), Napoli, marzo 2001 (Global Forum sull’e-governement), Genova, 19-20 luglio 2001 (vertice G8) sono solo alcuni degli incontri che chiamano a raccolta il movimento globale la cui origine non è evidentemente legata alle sole mobilitazioni di Seattle ma va rintracciata, piuttosto, in un percorso di crescita di quella “società civile e globale [che] ha fornito (…) strutture, mezzi e strumenti cognitivi per la mobilitazione della recente protesta globale prima e dopo Seattle” [Della Porta D., Mosca L., 2003, p 13].
Come sottolinea Ceri, Seattle rappresenta il punto d’arrivo, il momento più visibile di un percorso iniziato negli anni Ottanta e proseguito nel decennio successivo che ha visto il formarsi di un vero e proprio “movimento globale” i cui protagonisti, pur essendo estremamente differenti, trovano una radice comune per la protesta che li guida nella globalizzazione, o meglio nella “trasformazione del rapporto tra l’economia e gli altri sistemi: l’ambiente, la società, le culture” [Ceri 2002, 18]. Lo studioso sopra citato afferma, infatti, che la fine degli anni Novanta rappresenta il traguardo raggiunto da due particolari tendenze la cui comprensione permetterebbe di spiegare il carattere unitario della protesta di Seattle e di quelle successive. Da un lato, a partire dalla metà degli anni Novanta la “corrente individualistica”, inaugurata con l’epoca thatcheriana e reaganiana, sembra esaurirsi lasciando il posto ad una “corrente collettiva” che prevale sulla precedente facendosi portatrice di domande di equità e di istanze morali ed etiche; dall’altro lato si rileva una sempre maggiore spinta all’“integrazione sociale” caratterizzata dall’affermarsi, con differenze da paese a paese, di tre principi fondamentali: “cooperazione, protezione, ricomposizione” [Ivi, 21]. Dal punto di vista dello studioso di cui si parla, gruppi e reti di organizzazioni tanto diversi fra loro riescono a mobilitarsi insieme, dando vita a proteste come quella avvenuta a Seattle, proprio perché spinti dalle due tendenze appena descritte che, nella protesta, si esprimono come “lotta alle disuguaglianze e come reazione alla disintegrazione: disuguaglianza e disintegrazione prodotte dalla globalizzazione neoliberista” [Ibidem].
La “battaglia di Seattle” è l’evento attraverso cui si manifesta un movimento composito ed eterogeneo. La domanda di fondo, come sottolinea Ceri, è “cosa può accomunare un gruppo ambientalista come il californiano Sierra Club che si oppone alla Monsanto, multinazionale dell’agricoltura geneticamente modificata, e l’associazione Tibet libero (...) un’associazione storica per le difesa dei consumatori come Public Citizen (...) e la Confederation Paysanne di José Bové che difende il formaggio Roquefort e combatte gli alimenti transgenici (...). Più in generale, cosa accomuna ambientalisti e sindacalisti, gruppi religiosi e difensori dei diritti dei consumatori, anarchici e pacifisti, liberals e conservatori?” [Ceri 2002, p. 13]. Non basta, infatti, affermare che ad aggregare realtà così differenti sia solo l’opposizione ai processi di globalizzazione. L’analisi prende corpo, quindi, a partire da una distinzione fra due tipi di globalizzazione: una verticale e l’altra orizzontale.
Per “globalizzazione verticale” Ceri intende il processo attraverso cui “i rapporti di scambio e d’autorità tra i diversi sottosistemi, inscritti in uno dei sistemi funzionali (l’economia, la politica, la cultura) di una società nazionale, diventano tendenzialmente meno forti di quelli che intercorrono tra ciascuno di essi e sottosistemi, sistemi o sovrasistemi esterni, con l’effetto di provocare un processo di denazionalizzazione e di perdita di autonomia dello stato” [Ivi, 18]. Ciò significa che a fronte del progressivo aumento dell’influenza di soggetti corporati, come ad esempio il Fondo Monetario Internazionale, o le multinazionali, si registra una consistente riduzione dello spazio d’azione del sistema statale, tale per cui le decisioni all’interno di determinati settori risentono delle scelte di quei soggetti corporati. La “globalizzazione orizzontale” indica, invece, un processo all’interno del quale “diventano vieppiù generalizzate le interdipendenze tra i molteplici sistemi e sfere di attività: la produzione, il consumo, la salute, l’ambiente, la finanza, lo sviluppo tecnologico, i diritti umani ecc.” [Ibidem]. Per capire in cosa consiste questa dimensione della globalizzazione basti pensare, ad esempio, all’impatto ambientale di alcune scelte tecnologiche. La distinzione appena esposta, pur avendo una funzione prettamente analitica, ci permette di identificare in maniera più precisa le differenti componenti del movimento globale così come esso si è manifestato per le strade di Seattle. Dall’incrocio di queste due dimensioni, infatti, si ricavano quattro tipologie di attori ciascuna delle quali espressione sia di un diverso frame interpretativo della globalizzazione sia di un differente orientamento dell’azione. Ceri, a tal proposito, parla di:
• gruppi e realtà che si oppongono agli effetti, concreti o potenziali, del processo di globalizzazione verticale. Rientrano in questa categoria quei soggetti che si esprimono, ad esempio, contro la mobilità dei fattori di produzione o contro la flessibilità del lavoro;
• gruppi e realtà che reagiscono agli effetti della globalizzazione orizzontale e che esprimono il loro dissenso, ad esempio, nella difesa di identità etniche e culturali, o degli equilibri naturali (biologici o ambientali) contro gli equilibri imposti dal mercato.
Se queste due tipologie sembrano essere dei tipi “puri”, le successive si configurano, piuttosto, come degli ibridi:
• gruppi e realtà che si oppongono agli effetti della globalizzazione orizzontale ma lo fanno interpretandoli e subordinandoli ideologicamente alla lotta alla globalizzazione verticale [Ivi, 21]. E’ il caso di quei soggetti che, riconducendo al processo di globalizzazione verticale i meccanismi di sfruttamento e le disuguaglianze sociali, si battono in difesa dei diritti umani e degli equilibri naturali
• gruppi e realtà che interpretano gli effetti della globalizzazione verticale in termini di globalizzazione orizzontale. In questa categoria, rientrano quei soggetti che, come sottolinea Ceri, tendono “ad opporre la difesa dei consumatori alla manipolazione dei bisogni, i diritti umani all’oppressione, alla privazione della dignità e al controllo della privacy, la difesa della varietà all’omologazione di mercato” [Ivi, 22].
Chiaramente la classificazione sopra esposta risente dei limiti dei modelli analitici, nel senso che le interdipendenze fra le due dimensioni della globalizzazione fanno sì che nella realtà empirica sia difficile individuare una tipologia piuttosto che un’altra in maniera così ben definita; molto spesso si presentano combinazioni di due tipi. In generale, le molteplici realtà che compongono il movimento globale condividono un “master frame” che consente l’aggregazione al di là delle differenze e delle specificità di ciascun gruppo. Come abbiamo già accennato, il processo di framing attraverso cui gli attori danno vita ad una comune definizione della realtà ed agiscono in base ad essa contribuisce alla formazione dell’identità collettiva che dà significato all’azione. Riprendendo uno studio di Snow e Benford, Andretta riconduce il processo di costituzione di un frame dell’azione collettiva a tre passaggi fondamentali: l’accentuazione, l’attribuzione e l’articolazione. Il primo termine si riferisce al fatto che gli attori collettivi, individuato un problema, tendono ad accentuarne l’importanza e a focalizzarsi sul suo carattere ingiusto; il secondo passaggio, consiste nell’attribuzione della responsabilità di questa ingiustizia ad uno o più “nemici”, ritenuti causa del problema; infine, il frame
“articola e lega diversi eventi, esperienze e problemi in modo che appaiano unificati e che questa unificazione sembri dotata di senso” [Andretta 2005, 253]. Il “master frame”, cioè il frame dominante che favorisce ed alimenta l’unione e la combinazione delle composite ed eterogenee identità che caratterizzano le realtà del movimento globale è certamente “la globalizzazione neoliberista”, uno schema di riferimento comune che poi assume declinazioni diverse nelle molteplici aree in movimento.