A partire dagli anni Sessanta nuovi tipi di protesta e di comportamento collettivo attraversano il tessuto sociale di diversi paesi del mondo. La radicalità delle domande avanzate così come la capacità di influenzare il processo politico mettono in discussione le modalità attraverso cui da sempre si analizzavano le forme dell’azione collettiva. Il femminismo, l’ecologia, i movimenti studenteschi, quello pacifista, il movimento per i diritti civili e quelli anti-nucleare sono solo alcune delle mobilitazioni che si susseguono nel periodo considerato, e di fronte alle quali si avverte una sensazione di smarrimento, causata da un evidente vuoto conoscitivo. L’approccio marxista e quello funzionalista, fino ad allora dominanti, sembrano, infatti, non essere più in grado di dar conto dei processi in atto.
Il primo, preoccupandosi di fissare le precondizioni della rivoluzione attraverso l’individuazione delle contraddizioni strutturali del sistema capitalistico, si concentra solo sulla logica del sistema, ignorando i processi attraverso i quali si forma l’azione collettiva dei movimenti; il secondo, invece, focalizzandosi sulle credenze degli attori, interpreta l’azione collettiva come il risultato di una tensione che disturba l’equilibrio del sistema sociale, e non tiene conto del contenuto conflittuale dell’azione collettiva né della natura antagonista delle lotte sociali che investono la logica del sistema. In quest’ottica, i fenomeni collettivi sono interpretati come elementi di rottura dell’ordine precostituito ed i movimenti sociali diventano una disfunzione, il frutto di una crisi del sistema sociale.
L’impasse causato da questa carenza teorica inizia ad essere superata quando, nel corso degli anni Settanta, si sviluppano, come accennato precedentemente, due filoni di studio differenti: l’approccio statunitense e quello europeo.
I prossimi paragrafi si concentreranno sulla loro analisi. I suddetti approcci, però, non devono essere considerati come contrapposti e mutuamente esclusivi; bisogna, infatti, comprenderli all’interno dei loro limiti, evitando di fare dell’uno o dell’altro una teoria complessiva dei movimenti sociali. Alcuni dei concetti fondamentali riconducibili ai due filoni di studio rappresentano il punto di partenza per la comprensione del fenomeno oggetto di indagine.
Cominciamo, quindi, considerando l’approccio europeo che, a partire da una critica al paradigma marxista, si concentra sulle trasformazioni delle basi strutturali dei conflitti e dà vita ad una teoria interpretativa nota come approccio dei “Nuovi movimenti sociali”.
Riprendiamo innanzitutto gli studi di Alain Touraine a tal proposito. Lo studioso di cui si parla è, infatti, fra i primi ad utilizzare il termine “società post-industriale”.
Le sue analisi si propongono di esaminare gli elementi di continuità e di discontinuità fra la società industriale e quella post-industriale a partire da una specifica dimensione sociale, quella del conflitto.
Tenendo conto del ruolo centrale che esso assume all’interno di ogni tipo societale, Touraine sviluppa delle linee analitiche che procedono sulla base di quattro ipotesi generali:
1. nella società post-industriale i conflitti sono generalizzati;
2. di fronte ad un apparato di potere sempre più integrato, l'opposizione viene sostenuta da attori collettivi sempre più globali, e in genere, da collettività territoriali;
3. nelle società post-industriali i conflitti sociali tendono a confondersi con i comportamenti devianti;
4. i conflitti strutturali si separano dai conflitti legati al mutamento [Touraine 1975, 153-167].
In base alle ipotesi sopra citate, possiamo affermare che nelle società post-industriali si assiste alla progressiva scomparsa dei garanti “meta-sociali”, cioè di quell’insieme di forze, quali la provvidenza, le leggi dell’economia o l’essenza di un regime politico che, nelle società precedenti, fornivano un principio di unità all’azione individuale o collettiva.
Le società post-industriali, infatti, sono sempre più capaci di agire su se stesse e di riconoscersi come il prodotto delle proprie azioni e decisioni. Scompaiono, quindi, i riferimenti alla società come realizzazione di valori trascendenti l’esperienza sociale poiché la società post- industriale non cerca fuori di sé spiegazioni per il suo funzionamento. Il processo appena descritto è strettamente collegato ad un altro, quello che vede il progressivo affievolirsi dei legami di tipo tradizionale e il conseguente indebolimento delle istituzioni che garantivano da sempre la riproduzione sociale. Inoltre, nelle società di cui si parla, nessuna ideologia e nessun attore politico propone ancora il sogno di una società senza classi e senza conflitti, anzi questi ultimi penetrano gradualmente in un'area vastissima e fino a quel momento poco conosciuta: la sfera della vita privata. Ciò significa che la famiglia, l’educazione, le relazioni sessuali vengono coinvolti in una dimensione conflittuale e critica dai movimenti che attraversano la società post-industriale. Al suo interno, lo sviluppo delle comunicazioni e delle informazioni indebolisce il ruolo di istituzioni intermediarie come i partiti, e il potere tende a confrontarsi direttamente con i movimenti di rivendicazione che si organizzano a livello territoriale, e che agiscono al di fuori dei condizionamenti dei mediatori politici tradizionali. Ciò che Touraine vuole sottolineare è che il conflitto principale della società post-industriale, trasferendosi dal campo economico al campo culturale, cambia natura e permea di sé ogni settore della struttura sociale.
La società post-industriale, infatti, elimina la centralità del movimento operaio organizzato perché i problemi del lavoro, pur essendo ancora rilevanti, perdono l’importanza politica che avevano in passato. L’opposizione fra il produttivo e l’improduttivo, così come la distinzione tra istanze economiche, politiche, ideologiche un tempo fondamentali, nella società post-industriale si svuotano di significato. La dominazione diventa globale, cioè si estende all’insieme della società per gestirla ed orientarla verso un certo tipo di sviluppo. Pertanto, nelle società post-industriali la nuova immagine dei conflitti sociali “è quella di un apparato centrale, impersonale ed integratore, che tiene sotto il suo controllo, al di là di una semplice classe di servizio, una vera e propria maggioranza silenziosa: ai margini di questa vengono proiettate delle minoranze escluse, rinchiuse o semplicemente sottoprivilegiate, quando non siano del tutto negate” [Ivi, 162].
In ogni tipo societale cambia, quindi, la natura del modello culturale, e di conseguenza anche il campo dei conflitti di classe. Questi ultimi assumono una natura economica nella società industriale e una natura culturale in quella postindustriale. Nella prima, il lavoro è messo al servizio del capitale e le due classi in lotta per il controllo del sistema d’azione storica industriale sono la classe degli imprenditori e quella degli operai, divise da un conflitto che, producendosi e riproducendosi nei luoghi di lavoro (le fabbriche), assume una natura prettamente economica. Il meccanismo essenziale dei rapporti di classe trova origine nella produzione in funzione della quale si organizzano le relazioni fra gli elementi della società. Nel passaggio da questo tipo societale a quello post-industriale, il conflitto assume un carattere sociale e culturale poiché il suo modello culturale si situa a livello stesso della storicità. Come afferma Touraine, “ciò che è accumulato è la capacità di produrre produzione, il principio stesso del lavoro creatore, cioè la conoscenza. Ciò si manifesta nell’importanza dell’educazione e della ricerca, nel ruolo decisivo dell’informazione e del management dei sistemi di informazione nella crescita economica” [Ivi, 138].
Il dominio, quindi, non è determinato dal possesso del capitale ma dall’appropriazione della conoscenza, cioè della capacità che la società possiede di generare nuove creatività.
Il dominio sociale si modifica ed assume le forme della manipolazione culturale, dell’integrazione sociale e del controllo dei processi politici e decisionali che riguardano la crescita economica. Ciò significa che gli attori sociali sono mobilitati dagli apparati di produzione che impongono modelli di comportamento conformi ai loro obiettivi; essi, per dirla con Touraine: “sono
spinti a partecipare, non soltanto nel lavoro propriamente detto, ma anche nel consumo e nella formazione, ai sistemi di organizzazione e di influenza che li mobilitano” [Touraine 1970, 9].
Il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale si definisce anche col movimento dalla dimensione dello sfruttamento a quella dell’alienazione. Gli individui dipendono dagli strumenti dell’integrazione sociale e culturale e il loro agire si esplica in una partecipazione dipendente.
Quest’ultima può cessare quando diviene chiara l’esistenza di un conflitto centrale, il quale spinge gli elementi della società a prendere coscienza della loro dipendenza e ad agire per liberarsi dall’alienazione. I gruppi che sono in grado di dar vita a quest’opposizione contro la classe dominante, secondo Touraine sono “quelli che, associati alla vita delle grandi organizzazioni, sono e si sentono responsabili di un servizio, e [sono quelli] che la loro attività mette in rapporto costante con i consumatori” [Ivi, 75]. Si tratta, quindi, di categorie di professionisti ed esperti (professori, ricercatori, urbanisti, ingegneri, studenti) che, grazie al possesso della conoscenza scientifica e tecnica, sono in grado di superare i limiti della propria categoria, opponendosi ai tecnocrati e rendendo evidente il conflitto. Affinché la loro non sia solo un’azione rivendicativa è necessario, comunque, che la volontà di rottura sia associata alla lotta per l’appropriazione degli orientamenti generali della società.