La ricostruzione operata da Magatti dei principali approcci allo studio della società civile ci ha permesso, innanzitutto, di chiarire cosa si intende col termine “società civile”. In secondo luogo, tale analisi, alla quale abbiamo affiancato uno spazio relativo alle differenti definizioni di movimento sociale, ci ha consentito di capire più a fondo le interazioni che si stabiliscono fra questi due livelli e, nel contempo, di introdurre il discorso su quella che, in seguito all’esplosione del movimento “globale”, viene identificata come “società civile globale”.
Pertanto, nelle prossime pagine chiariremo da un lato il significato del termine “globalizzazione”, qual è il contesto che fa da sfondo al suo sorgere e quali sono le sue caratteristiche principali; dall’altro lato ci soffermeremo sulle conseguenze che essa produce per la costruzione delle identità individuali e collettive.
Le società occidentali contemporanee risentono nel loro concreto funzionamento delle trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione, la quale può essere concettualizzata come la “combinazione di due sconnessioni”: una a livello strutturale e l’altra a livello individuale [Giaccardi, Magatti 2001, 22-27]. Ciò significa che siamo di fronte ad una doppia crisi che investe da un lato i soggetti e dall’altro lato le sfere istituzionali.
A livello macro, l’elemento principale da tenere in considerazione è il progressivo sgretolamento e la destrutturazione degli assetti internazionali definiti alla fine del secondo conflitto mondiale. All’inizio degli anni Settanta, lo scenario che faceva da sfondo al sistema economico capitalistico cambia in seguito all’abbandono del sistema di Bretton Woods, e al conseguente passaggio da un regime di cambio fisso ad uno variabile. Il mutamento dello scenario entro il quale si era da sempre organizzata l’economia capitalista risente, inoltre, sia della crisi petrolifera del 1973-1974 che della formazione e dell’ascesa del mercato degli eurodollari [Aguiton 2001]. A partire dagli anni Ottanta, poi, uno straordinario sviluppo delle tecnologie legate alla comunicazione e all’informazione alimenta un intenso processo di espansione del commercio internazionale di cui diventano protagoniste assolute le imprese multinazionali. Le scelte strategiche effettuate da queste ultime (prime fra tutte la localizzazione delle fasi produttive in paesi dove il costo del lavoro è minore e l’organizzazione della produzione su scala sovranazionale), cui si accompagna il rapido sviluppo delle attività finanziarie delle economie dei paesi più ricchi, costituiscono i pilastri fondamentali della globalizzazione neoliberista nella sua dimensione economica. Chiaramente questi processi hanno luogo all’interno di una precisa cornice politica determinata soprattutto dalle scelte dei governi di Inghilterra e Stati Uniti fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Margaret Thatcher e Ronald Reagan, avviando una serie di politiche di liberalizzazione dei mercati, di deregolamentazione e di privatizzazione di attività precedentemente gestite dallo Stato, avallano la sempre maggiore riduzione del controllo e dell’intervento statale su una serie di attività di cui iniziano ad occuparsi sempre più imprese nazionali ed internazionali. Dopo il crollo del sistema sovietico fra il 1989 e il 1990, questo processo subisce un’ulteriore accelerazione determinando la definitiva scomparsa del modello statalista e il crescente intrecciarsi del progetto di globalizzazione neoliberista con l’espansione dell’egemonia statunitense. Come sottolineato da Pianta, “la globalizzazione neoliberista ha istituzionalizzato uno schiacciante potere di meccanismi economici – mercati e imprese- su diritti umani, progetti politici, bisogni sociali e priorità ambientali” [Pianta 2001, 19].
Dal punto di vista strutturale, quindi, il mescolarsi di tutti questi fattori di ordine politico, economico e tecnologico avvia un processo di “despazializzazione e rispazializzazione” [Giaccardi, Magatti 2003] tale per cui “i confini degli stati hanno cominciato ad essere attraversati da flussi di merci, capitali, idee, informazioni e, non ultimi, esseri umani” [Magatti 2005, 11].
Le dinamiche di “despazializzazione e rispazializzazione” dei processi sociali sono alla base della crisi regolativa delle istituzioni statali: l’azione pubblica degli Stati nazionali a poco a poco si ritira da molti ambiti dell’attività economica la cui gestione è assunta progressivamente da soggetti internazionali.
Ma la crisi di regolazione istituzionale, il cui effetto più evidente è l’indebolimento dei confini nazionali, non tocca solo la dimensione economica ma anche quella culturale poiché, come sottolinea Magatti, “non si globalizzano solo i mercati ma anche le società” [Ivi, 210]. Ciò significa che le esperienze individuali e collettive e, in generale, l’organizzazione della vita contemporanea non possono essere pensate se non all’interno di una cornice che trova origine nell’idea di “globalità” [Beck 1999]. Questo termine, in effetti, ci permette di capire in maniera più approfondita i processi di cui stiamo parlando. Se, infatti, il termine “globalizzazione” diviene talvolta fuorviante perchè utilizzato in maniera confusa per indicare un generale processo di omogeneizzazione globale, parlare di “globalità” significa, invece, dare conto della natura mondiale che caratterizza la società contemporanea, una natura tale per cui niente di quello che accade a livello locale può essere capito senza considerare quanto avviene a livello globale, e viceversa.
Sullo sfondo dei processi di “despazializzazione e rispazializzazione” il rapporto individuo- società cambia e diviene dipendente da un’importante dissociazione: quella fra economia e cultura, fra universo strumentale e universo simbolico [Touraine 1993].
La separazione fra una partecipazione pubblica ad una economia sempre più mondializzata e una vita privata, tendente in maniera progressiva, all’autoreferenzialità contraddistingue l’epoca nella quale viviamo ed è frutto di un processo che Touraine definisce “demodernizzazione”, termine che indica appunto l’enorme lacerazione prodottasi fra economia e cultura [Touraine, 1998].
Poiché la “demodernizzazione” appare innanzitutto come separazione fra il sistema (attività tecnico-economica) e l’attore (coscienza di sé), i suoi due aspetti complementari sono, secondo lo studioso francese, la “deistituzionalizzazione” e la “desocializzazione”.
Col primo termine si intende “l’indebolimento o la scomparsa di norme codificate e garantite da meccanismi giuridici, e più semplicemente il venir meno dei giudizi normativi che venivano applicati ai comportamenti regolati dalle istituzioni” [Ivi, 48]. Ciò significa che l’attività sottostante ai processi di globalizzazione economica in atto oltrepassa i modelli culturali e istituzionali che la regolavano in epoche precedenti, causando sia la crisi delle istituzioni sia l’impossibilità di mettere in atto nuove forme di controllo sociale dell’attività economica. La “desocializzazione” si riferisce, invece, alla “scomparsa di quei ruoli, norme e valori sociali attraverso cui si costruiva il mondo vissuto. Essa è una diretta conseguenza della deistituzionalizzazione dell’economia, della politica e della religione” [Ivi, 50].
La società contemporanea si caratterizza, quindi, per la presenza di due elementi contrapposti: da un lato l’ideologia economicista che rappresenta la dimensione dell’azione e del mutamento e che tende a ridurre la stessa società “a un mercato e a un flusso incessante di mutamenti” [Touraine 1993, 216], e dall’altro lato un’area composta dalla maggioranza degli esclusi dai benefici del movimento continuo delle innovazioni.
Entrambi gli elementi sono compresenti all’interno della nostra società poiché, come sottolinea lo studioso, “non esiste alcuna società che sia soltanto mercato, esistono solo alcuni paesi in cui il mercato costeggia il ghetto, in cui l’innovazione e il movimento circondano le sacche di esclusione” [Ivi, 217].
L’ambivalenza del processo descritto contribuisce a dare risalto alla lacerazione fra sistema ed attori prodotta dalla “demodernizzazione”, una rottura di corrispondenza tale per cui se da una parte si assiste alla concentrazione del potere nelle mani di gruppi ristretti di individui che controllano i flussi di informazioni, di denaro e, in generale, di influenza, dall’altra parte fa sì che ci si trovi di fronte a degli attori sociali che non sono più in grado di definire se stessi in base a degli status acquisiti, ma solo ricorrendo a degli status trasmessi.
Ciò è evidentemente la “rivincita dell’essere sul fare” [Touraine 1998, 42] che si produce proprio perché la “demodernizzazione”, che si accompagna allo sviluppo dei processi di globalizzazione, distrugge “l’identificazione degli individui sulla base della cittadinanza, della professione o addirittura del livello di vita. La globalizzazione ha privato la società del suo ruolo di creatrice di norme” [Ibidem].
Se la globalizzazione, trainata dall’economia liberale, crea e perpetua la scissione fra le due sfere dell’esperienza umana (economia e cultura), inevitabilmente si produce il crollo di quei meccanismi sociali e politici di mediazione fra le dimensioni sopra citate. Questo processo di riduzione dell’integrazione fra i molteplici elementi della vita sociale fa sì che l’attore cessi “di essere sociale; si ripiega su se stesso e si definisce attraverso quel che è, non più attraverso quel che fa” [Ibidem], in netta contrapposizione con ciò che, invece, avveniva in epoca moderna, quando contribuire al corretto funzionamento della società e all’integrazione sociale significava svolgere nel migliore dei modi il proprio ruolo di lavoratore, di cittadino, di genitore; bisognava, in altri termini, essere soggetto agente di un’opera collettiva.
Oggi la crescita della difficoltà di definire se stessi in base a categorie che facciano riferimento a qualità acquisite, a capacità e a risultati raggiunti dall’individuo va di pari passo con la crescita dell’esigenza di identificarsi sulla base della fede, dell’etnia, del genere, dando vita a delle forme di riconoscimento che leggono l’identità in chiave puramente difensiva.
Tale processo rischia di generare pericolose forme di “comunitarismo”, intendendo con questo termine il recupero di radici etniche, religiose e, più in generale, di radici di natura culturale che vengono vissute come l’ultimo baluardo contro i meccanismi di frammentazione dell’esperienza individuale nella società “demoderna”.
La cultura che si riduce ad ideologia diventa anche fonte di legittimazione di poteri di natura autoritaria. Se, infatti, la modernizzazione era contraddistinta dalla completa differenziazione e autonomizzazione dei diversi settori del sistema sociale, la “demodernizzazione”, al contrario, alimenta progetti comunitari e genera “utopie retrospettive” [Touraine 1998, 45], le quali fanno della cultura uno strumento di mobilitazione politica con l’obiettivo di imporre una “concezione nazionalistica e culturalistica della modernizzazione. Le politiche e i movimenti neocomunitari, non potendo ritornare al tipo di società proclamato dalla loro ideologia, sostituiscono a un’esperienza culturale vissuta un’ideologia imposta perlopiù in modo autoritario” [Ibidem]. Si tratta evidentemente di un processo di “degradazione” che opera in due direzioni: le identità basate su ruoli sociali si disgregano e scivolano progressivamente verso nuove forme di comunitarismo. Queste ultime attribuiscono alla difesa di una identità collettiva una vera e propria forza politica che il più delle volte si traduce nel rifiuto dello straniero e nella costruzione di comunità chiuse dalle quali vengono allontanati quanti appartengono ad un’altra cultura o quanti si oppongono al volere delle classi dirigenti.
La “degradazione” di cui si parla investe chiaramente anche l’attività economica che, desocializzandosi, si riduce a mercato internazionalizzato.
La “desocializzazione” è anche “spoliticizzazione”, cioè crisi del politico, la quale assume le forme più disparate: dalla crisi della rappresentatività alla crisi della fiducia, fino al disfacimento delle istituzioni, prima fra tutte quella dello Stato nazionale. La “demodernizzazione” è, come già spiegato, il prodotto del crollo della capacità di gestire due dimensioni: la razionalità strumentale e l’individualismo morale, la cui separazione caratterizzava la modernità.
Touraine è, infatti, convinto che l’epoca contemporanea sia ancora pienamente “moderna”; tuttavia, ne rileva una profonda crisi, le cui cause sono rintracciabili nello sviluppo di due processi complementari eppure contrapposti.
Il primo vede la razionalità strumentale dominare la vita degli individui e subordinare ogni loro azione alle logiche del mercato globale; il secondo è, invece, caratterizzato dalla radicalizzazione del soggettivismo, cioè dalla ricerca quasi ossessiva di identità, collettive o personali, da difendere contro la frammentazione della vita sociale.
Se la situazione di contesto è quella appena descritta, è evidente che le lacerazioni di cui si parla investono inevitabilmente la sfera sociale dell’esperienza degli individui ed hanno sul vissuto di questi ultimi un peso rilevante.
Come afferma Touraine, “il mondo vissuto (…) perde la propria unità (…) perché i suoi membri sono sollecitati da forze centrifughe che li trascinano, da un lato, verso l’azione strumentale e l’attrazione verso i simboli della globalità e di una modernità sempre più caratterizzata dalla desocializzazione, e, dall’altro, verso l’appartenenza arcaica a una comunità caratterizzata dalla fusione di società, cultura e personalità” [Touraine 1998, 52].
Le riflessioni fin qui condotte alimentano degli interrogativi interessanti.
Come si può ristabilire la comunicazione, fra economia e cultura, interrotta dai processi di globalizzazione e dalla conseguente “demodernizzazione”?
Come si possono ricomporre le due metà dell’esperienza individuale, o meglio, per dirla con Touraine, “è possibile armonizzare fra loro liberalismo e comunità, mercato e identità culturale? Si può vivere insieme, uguali e diversi?” [Ivi, 59]
La ricomposizione dei due elementi, razionalità e soggettività, e quindi la ricostruzione dell’esperienza passa, secondo Touraine, attraverso la rinascita del “Soggetto”, cioè attraverso un percorso individuale che lo studioso definisce di “duplice disimpegno” e che indica la “duplice reazione contro il degrado delle due metà dissociate dell’esperienza” [Ivi, 67]. Il “duplice disimpegno” si esplica nell’emancipazione dell’individuo dalla comunità cui appartiene, e dal mercato che lo spinge ad assumere comportamenti essenzialmente strumentali.
L’individuo che diventa “Soggetto” attraverso la sua volontà di “individuazione” si costituisce quale elemento di mediazione fra l’universo della strumentalità e quello dell’identità. Ciò che lo distingue è il suo radicamento nella sfera privata e la sua volontà di legare il vissuto privato a quello pubblico e viceversa, ed è proprio questa articolazione della dimensione pubblica e di quella privata che dà un senso nuovo alle forme di mobilitazione sociale che attraversano l’epoca “demoderna”.
Decidendo di resistere alle forze centrifughe che spingono da un lato ad assumere comportamenti strumentali, e dall’altro lato a rinchiudersi in comunità autoreferenziali, l’individuo diviene “Soggetto”, cioè attore che agisce sul suo ambiente modificandolo.
Il “Soggetto” è, quindi, prima di tutto resistenza, e poi liberazione dalle influenze del mercato e della comunità. Ma il “Soggetto” è anche ricostruzione dell’unità della propria esperienza attraverso quella che Touraine chiama “Soggettivazione”, intendendo con questo termine proprio “la costruzione del “Soggetto” attraverso la ricerca di una felicità che può nascere solo dalla ricomposizione di un’esperienza di vita personale autonoma, che non può e non vuole scegliere fra globalizzazione, soprattutto quella attuale, e identità” [Ivi, 76].
La “Soggettivazione” è, pertanto, volontà di “individuazione”, cioè volontà espressa dall’individuo di ridefinire se stesso in base a quello che fa e attraverso i rapporti sociali nei quali si inserisce; è il desiderio di ritrovare le condizioni che possano consentirgli di ritornare ad essere attore della propria esistenza.
La lotta e la resistenza alle logiche del mercato e a quelle della comunità, unite alla volontà di “individuazione”, caratterizzano l’esperienza dell’individuo e lo determinano in quanto “Soggetto”. Ma non dimentichiamo che quest’ultimo è soprattutto azione, non mera riflessione su di sé; quindi pur prendendo le mosse dal vissuto individuale, il Soggetto risulta incompleto se non lega la sua esistenza al riconoscimento dell’Altro: “il Soggetto può entrare in relazione solo con un altro Soggetto, animato come lui da una volontà di duplice disimpegno e di costruzione di sé” [Ivi, 93]. Il passaggio dal “Soggetto” all’attore sociale diventa impossibile senza il riconoscimento dell’“Altro”, senza cioè l’instaurazione di una relazione con un altro “Soggetto” impegnato nel medesimo sforzo per la ricostruzione dell’esperienza personale o collettiva. Il “Soggetto” si afferma, dunque, nel rapporto interpersonale, attraverso il riconoscimento della volontà di individuazione di tutti coloro che avvertono la necessità di coniugare strategie economiche e identità culturali.
Considerando gli studi sulla società civile, affrontati nelle pagine precedenti, ci domandiamo, quindi, qual è il contributo che essa può fornire all’interno di un contesto che vede da un lato una crisi di soggettività e dall’altro lato una situazione di deficit istituzionale?
Le trasformazioni contemporanee indeboliscono, come visto, sia l’individuo che le collettività: il primo assume un carattere debole perché, mancando di riferimenti culturali precisi, rimane non solo in balia delle mille opportunità che ha davanti ma anche di una costante ricerca di autenticità; le collettività, d’altro canto, smarriscono quel senso di appartenenza nazionale che la modernità societaria, attraverso un quadro istituzionale relativamente stabile, garantiva e oscillano fra un ritorno alla comunità, intesa come microcosmo al cui interno trovare una risposta alla domanda di identità, e una accettazione passiva di forme di potere dispotico che danno all’individuo una sicurezza che placa il suo senso di smarrimento. Alla luce dei mutamenti di cui abbiamo parlato e consapevoli dei processi che investono l’individuo e le collettività, ripensare il concetto di società civile può forse aiutare a dare una risposta a questa duplice crisi.
La società civile, proprio perché dotata di una intrinseca capacità istituente, potrebbe, infatti, dare un contributo nel riconnettere l’esperienza soggettiva con la dimensione istituzionale, essa potrebbe, in altri termini, costituire oggi uno dei luoghi privilegiati all’interno dei quali il “Soggetto”, inteso alla maniera di Touraine come l’attore che agisce sul suo ambiente modificandolo, si forma e si esprime: “nelle sue manifestazioni, la società civile costituisce uno dei luoghi dove il Soggetto può far confluire dimensioni che appaiono inconciliabili: azione e relazione, capacità di prendere distanza dall’ordine delle cose esistenti e attaccamento alla realtà nella quale vive, desiderio di libertà e creatività e volontà di impegno” [Magatti 2005, 158].
E’, quindi, nella società civile che possono nascere contestazioni che non si sviluppano con l’obiettivo di creare un nuovo tipo di società, ma per difendere un “Soggetto” mosso dalla volontà di “individuazione”. In epoca “demoderna”, potrebbero trovare posto, nello spazio della società civile, dei movimenti collettivi il cui obiettivo è proprio liberare “la capacità dei più di agire in quanto Soggetti, ossia di associare nella vita e nell’azione, attività economica modernizzatrice e identità nonché tradizioni culturali” [Touraine 1997, 58].
Approfondendo l’analisi e domandandoci, alla luce di quanto detto, qual è la forma che possono assumere questi movimenti sociali, troviamo una risposta di nuovo nelle parole dello studioso francese che afferma: “gli unici movimenti societari oggi possibili sono quelli che sostengono il “Soggetto” personale contro il potere dei mercati e contro quello degli integralismi comunitari e nazionalistici” [Touraine 1998, 107].
I movimenti societari10 delle epoche precedenti erano mossi dalla volontà di abolire un rapporto di dominio fra dominanti e dominati; erano, pertanto, portatori di un progetto di società nella quale avrebbero trionfato il principio dell’uguaglianza e la creazione di un “Soggetto” collettivo politico, religioso, di classe o comunitario.
Oggi l’immagine di un “Soggetto” impegnato nella definizione di se stesso attraverso una lotta contro l’universo strumentale e contro quello simbolico sostituisce le coppie conflittuali che contribuivano a formare l’azione dei vecchi movimenti societari (capitalisti/lavoratori, borghesia/popolo ecc.).
Il conflitto è, quindi, ancora centrale, perché senza di esso il “Soggetto” non riuscirebbe a prendere forma11. Ciò che cambia rispetto al passato è la natura del conflitto stesso, e di conseguenza, la natura del “Soggetto”. Ma spieghiamoci meglio.
10 In base alla definizione data da Touraine di movimento sociale, riportata nel paragrafo 1.3.1 del presente studio, per
“movimento societario” si deve intendere quella forma d’azione collettiva che mette in discussione le modalità di utilizzo e di orientamento di determinate risorse sociali e dei modelli culturali. Il conflitto che la produce riguarda, quindi, alcuni orientamenti generali della società.
11 Ricordiamo che il “Soggetto” si costituisce a partire da sé ma anche attraverso un conflitto che lo mette di fronte ai due
In passato i movimenti societari erano espressione di un conflitto propriamente sociale a cui veniva collegato un progetto culturale definito in rapporto ad un “Soggetto”. Quest’ultimo, di volta in volta, poteva manifestarsi in forma politica, di classe, religiosa, nazionale. Oggi, invece, il “Soggetto” si rivela nella sua forma più autentica, cioè come Soggetto personale. E’ per questo che, nel nostro tipo di società, i movimenti societari esistono per affermare e difendere i diritti del Soggetto; ciò li obbliga ad una trasformazione interna che li porta a diventare movimenti etici12, cioè movimenti che si fronteggiano con un avversario per la difesa della libertà del “Soggetto”, forme d’azione collettiva che rifiutano ogni genere di identificazione con delle categorie sociali proprio perché il principale