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Movimenti ed organizzazione

Come già accennato, l’insoddisfazione nei confronti dello struttural-funzionalismo produce, al di là dell’oceano, analisi differenti la più nota delle quali va sotto il nome di Resource Mobilization Theory.

Questa teoria si preoccupa di studiare come un movimento si organizza e si sviluppa nel tempo. Ma, concentrandosi sull’organizzazione e sulla gestione delle risorse interne ed esterne di un movimento, la Resource Mobilization Theory finisce per considerare l’azione collettiva come un dato e risulta, quindi, incapace di spiegarne il significato e l’orientamento.

Il problema opposto si incontrava, invece, nel caso degli studi europei che, come visto, spiegano “perché” un movimento si costituisce ma non “come” esso mantenga la sua struttura e gestisca i suoi rapporti con l’ambiente.

Nei prossimi paragrafi analizzeremo nel dettaglio alcuni dei principali contributi riconducibili alla Resource Mobilization Theory. Di fronte ad una identità collettiva che stenta a costituirsi poiché risente delle trasformazioni indotte dai processi di cui si è parlato in precedenza, il dibattito pare spostarsi sull’elemento organizzativo cui i movimenti contemporanei sembrano attingere per trovare una risposta al loro bisogno di identità collettiva.

Per molto tempo gli studi americani sui movimenti sociali sono stati dominati dalla prospettiva del collective behavior, in base alla quale i fenomeni collettivi rappresentano delle risposte irrazionali a situazioni di crisi intervenute in qualche settore del sistema sociale. Questa concezione fa da sfondo allo schema analitico elaborato da Smelser che, a partire dalla visione parsonsiana del sistema sociale come organismo in equilibrio, capace di autoregolazione, concepisce l’azione collettiva non istituzionale come una risposta ad un fattore di disturbo (strain) che si sviluppa in qualche componente dell’azione sociale: valori, norme, motivazioni individuali, risorse. Attraverso il nascere ed il diffondersi di una “credenza generalizzata” (definizione comune della situazione) che permette la preparazione dei partecipanti all’azione e l’identificazione dei fattori della tensione, prende corpo quindi il comportamento collettivo, volto a ristrutturare la componente disturbata ed a riportare l’equilibrio [Smelser 1968].

L’analisi smelseriana, pur costituendo un punto di riferimento di estrema importanza negli studi sui movimenti sociali, ha subito numerose critiche, prima di tutto a causa della mancanza di comprensione dei contenuti conflittuali e del carattere antagonista di cui sono portatori i movimenti sociali, in secondo luogo perché è una concezione intrisa di pregiudizi negativi nei confronti delle forme d’azione collettiva non istituzionali, le quali sono intese semplicemente come uno dei meccanismi attraverso cui l’azione sociale viene ridefinita15.

Contro questo modo di intendere i fenomeni collettivi e in contrapposizione anche alla analisi prodotte dagli studiosi appartenenti all’approccio della “deprivazione relativa”16, nel corso degli anni Settanta, prendono corpo una serie di contributi che vanno sotto il nome di “Resource Mobilization Theory”.

15 Per ulteriori informazioni sull’analisi di Smelser si veda: Smelser (1968).

16 Questo filone d’analisi sposa l’assunto in base al quale i comportamenti collettivi ed i movimenti sociali sono il prodotto

di sentimenti di privazione avvertiti da alcuni soggetti sociali rispetto ad altri. Il malcontento generato da questo senso di malessere potrebbe, quindi, portare alla formazione di movimenti sociali, intesi proprio come la manifestazione irrazionale di situazioni di frustrazione e di privazione.

Non si tratta di un paradigma omogeneo, ma di un contenitore ampio che amalgama al suo interno una molteplicità di orientamenti, a volte anche molto distanti fra loro. Tuttavia, seguendo l’analisi di Jenkins, si possono elencare una serie di assunti condivisi da diversi autori riconducibili a questo approccio teorico.

Innanzitutto, bisogna sottolineare che le prospettive di cui si parla pongono enfasi sulla continuità fra il movimento sociale e le azioni istituzionalizzate, sottolineano la razionalità degli attori di movimento ed il peso dei problemi strategici che essi affrontano, ed evidenziano il ruolo che i movimenti svolgono per il cambiamento sociale [Jenkins 1983]. Andando ancora di più nello specifico, questi studiosi sono concordi nel ritenere che:

• le azioni di movimento costituiscono delle risposte razionali, adattabili ai costi ed alle ricompense di linee d’azione differenti;

• gli obiettivi di base dei movimenti sono definiti da conflitti di interesse che sorgono nelle relazioni di potere istituzionalizzato;

• le proteste generate da questi conflitti hanno un carattere permanente e, per tale motivo, la formazione e la mobilitazione dei movimenti dipende dai cambiamenti delle risorse, dall’organizzazione del gruppo e dalle occasioni che si presentano per l’azione collettiva;

• le organizzazioni di movimento centralizzate e strutturate formalmente sono più tipiche dei movimenti sociali moderni, e risultano essere più efficaci nella mobilitazione delle risorse e nell’affrontare le sfide che si presentano rispetto alle strutture decentralizzate e informali;

• il successo dei movimenti è fortemente determinato da fattori strategici e dai processi politici nei quali essi stessi sono inseriti [Ibidem].

Un ulteriore elemento che accomuna le diverse posizioni teoriche della “Resource Mobilization Theory” ha a che fare con una domanda: “come” inizia e “come” si sviluppa la mobilitazione?

Il cambiamento di prospettiva è evidente. I precedenti approcci si interrogano sul “perché” gli individui si mobilitano. L’assunto di partenza è, infatti, la considerazione che l’emergere di movimenti sociali sia inevitabilmente connesso alla presenza di frustrazioni e di malcontento nel tessuto sociale: la mancanza di controllo sociale e di integrazione normativa, causati da cambiamenti nella struttura sociale, creano tensioni che a loro volta spingono gli individui a prendere parte a comportamenti collettivi, intesi questi ultimi come una risposta non istituzionalizzata e non razionale al mutamento. I teorici della mobilitazione delle risorse non negano l’esistenza di malcontento nella società, ritengono anzi che esso sia insito nelle dinamiche sociali. Tuttavia, sono concordi nel ritenere che per spiegare la presenza di movimenti sociali non sia sufficiente fare riferimento a questo conflitto potenziale, ma sia invece necessario considerare le cause delle variazioni nella disponibilità di risorse grazie alle quali è possibile organizzare i movimenti. Gli attori impegnati nella mobilitazione sono quindi intesi come soggetti che agiscono razionalmente nel perseguimento dei loro obiettivi, tenendo conto dei costi e dei benefici connessi all’azione. Si ritiene inoltre che le rivendicazioni ed i fini che il movimento si propone di raggiungere, essendo il prodotto di relazioni di potere, non possano essere in grado di spiegare la formazione della mobilitazione la quale, invece, dipende, come già evidenziato, dai cambiamenti nella disponibilità di risorse, dall’organizzazione e dalle opportunità per l’azione collettiva17.

I teorici della mobilitazione delle risorse ritengono, pertanto, fondamentale capire quali sono i meccanismi in grado di trasformare il malcontento ed il conflitto, sempre latenti nella società, in mobilitazione. Il quesito a cui rispondere è quindi: cosa consente la mobilitazione di attori conflittuali?

La risposta è presto data: è la disponibilità di risorse, materiali e non, che permette ad un gruppo di agire per la mobilitazione: “al di là dell’esistenza di tensioni, la mobilitazione deriva dal

modo in cui i movimenti sociali sono in grado di organizzare lo scontento, ridurre i costi dell’azione, utilizzare e creare reti di solidarietà, distribuire incentivi ai membri, acquisire consensi all’esterno” [Della Porta, Diani 1997, 21].

E’ evidente da quanto appena detto che, nella prospettiva della mobilitazione delle risorse, un ruolo fondamentale è rivestito dal concetto di “organizzazione”, intesa come un elemento in grado di compattare il gruppo, di raccogliere e gestire le risorse necessarie alla mobilitazione.

L’organizzazione diventa il perno intorno al quale ruota l’intera costruzione teorica degli americani, John McCarthy e Mayer Zald.

La mobilitazione, infatti, prende vita grazie all’attività svolta da quella che i due studiosi definiscono “Organizzazione di Movimento Sociale” (Social Movement Organization, SMO). E’ l’organizzazione che raccoglie e gestisce le risorse necessarie alla mobilitazione e che trasforma il malcontento generalizzato e le aspettative diffuse in vere e proprie rivendicazioni.

Per dirla con McCarthy e Zald, una “SMO” è un’organizzazione che identifica i suoi obiettivi con le preferenze di un movimento sociale o di un contromovimento, e cerca di realizzare questi obiettivi18.

Per far capire meglio il ruolo assunto dalle organizzazioni di movimento gli studiosi propongono l’esempio del movimento dei diritti civili americano, e sottolineano come questo soggetto comprendeva al suo interno, accanto ad una larga porzione di popolazione che possedeva preferenze dirette al cambiamento ed alla realizzazione della “giustizia per i neri d’America”, anche un elevato numero di organizzazioni di movimento, come il “Congress of Racial Equality” o la “Southern Christian Leadership Conference” che rappresentavano e modellavano le molteplici preferenze del movimento nel suo complesso.

L’insieme delle organizzazioni di movimento che hanno come obiettivo il raggiungimento delle preferenze del più ampio movimento sociale costituisce una “industria di movimento sociale” (Social Movement Industry, SMI)19.

Infine, l’insieme delle industrie di movimento sociale dà vita ad un “settore di movimento sociale” (Social Movement Sector, SMS) il cui sviluppo dovrà essere tenuto in considerazione ed analizzato per poterne determinare il peso nell’economia nazionale, proprio come si fa per altri settori industriali.

La “Social Movement Organization” diventa, in quest’ottica, il motore stesso della mobilitazione: si occupa sia del recupero che della gestione delle risorse necessarie all’azione, mette in atto una serie di strategie anche di tipo pubblicitario per assicurarsi credibilità all’esterno, coordina i rapporti con l’ambiente circostante. Quanto appena detto non deve indurre a pensare che un movimento sociale coincida con le organizzazioni che ad esso fanno riferimento.

L’analisi dei due studiosi americani vuole semplicemente introdurre gli elementi fondamentali di una “teoria parziale” sui movimenti sociali, che faccia del concetto di “risorsa” e di quello di “organizzazione” le chiavi di lettura fondamentali per superare i paradigmi precedenti influenzati, invece, dalla psicologia sociale ed incapaci di spiegare razionalmente questo tipo di comportamenti collettivi.