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La costruzione dell'Altro e del Medesimo e la critica dell'Antropologia

Partendo dal terzo dei punti sopra richiamati con riferimento a Said, ovvero l'esistenza di un rapporto peculiare tra la costituzione di un certo ordine e l'esperienza del suo fuori, si tira in causa uno dei cardini su cui si basa la visione foucaultiana della Storia: una Storia che storicizza integralmente ogni cosa senza confrontarsi con la dimensione dell'evento, della frattura, della possibilità che dietro l'apparenza di un progresso che registra la differenza tra passato e presente non vi sia che un mutamento di tipo epistemico, cioè nelle modalità in cui le cose si offrono al sapere o di come questo le prende o esso stesso le produce.

Con le parole di Foucault, “al livello archeologico, vediamo che il sistema delle positività è cambiato radicalmente alla svolta dal XVIII al XIX secolo. Non che la ragione abbia fatto progressi; è il modo d'essere delle cose che è stato profondamente alterato: delle cose e dell'ordine che, ripartendole, le offre al

77 E.Said, Orientalismo, op. cit., p.271 78 Ivi, p.343

sapere”79.

La storia non è estranea alla storicità; e anzi, dovendo essa stessa confrontarsi con la sua falda storica, mostra che esistono non tanto delle origini come punti di non ritorno, ma delle emergenze che ne fondano le condizioni ontologiche, per una data epoca, cultura e geografia, definendo delle familiarità del pensiero.

Si potrebbe così tracciare “una storia dei limiti”, ossia di quelle esperienze che, sebbene emarginate e poste tra parentesi nel presente storico, costituiscono lo sfondo da cui si dà la possibilità stessa della storia; la storia “di quei gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, con i quali una cultura rifiuta qualche cosa che sarà per essa l'Esterno; e, nel corso della sua storia, questo vuoto scavato, questo spazio bianco attraverso il quale essa si isola la designa quanto ai suoi valori”80.

Foucault parte dall'individuazione dell'esistenza di una “Storia della follia nell'età classica”, situata nelle pieghe silenziose, o meglio silenziate, del rapporto dell'uomo di ragione con se stesso ed entro le fratture storiche che hanno messo al servizio di un apparato disciplinare un sapere su ciò che sfugge alla ragione, secondo raggruppamenti che corrispondono alle esigenze ordinatorie, economico- amministrative, per così dire, di ciascuna epoca.

Vale quindi il principio storico per cui una cultura definisce se stessa per mezzo di quei gesti impercettibili per la Storia degli universali, celati, attraverso cui mette fuori quello che considera il diverso, l'altro, il suo fuori.

Pochi anni dopo la stesure di “Storia delle follia”, ne “Le parole e le cose” Foucault scrive di voler analizzare quell’ “esperienza nuda dell’ordine e dei suoi modi d’essere”81 che per ogni cultura costituisce il “basamento positivo delle

conoscenze”, “ciò a partire da cui conoscenze e teorie sono state possibili”82.

Tale esperienza dell’ordine determinerebbe lo “spazio d’identità, di similitudini, d’analogie”83 che organizza il mondo per gli appartenenti ad una data comunità di

parlanti, ovvero dei “codici fondamentali”84 che definiscono una data episteme in

una data epoca.

Dunque “Storia della follia” – come scrive dopo la controversia con Derrida -

79 M.Foucault, Les motes et les choses - une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; trad it. Le parole e le cose - un'archeologia delle scienze umane, trad. di E.Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967, p.12

80 M.Foucault, Prefazione alla Storia della follia, in Archivio Foucault vol.1, Interventi, colloqui, interviste 1961-1970. Follia, scrittura, discorso, a cura di J.Revel, Feltrinelli, Milano 1996, trad. di G.Costa, pp.49- 58, qui p.51

81 M.Foucault, Le parole e le cose, op. cit. , p. 11 82 Ivi, p.11

83 Ivi, p.9 84 Ivi, p.10

come storia dell'Altro, “di ciò che, per una cultura, è interno e, nello stesso tempo, estraneo, e perciò da escludere (al fine di scongiurarne il pericolo interno) ma includendolo (al fine di ridurne l'estraneità)”85; “Le parole e le

cose” come storia del Medesimo, come storia dell'ordine delle cose, “di ciò che, per una cultura, è disperso e imparentato, e quindi da distinguere mediante contrassegni e da unificare entro identità”86.

I due aspetti sono chiaramente complementari: nelle determinazioni possibili entro il campo di sapere che definisce una episteme, dei sistemi di limiti e di esclusioni tracciano lungo segmenti plurimi ma interrelati ciò che con un unico gesto fondamentale e fondativo viene a definire la soglia di separazione tra il sé e l'Altro. Il problema emerge tuttavia a partire dalla lettura che Foucault dà dell'episteme moderna, per la quale “il pensiero moderno avanza nella direzione in cui l'Altro dell'uomo deve diventare il suo Medesimo”87: “questo pensiero infatti non procede

più verso la formazione mai compiuta della Differenza, ma verso la rivelazione sempre attuale del Medesimo”88.

Dunque il recupero della differenza avviene pur sempre sotto un regime identificatorio: il fuori è internato e oggettivato fin quando non si assume su di esso quella padronanza che definisce il rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza. E così quella che appare come una soglia di separazione è in realtà una soglia di indistinzione – tra il sé e l'Altro, tra il dentro e il fuori - che inaugura quel particolare modo di rapportarsi a se stesso che è proprio del soggetto occidentale, a partire dal momento in cui ha preteso di fondare su di sé il costituirsi di un sapere positivo sull'uomo stesso.

Sono due i punti di riferimento polemici che Foucault prende di mira: Cartesio e, lungo lo stesso sentiero che definisce un certo tipo di analitica della verità - contrapposta allo studio dei modi di veridizione, cioè, per Foucault, della maniera in cui un certo discorso viene ad assumere lo statuto di “discorso vero” - la critica kantiana.

Fin da uno dei suoi primi scritti, l' “Introduzione” all' “Antropologia”, il pensatore francese prende le distanze da una certa eredità kantiana, ovvero dal Kant critico della conoscenza che con la sua analitica della finitudine ha dischiuso la possibilità di individuare le condizioni universali della conoscenza vera.

Nell'esito cui giungono le tre domande della critica, sarebbe possibile intravedere il gesto che “contrassegna […] la soglia della nostra modernità [sanzionando] in tal

85 Ivi, p.14 86 Ibidem 87 Ivi, p.353 88 Ivi, p.365

modo per la prima volta quell'evento della cultura europea che è contemporaneo alla fine del XVIII secolo: il ritirarsi del sapere e del pensiero al di fuori dello spazio della rappresentazione”89.

Foucault sta parlando di un'esperienza che definisce peculiarmente l'Occidente, ben consapevole che l'episteme occidentale, per come si è andata costituendo attraverso una serie di fratture, di eventi che hanno segnato la distanza da un'epoca all'altra nel campo della conoscenza, è pensabile solo a partire da se stessa – dal nostro pensiero, quello che ha la nostra età e la nostra geografia – dal dischiudersi dell'utopia consolante di un sapere, dell'uomo sull'uomo, totale e disposto lungo una linea di accumulazione progressiva che tuttavia, rispetto alla metafisica dell'età classica, finisce per aprire alla possibilità di una metafisica nuova.

Infatti, quando l'uomo fa la sua apparizione sul campo del sapere, scopre che esistono dei saperi che lo trascendono e che pongono immediatamente la questione di un rapporto dell'uomo con la sua origine.

Si inaugura un rapporto nuovo tra la critica e l'antropologia, per cui la critica viene ad essere schiacciata dalla questione antropologica sul “se, al livello dell'uomo, possa esistere una conoscenza della finitudine, sufficientemente liberata e fondata, per pensare questa finitudine in se stessa, vale a dire nella forma della positività”90.

Ma una volta che le tre domande critiche (cosa posso sapere, cosa devo fare, cosa mi è permesso sperare) vengono ad essere contenute nella domanda dell'antropologia su “cosa è l'Uomo” si giunge all'esito paradossale che ha fatto sì che, per la mancata definizione di un rapporto coerente tra critica e antropologia, la filosofia post-kantiana sia incappata in un sonno nuovo rispetto a quello metafisico: la pretesa di far valere l'antropologia come critica e di fare così delle scienze umane il campo in cui si fondano le scienze empiriche91 – per quanto esse non si occupino

direttamente degli oggetti empirici ma di come l'uomo si rappresenta quelle positività che pure lo trascendono – è una pretesa basata sull'illusione che l'uomo e la finitudine siano accessibili alla conoscenza.

In realtà “una finitudine senza infinito non è altro che una finitudine che non ha mai finito, perpetuamente arretrata rispetto a se stessa, cui resta ancora qualcosa da

89 Ivi, pp.262-263

90 M.Foucault, Introduzione all' «Antropologia» di Kant, in I.Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, con introduzione e note di M.Foucault, trad. di M.Bertani e G.Garelli, Einaudi, Torino 2010, p.89

91 Così “l'antropologia assumerà la struttura di una scienza che indica alle altre le loro possibilità e i loro limiti”.

pensare nell'istante in cui pensa”92.

L'istituzionalizzazione della scienza moderna è resa possibile nel punto in cui si congiungono l'affermazione kantiana che considera le condizioni della conoscenza quali trascendentali, universali e necessarie e quella di Descartes “allorché affermò che per accedere alla verità è sufficiente essere un soggetto qualsiasi capace di vedere ciò che è evidente”93.

Attraverso una lettura che alla fine arriva a dare la parola a Nietzsche, la posizione di Foucault, distaccandosi dall'approccio trascendentalista, considera le condizioni della conoscenza come relative, particolari e contingenti ai contesti culturali e alle pratiche discorsive: il possibile, e quindi il conoscibile, non è pensabile che “a partire dal sistema dato dell'attualità e la pluralità dei mondi non si profila che a partire dal mondo esistente”94 per cui il mondo come sistema di attualità o di

rapporti reali dati impone di pensarne le frontiere e i limiti, ma non impedisce di pensare che, in un altro sistema, “altri rapporti saranno altrimenti definiti”95.

Da un punto di vista che pure si rileva “escludente”, nel senso che è esclusivamente proprio del movimento del logos occidentale, si trova del resto il paradosso del principio kantiano per cui “se la conoscenza ha dei limiti, essi risiedono interamente nella struttura del soggetto conoscente, vale a dire proprio in ciò che permette la conoscenza”96.

Il razionalismo moderno ha prodotto così una delle sue fratture epistemologiche, scindendo nell'uomo quella parte di sé destinata a rimanergli estranea, impensata, sconosciuta, chiusa fuori proprio per l'impossibilità di pensare un processo di trasformazione del soggetto, un lavoro del sé sul sé, un'ascesi attraverso cui accedere alle condizioni della conoscenza vera.

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