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Trasvalutare l'emergenza dello stato di eccezione

Complementare all'analisi nietzscheana sul discorso della partigianità della verità della narrazione storica e della storia come gioco casuale delle dominazioni, è l'aspetto che guarda a quello che Chakrabarty definisce “naturalismo del tempo storico”, che “sta nel convincimento che tutto sia storicizzabile”417, nel senso di

secolarizzato.

Se la “cronofagia” del pensiero occidentale, rispetto alle società lasciate senza storia, fa del tempo, o meglio della concezione del tempo, un elemento che segna la qualità della civiltà, è perché la secolarizzazione, che implica a sua volta una visione del tempo completamente dentro la storia, è, nell'esperienza occidentale, una delle principali chiavi dell'esercizio del potere.

A partire da questo evento, si sarebbero sciolti i legami tra spiritualità e teologia, da un lato, e si sarebbe fatto coincidere il soggetto della conoscenza con il Dio-dotato- di-ragione del cristianesimo secolarizzato.

Foucault spiega questo passaggio quando dice che non è tanto grazie a un conflitto tra la spiritualità e la scienza che, a un certo punto, la conoscenza si è ritagliata una dimensione a parte, autonoma e autoreferenziale, quanto invece grazie alla teologia di derivazione aristotelica, che “proponendosi come riflessione razionale destinata, a partire dal cristianesimo naturalmente, a fondare una fede con una vocazione a sua volta universale, istituiva al contempo il principio di un soggetto conoscente in generale, un soggetto cioè che trovava in Dio il suo modello […]. Nel corso di questi dodici secoli non è avvenuto un conflitto tra spiritualità e scienza, bensì tra la spiritualità e la teologia”418.

Esiste quindi un codice di base della storia che è agganciato ad un ben preciso modo di esercitare il potere, e che perciò risulta essere intraducibile rispetto ai linguaggi di tutte le altre civiltà419.

Come ingiunge Chakrabarty, “non basta storicizzare la storia”420, ma occorre

417 D.Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, op. cit., p.107 418 M.Foucault, L'ermeneutica del soggetto, op. cit., p.23

419Marramao sottolinea “l'impossibilità di affrontare la tematica del potere in Occidente senza chiamare in causa un evento occidentale per antonomasia quale è la secolarizzazione: a ben guardare, infatti, solo l’occidente di matrice ebraico-cristiana ha conosciuto il fenomeno, o il complesso di fenomeni, che vengono ormai abitualmente compendiati in questa categoria. […] Se ammettiamo che la secolarizzazione è una delle chiavi privilegiate per afferrare la dinamica del potere specificamente occidentale, ne consegue che qui abbiamo anche un tratto che differenzia nettamente la traiettoria dell’occidente da quella di altre civiltà, per le quali non si può parlare a rigore di secolarizzazione, almeno nel senso in cui la intendiamo noi occidentali”.

Il testo è contenuto in G.Marramao, Genealogia del potere: tra secolarizzazione ed eternità, intervista di G.Sacco, in “Rivista Ssef”, II, giugno-luglio 2005, in http://rivista.ssef.it/site.php? page=20050811204831337&edition=2010-02-01#_ftnref1 (visitato il 12/12/2012)

vederne la finitudine.

E ancora, “si ritiene che la storia esista esattamente come esiste la Terra. Io parto invece dal presupposto che questo tempo, il codice di base della storia, non appartiene alla natura – esso non è del tutto indipendente dai sistemi di rapporti umani. Esso corrisponde a una particolare costituzione del soggetto moderno […] riconducibile al modello di un linguaggio superiore e dominante”421.

Il fuori della storia, che appare come l'emergenza nietzscheana, è costituito da quei “passati che oppongono resistenza alla storicizzazione”422.

E di questi va riconosciuta una memoria specifica, se si intende accogliere la visione utopica di Benjamin secondo cui occorre giungere a un concetto di storia che corrisponda al tempo in cui lo stato di eccezione diviene la regola423.

Uno stato di eccezione o un passato che emerge insieme e dentro il presente lo si vede non solo nei modi in cui si sono manifestate molte lotte anticoloniali, col richiamo di riti e l'appello agli dei, ma è evidente nei movimenti descritti da Foucault della rivolta di Khomeini e in tempi recenti nella spiritualità politica che ha animato l'eliminazione di dittatori che erano al potere da decenni in Egitto e Tunisia; ad un livello più generale, la stessa dimensione che l'occidentale descriverebbe come una commistione di quelle che si vedono essere diverse temporalità, si rintraccia ogni volta che in India sorge un antico tempio di fianco a una fabbrica424.

Il problema è, seguendo Agamben, il cui nome Chakrabarty stesso cita in una nota indicandolo come uno dei pochi interpreti di un tempo che non è quello omogeneo e vuoto, ripensare il concetto stesso di tempo, in quanto legato all'asse della narrazione storica come apertura di uno spazio di potere e di resistenze possibili: “Ogni concezione della storia è sempre data insieme con una certa esperienza del tempo che è implicita in essa, che la condiziona e che si tratta, appunto, di portare alla luce. Parimenti ogni cultura è una certa esperienza del tempo e una nuova cultura non è possibile senza un mutamento di questa esperienza. Il compito originale di un'autentica rivoluzione non è perciò mai semplicemente di ‘cambiare il mondo’ , ma anche innanzitutto di ‘cambiare il tempo’ ”425.

Il tempo omogeneo e vuoto non permette di pensare la dimensione dell'evento e dell'emergenza delle lotte, giacché è un tempo che “ricorda un sacco senza fondo: possiamo infilarci un numero infinito di eventi. Ed è omogeneo perché non viene

421 Ivi, pp.108-110 422 Ivi, p.140

423 W.Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p.33 424 Cfr: ivi, p.74

425 G.Agamben, Tempo e storia. Critica dell'istante e del continuo, in Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978, pp.89-107, qui p.91

influenzato da nessun evento particolare: la sua esistenza è indipendente dagli eventi e in un certo senso li precede. Gli eventi avvengono nel tempo, ma il tempo non ne viene influenzato”426.

La lotta contro l'oppressione coloniale determina uno stato di eccezione nella storia occidentale, che, però, anziché porsi nei termini di mera opposizione – secondo cioè la logica tipica in cui l'eccezione sta alla norma nella teologia moderna del potere politico427 – è, come osserva Bhabha, già “anche e sempre uno stato di emersione,

in cui qualcosa viene alla luce: la lotta contro l'oppressione coloniale perciò non solo cambia l'orientamento della storia occidentale, ma mette in discussione la sua stessa idea storicista del tempo come totalità progressiva e ordinata”428.

Allora accade che a divenire la regola è lo stato di eccezione che si incarna nelle lotte dei migranti e nell'emergere delle politiche dei governati: esso è dato dall'esplosione di “passati” postcoloniali ma soprattutto di un presente del tutto irriducibile ad un prima, per cui far esplodere la carica di questo stato di eccezione implica l'apertura a sondarne la discontinuità, anche nel senso di una imprevedibilità entro la nuova ratio governamentale e rispetto alle sue dinamiche. Per continuare a fare esperienza - un'esperienza che viene dopo la distruzione dell'esperienza, secondo una visione benjaminiana e nietzscheana con cui Foucault indubbiamente si trova d'accordo - in un mondo dove “il disincanto non è l'unico principio con cui mondeggiare la Terra”429, occorrerebbe insomma richiamare

un'idea del tempo che trasvaluti lo stato di eccezione anziché immergerlo livellato in un tempo omogeneo e vuoto privo di immaginazione e di possibilità di creazione. Come sintetizza Marramao, in Benjamin ci muoviamo sostanzialmente “in una prospettiva di cambiamento radicale, dentro la quale si possa riconquistare un’idea del tempo dove il futuro non è predeterminato e progettabile ma contingente e aperto alla creazione. […] Il tratto davvero dirimente del messianismo politico di Benjamin, è nel suo corrispondere all’appello del passato anziché a un'ingiunzione del futuro. Discende di qui una radicale inversione simbolica della nozione di attesa messianica, che fa della generazione presente – di ogni generazione presente – il destinatario o l’ “oggetto” dell’attesa e il “soggetto” della redenzione. In breve: siamo noi ad essere “attesi” dai morti. Siamo noi dunque, proprio noi che

426 D.Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, op. cit., p.106

427 In questo senso argomenta Agamben, che, partendo da una riflessione sull'opera schmittiana, porta avanti il discorso per cui “la sospensione di una norma non significa la sua abolizione e la zona di antinomia che essa instaura non è (o, almeno, pretende di non essere) senza relazione con l'ordine giuridico”: è una logica per cui non è pensabile una rottura rispetto alla griglia che racchiude un “dentro o fuori” dall'ordinamento.

G.Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p.33 428 H.Bhabha, I luoghi della cultura, op. cit., p.63

viviamo nel presente, ad essere investiti dalle generazioni passate della responsabilità non già di custodire utopicamente una speranza o un’aspettativa, bensì di intraprendere un’azione messianica”430.

Il problema è che questa azione, sganciata dal tempo omogeneo e vuoto e immersa nel carattere evenemenziale di un tempo-spazio eterogeneo, non la si riconosce se la si pensa nei termini dell'avvento di una nuova età della rivoluzione, di cui si ritrova l'origine, lungo una linea di continuità, in quel concetto di rivoluzione che tira in causa una ben precisa progressione degli eventi, ricomponendo una “pratica discorsiva e un sapere rivoluzionario”431 delle lotte.

Non si può, cioè, guardare al passato secondo il “procedimento di immedesimazione emotiva”432 che fonda la pretesa storicistica di attingere in maniera definitiva al

passato “come è stato davvero”433: questo passato con cui allo storico sarebbe

possibile entrare in un contatto simpatetico, oltre a rappresentare null'altro che la catena delle dominazioni che sigla il punto di vista del vincitore, presenterebbe un'analogia profonda con il presente434, precludendo la costituzione di un'ontologia

dell'attualità.

Un'ontologia dell'attualità non può che nascere, infatti, dalla critica del presente che l'ethos moderno può attivare a partire dalla ricerca della differenza che l'oggi introduce rispetto a ieri435; perché se la stessa soggettivazione non ritorna mai, solo

mantenendo il passato nell'oblio si pone il presente come possibilità del ricominciamento436, piegando il tempo attraverso la soggettivazione come “assoluta

memoria”437.

C'è, inoltre, implicita nella possibilità di un pensiero come problematizzazione438,

una differenza tra il presente stesso e l'attuale, nella misura in cui “l'attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l'Altro, il nostro divenir-altro”439: la definizione di una attualità che valga come

possibilità della differenza.

430 G.Marramao, Genealogia del potere: tra secolarizzazione ed eternità, op. cit.

Qui il filosofo italiano indica, con riferimento a Benjamin, l'espressione di un “messianismo senza attesa”, di un’inversione prospettica radicale dell’attesa messianica.

431 M.Foucault, L'Archeologia del sapere, op. cit., p.255 432 W.Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p.29 (tesi VII) 433 Ivi, p.27 (tesi VI)

434 Cfr: ivi, p.220

435 M.Foucault, Che cos'è l'Illuminismo. 1984, op. cit., p.219

436 Cfr: A.Pandolfi, L'etica come pratica riflessa della libertà. L'ultima filosofia di Foucault, op. cit., p.26 437 G.Deleuze, Foucault, op. cit., p.132

438 Come spiega Revel, “problematizzare equivale a cercare la possibilità e l'estensione di una differenza possibile rispetto al presente. Questa differenza possibile è ciò che, interrompendo il presente, apre alla dimensione dell'attualità”.

J.Revel, Fare moltitudine, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp.31-32 439 G. Deleuze - F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p.106

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