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L'implicazione del Sé nell'Altro e la dialettica del riconoscimento:

Probabilmente anche in risposta a quella che si è visto essere la prima obiezione di Derrida, Foucault decide, a partire dalla seconda edizione di “Storia della follia”, di eliminare la “Prefazione”, da cui emergeva quella mossa metafisica della ricerca di una dimensione originaria della follia; a partire da questo punto viene riconsiderata la distinzione tra il Medesimo e l'Altro, suggerendo che questi sono sempre necessariamente implicati l'uno all'interno dell'altro.

Non si tratta più di liberare una dimensione originaria, ma di scoprire che esiste all'interno della ragione, all'interno del sé, uno straniero che non si è in grado di comprendere.

Anche rispetto al problema del recupero di un non-linguaggio proprio della parola folle, Foucault corregge il tiro e assume la definizione di un'indicibilità, collocandosi

152 M.Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p.393 153 M.Foucault, L'Archeologia del sapere, op. cit., pp.8-11

154 R.Young, Mitologie bianche, op. cit., pp.171-172; a riguardo, anche H.Bhabha, I luoghi della cultura, op. cit., p.270-272

155 M.Foucault, L'Archeologia del sapere, op. cit., p.266 156 Ivi, p.18

su una posizione “oscillatoria” che non recupera semplicemente il delirio in un linguaggio, “perché questa strana cancellazione duplica ciò che le pagine cancellate dicevano parlando esse stesse […] di una cancellazione. Cancellata la follia, il suo silenzio (il vuoto, il mormorio) si staglia con ancora più evidenza”157.

E' una parte messa a tacere che non solo imprime una traccia sul tipo di rapporto con cui la società si pone nei confronti di se stessa, ma che riguarda anche il livello interiore dell'individuo: quando la società nell'età classica ha internato i folli insieme ai poveri e agli oziosi, erano in discussione “i rapporti della società con se stessa, con ciò che riconosce e non riconosce nella condotta degli individui”158; quando gli

aristocratici hanno richiesto la separazione dei criminali dai pazzi perché temevano che stando loro vicino sarebbero diventati folli a loro volta, si comincia a vedere che la questione dell'alterità – che è la questione dell'esperienza della follia – è una questione inerente al soggetto stesso, al suo dentro, e non comincia quando il soggetto esce fuori da se stesso159.

Rovatti ne “La follia in poche parole” suggerisce che la follia è diversità e paura della diversità, ma non della diversità degli altri, che possiamo confinare e neutralizzare, quanto della nostra diversità, cioè di quella parte della nostra identità che potremmo mettere in discussione soltanto accettando di smontare e rimontare continuamente quella costruzione che è la nostra soggettività, perché l'esperienza dell'altro “ci scompagina ma anche ci permette di avere un'esperienza di noi stessi”160, di trasformazione, di perdita di sé e

ricomposizione continua, direbbe Foucault.

“Il rischio ha come costo una perdita di parte della nostra soggettività. Di quella che normalmente chiamiamo la nostra soggettività, che corrisponde a un valore culturalmente acquisito e all'apparenza irrinunciabile: autonomia, padronanza di sé, libertà. […] Ma la distruzione del soggetto, che attraversa buona parte del pensiero contemporaneo, non è una resa nichilistica, come a molti fa comodo credere: è semmai la difficile conquista di quel poco di follia che ci serve”161.

Deleuze riconosce che in Foucault ciò che viene prodotto, in realtà, è un “doppio”, che “non è mai una proiezione dell'interiore [ma al contrario] un'interiorizzazione del fuori. […] Non incontro me stesso all'esterno, ma trovo l'altro in me”162.

A monte del problema c'è quel pensiero dell'identità e dell'identificazione che è

157 Ivi, p.25

158 M.Foucault, Malattia mentale e psicologia, op. cit., p.79 159 P.A.Rovatti, La follia, in poche parole, op. cit., p.43 160 Ivi, p.38

161 Ivi, pp.57 e 62

caratteristico della cultura occidentale: esso, da Parmenide a Heidegger, passando per Platone quale figura maggiore, è sempre stato legato all'idea dell'origine, del principio e della territorialità, ed ha posto l'essere come onnipresente e allo stesso tempo separato in ciascuno degli enti; così, “la filosofia identitaria non permette di pensare che ci possa essere dell'alterità in ciascuno di noi, né dialogo con le culture in cui non siamo nati. Non potendo concepire l'estraneità, è condannata a vedere l'estraneo e gli stranieri come modalità assurde dell'essere o come dei potenziali nemici”163.

Contro questa concezione del mondo che non permette di pensare veramente la differenza, in quanto ingloba e dissolve, per così dire, ciascuno degli enti, il pensiero del di fuori, da Blanchot a Foucault e Deleuze, costituisce gli enti come le

differenti e singolari modalità dell'essere.

Per Foucault, entrare in relazione col fuori, con l'impensato, significa delineare una forma di soggettivazione che non si raffigura come identità, ma si rapporta continuamente e senza fine alla differenza, in vista di una trasformazione, non di una ricomposizione dialettica.

Gli interpreti di Foucault, come detto, tra cui i sopra citati Deleuze, Rovatti e Young, hanno insistito nell'evidenziare il rapporto che esiste nella sua ricerca tra il sé e l'Altro: l'affermazione di un sé che si costituisce entro una forma non identitaria, tra perdita e ricomposizione, continuamente messa in discussione dal balenare della presenza dell'altro, è il motivo che segue la ricerca foucaultiana degli ultimi anni, in cui si esprime l'istanza etico-politica che consiste nell'invenzione, nel senso nietzscheano, di uno stile di esistenza.

L'abbandono del soggetto trascendentale si rende però qui necessario al fine di scongiurare il primo dei punti d'innesto del potere; ma è possibile proprio perché un soggetto c'era già, si era già costituito di fronte al potere e il potere lo aveva interpellato.

Si era potuto, cioè, innescare quel meccanismo che Butler chiama “vita psichica del potere” e che consiste in una relazione contestuale tra l'assoggettamento al potere e l'esistenza del soggetto: “ciò che noi siamo, il nostro stesso costituirci come soggetti, dipende proprio in qualche modo da quel potere”164.

Il paradosso della soggettivazione sta nel fatto che “l'assoggettamento è, sì, un potere esercitato su un soggetto, ma ciononostante è anche un potere assunto dal soggetto, assunzione, questa, che costituisce lo strumento stesso del divenire del

163 F.Laplantine, Identità e metissage, umani aldilà delle apparenze, trad. di C.Milani, Elèuthera, Milano 2004, p.28

164 J.Butler, La vita psichica del potere, a cura di C.Weber, trad. di E.Bonini e C.Scaramuzzi, Meltemi, Roma 2005, p.7

soggetto”165.

Ma che succede quando, come accade nella colonia di Fanon, un soggetto in questo senso non si è mai dato, non è mai stato “interpellato”?

Qui il riferimento è alla teoria dell'interpellazione di Althusser, che propone “la rappresentazione di una scena sociale nella quale il soggetto viene chiamato, si gira e accetta infine i termini attraverso i quali è stato chiamato”166, cioè, voltandosi,

riconosce l'esistenza di una “chiamata” da parte della figura allegorica dell' “ufficiale della Legge”.

Il problema, però, è che, se, come nella situazione coloniale, “l'autoctono musulmano – non ha – mai contratto un impegno nei confronti del gruppo sociale che ormai lo tiene in suo potere”167 (qui dovremmo leggere “potere” nel senso di

quel “dominio senza egemonia” di cui parla Guha, per distinguerlo dalla nozione di potere tratteggiata da Butler), non esiste alcun contratto sociale, “quel rapporto che fonda ogni autentica relazione”168.

Fanon sembra rispondere agli interpreti di Foucault - per i quali la nostra paura del diverso non è che la paura del diverso che è in noi, e da cui ci si difende per mantenere la propria identità – quando, prendendo Sartre come emblema dell'intellettuale occidentale che vuol difendere il Terzo Mondo con la sua prosa elegante169, dice: “A qualcuno verrà in mente di ricordarci che la relazione è

reciproca. Noi rispondiamo che è falso. Al cospetto del Bianco il Nero non ha più resistenza ontologica”170; “Sartre ha dimenticato che il negro soffre nel suo corpo

165 Ivi, p.17

166 Ivi, p.101. Il testo è contenuto nel capitolo “La coscienza ci rende soggetti. La soggettivazione e l'assoggettamento per Althusser”, pp. 101-127

167 F.Fanon-R.Lacaton, Condotte di confessione in Nord-Africa, articolo pubblicato per il “Congresso di Psichiatria e Neurologia di lingua francese”, LIII, Nizza 1955, pp.657-660, ora in F.Fanon, Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, a cura di R.Beneduce, ombre corte, Verona 2011, pp.123-126; qui in particolare la citazione si riferisce a p.125

168 R.Beneduce, La tormenta onirica. Fanon e le radici di un'etnopsichiatria critica, in F.Fanon, Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, op. cit., pp.7-70; qui citata p.57

169 In particolare, a proposito della prefazione scritta da Sartre a “I Dannati della terra”, Judith Butler ha osservato come egli abbia attuato due mosse che però registrano esiti paradossali: da un lato, esortando il lettore-colonizzatore-bianco a entrare in un libro che non è scritto per loro e non li invoca, “Sartre sta situando i lettori bianchi a una curiosa distanza, una posizione in cui viene imposto loro uno status periferico […] - che è – un requisito epistemologico per comprendere la condizione della colonizzazione” ma che tuttavia poi finisce per costituire “il gruppo che dovrebbe subire la decostituzione del proprio privilegio […]. Il problema, naturalmente, è che, rivolgendosi a questo gruppo come a quello dei privilegiati, come un privilegiato che parla ad altri privilegiati, anche rafforza il privilegio”; sulla questione della violenza della colonizzazione e dell'esortazione alla violenza contenuta nel testo di Fanon, la Butler pure nota che Sartre, riferendosi alla al fatto che Fanon sia il primo dopo Engels a mettere in luce “l'ostetrica della storia”, mentre stimola “la riflessività dell'europeo, al suo compito perenne di conoscere se stesso attraverso la prima persona”, nel contempo e specularmente “sembra eclissare la riflessività del colonizzato” perché “identifica le ferite che mobilitano il colonizzato e producono la decolonizzazione in un'inevitabilità storica, come se quelle ferite non dovessero passare attraverso la soggettività riflessiva del ferito”.

Il testo citato si trova in J.Butler, Violenza-non violenza. Sartre su Fanon, in “Aut Aut”, Judith Butler violenza-non violenza, Il Saggiatore, Milano ottobre-dicembre 2009

diversamente dal bianco”171.

E' vero che Fanon ha inteso analizzare l'alienazione del Nero quanto quella del Bianco, entrambi chiusi in un “corpo a corpo con la propria nerezza e con la propria bianchezza”172, ma il processo entro cui si costituisce il nero nella colonia (o, meglio,

non si costituisce) pone il desiderio come già saturato dall'immagine dell'Altro-

bianco, perché il nero non desidera essere nero ma essere bianco, occupare il posto del bianco, oppure attirare l'attenzione del bianco, ad esempio imparando alla perfezione il francese, oppure “diventando un évolué”: “Per il Nero non esiste che un'uscita, e questa è sul mondo bianco”173.

Allora, come conclude Beneduce, “Se il desiderio è completamente dominato dall'Altro, senza pausa, se l'immaginario ne è come saturato, se è esclusa la possibilità di un pensiero, di un “soggetto autonomo”, non c'è più spazio per il simbolico”174.

Su questo piano si pone anche la faccenda dell'imitazione, per cui, mentre nella vita psichica del potere il soggetto, per emergere, deve arrivare a negare le forme dell'attaccamento primario al potere175, ricercando “l'agire di un desiderio che mira

alla dissoluzione del soggetto”176, nella vita psichica del potere coloniale, non c'è

alcuna negazione; al contrario, l'imitazione del bianco da parte del nero si sviluppa come meccanismo viziato da un'ambivalenza, perché, come osserva Bhabha, “per poter avere qualche effetto, il mimetismo deve continuamente creare il proprio slittamento, il proprio eccesso, la propria differenza […]. L'eccesso o lo slittamento creato dall'ambivalenza dell'imitazione (quasi lo stesso, ma non proprio), non si limita a ‘rompere’ il discorso […]. Il successo dell'appropriazione coloniale dipende da una proliferazione di oggetti fuori luogo che garantiscono il suo fallimento strategico, cosicché il mimetismo è al tempo stesso somiglianza e minaccia”177.

L'esempio lampante di questi “oggetti fuori luogo” è proprio il nero évolué, che se trova aperte le porte al mondo della metropoli del bianco, in quanto si riconosce che è diverso dagli altri neri, finisce per perdersi nel gioco ambivalente dell'uso dell'attributo della diversità, perché “esser diverso da quanti sono diversi fa sì che

171 Ivi, p.175 172 Ivi, p.36 173 Ivi, pp.36-41

174 R.Beneduce, La tormenta onirica, op. cit., p.40

175 Nel ragionamento di Butler, esiste un “attaccamento primario” al potere nel senso che “esso ha tra le mani la stessa promessa della continuità dell'esistenza che determina il ruolo della madre, ed è per questo che, così come per il bambino non esiste alcuna possibilità di non amare – la madre – laddove l'amore è intrecciato ai requisiti per la vita stessa”, allo stesso modo il (non-ancora) soggetto pensa, inconsapevolmente: “Preferisco esistere in uno stato di subordinazione piuttosto che non esistere”. J.Butler, La vita psichica del potere, op. cit., pp.12-15

176 Ivi, p.14

tu resti sempre uguale a te stesso”178.

Il fallimento strategico attraverso cui si svolge la produzione di un eccesso entro il meccanismo della mimicry esemplifica il funzionamento dell'istanza del “non- ancora” e della mossa ambivalente che sta dietro il modo in cui viene trattata la cultura autoctona: non c'è semplicemente negazione ma il permanere in uno stato di inconsistenza, in cui la proiezione verso qualcosa è un puro strumento di disciplina della popolazione colonizzata, al fine poi di etichettarla scambiando la causa con la conseguenza.

Lo sintetizza Fanon quando dice che “l'imposizione del regime coloniale non comporta di per sé la morte della cultura autoctona. Anzi, da un esame storico emerge che l'obbiettivo voluto non è tanto la sparizione totale della cultura preesistente quanto la sua agonia prolungata. […] La mummificazione della cultura produce quella del pensiero individuale. L'apatia che tutti notano nei popoli coloniali non è che la conseguenza logica di tale operazione”179.

Parlando di cultura, è direttamente chiamato in causa il problema del linguaggio.

2.7 Segue: l'esplodere della dialettica del riconoscimento

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