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Gli studi postcoloniali al tempo dei nuovi subalterni

Se l'analisi marxiana si è esposta a questa serie di critiche è perché gli studi postcoloniali si pongono progettualmente dalla parte di chi riconosce in tutta la loro centralità, nel contesto attuale globale, le difficoltà della composizione della lotta di una massa che nel passato della decolonizzazione non può divenire classe.

Tuttavia, per sondare, ad oggi, il terreno su cui i postcolonial e, in particolare, l'approccio dei Subaltern Studies possono continuare a muoversi e ad essere portatori di una prospettiva determinante per il disvelamento dei legami costitutivi e politici tra dispositivi di razzializzazione e di presa del capitale, occorre guardare a come il loro metodo possa andare a ritradurre le proprie categorie rispetto ad un regime di governamentalità come quello attuale, caratterizzato da una struttura irriducibile a precedenti esperienze, tantomeno che all'esperienza politico- istituzionale del periodo della decolonizzazione e a ciò che è seguito, ma senza che si sia registrata “una lotta per la libertà”530, alla fase dichiaratamente coloniale, che

si è descritta come una peculiare combinazione di sovranità e di disciplina e controllo biopolitico, di quegli stessi meccanismi che si ripresenteranno poi in forma mediata, indiretta - ma soprattutto, ed è questo il problema – depoliticizzata, nella guida delle ex-colonie da parte di un governo pastorale occidentale che eredita i suoi strumenti politici di gestione dal biopotere coloniale.

Per essere diretti, e riprendendo un punto che Amselle già formulava in un'intervista a Partha Chatterjee per il Centre for Studies in Social Scienties di

Kolkata (CSSSC) nel 2006, andrebbe problematizzata la seguente questione: in un

contesto in cui l'esperienza indiana di sviluppo del capitalismo segna, da un lato, una crescita senza sviluppo e una caduta dell'elasticità occupazionale, dall'altro un aumento progressivo del divario tra classi medie e poveri, in tale contesto la

529 E.Said, Orientalismo, op. cit., p.163

530 Come riconosce Fanon, “il negro tuffato nell'inessenzialità della servitù, è stato liberato dal padrone. Non ha sostenuto una lotta per la libertà. […] Il capovolgimento ha raggiunto il Nero dall'esterno. [Egli] ignora il prezzo della libertà, perché non ha combattuto per averla”.

nozione di “subalterni” elaborata fino a un paio di decenni fa, si presta ancora a descrivere questi ultimi come in passato e come sperimentato dai Subaltern

Studies?

E quindi, può ancora essere utile ed attuale un approccio al problema della agency subalterna dal punto di vista della coscienza rivoluzionaria dei subalterni nella storia?

In un contesto globale in cui si può descrivere l'esperienza indiana partendo da uno dei temi critici fondamentali entro il paradigma dello sviluppo, quello della crescita senza occupazione, come contraddizione diffusa a tutto l'universo postcoloniale, occorre riproblematizzare sulla base di nuove coordinate, collocate nell'emergenza di nuove diversità e gerarchie, il ruolo di classe potenzialmente rivoluzionaria dei subalterni, per evitare di leggere in senso teleologico il richiamo a Gramsci, come proposto dai Subaltern Studies: ci si può legittimamente chiedere se i subalterni non siano ridotti piuttosto a “un aggregato di individui dal quale alcuni riescono a emergere – mentre altri sono condannati a restare dei miserabili...”531.

In questa direzione, Chatterjee risponde evidenziando come, proprio nel momento in cui il capitalismo basato sulle forme classiche della produzione di tipo industriale è reinvestito nell'apparato flessibile della governamentalità, ecco che può accadere di vedere come “in India, ad esempio, sebbene gran parte della popolazione rurale pratichi forme tradizionali di piccola produzione contadina, quest'ultima si rivela comunque legata a filo doppio al mercato, al governo, allo Stato e al voto”532.

E' ciò che fa sì che siano diventate in gran parte obsolete le categorie usate fino agli anni Settanta in riferimento alla coscienza contadina rispetto alla rivoluzione e alla questione della sua estraneità o inerenza rispetto al progetto nazionale e statuale: “Oggi ampi strati del mondo contadino esercitano un controllo diretto sullo Stato, anche se non siamo in presenza di forme politiche occidentali – posto che vengono inventate localmente – ma neppure di forme tradizionali”533.

Oppure, rovesciando la questione, ci si può viceversa chiedere se la categoria di subalterni possa essere recuperata e riletta in via estensiva, in vista di una ricomposizione di quelli che sono i nuovi subalterni, o, anche, meglio ancora, gli sfruttati che possono venire allo scoperto solo dopo che si è posta in premessa la situazione postcoloniale come condizione globale, nella specificità delle contraddizioni del rapporto che sussiste tra la produzione per il mercato e la produzione per l'accumulazione capitalista, per spiegare quindi cosa sta dietro

531 J.L.Amselle, L'India e il Centre for Studies in Social Sciences of Kolkata. Intervista a P.Chatterjee, op. cit.

532 Ibidem 533 Ibidem

quegli strati del mondo contadino che per Chatterjee ricoprono una sfera di attività che sono né di tipo tradizionale né riconosciute entro forme predeterminate dell'agire in senso politico.

Se questo vale con riguardo alla ripresa dei Subaltern Studies, sulla questione della cautela da prestare nel recupero dell'armamentario foucaultiano, parallelamente, bisogna riconoscere, come nel suo articolo Samaddar non ha smesso di puntualizzare - probabilmente guardando all'insieme dei libri e dei corsi del filosofo francese534 - che se si vuol essere effettivamente fedeli alla linea della critica che

Foucault nel suo corso del 1983 ha fatto risalire all'interrogazione filosofica di Kant sull'Illuminismo, quale atteggiamento che caratterizzerebbe la modernità, allora si deve dire che “il nostro tempo non è quello di Foucault. […] Contrariamente ad allora, oggi non pensiamo che il capitalismo e la società borghese siano stabili, in particolare sullo sfondo delle ripetute crisi valutarie e del tracollo economico, né tanto meno pensiamo che le società siano così individualistiche come Foucault le ha descritte”535.

Alla fine dell'articolo, rincarando la dose, conclude che “in realtà, alla luce del tracollo economico del 2008-2009 e della situazione postcoloniale, che è globale, è estremamente difficile capire come le ultime opere di Foucault possano guadagnare

534 Pur essendo la critica di Samaddar evidentemente ineccepibile alla luce della configurazione attuale del capitalismo globale, che, si ribadisce, ci rende soggetti di un'esperienza del tutto irriducibile al passato, non si può riassumere in termini così angusti e fissi un pensiero come quello foucaultiano per sua natura mobile e poroso, soprattutto se dalle interviste non emerge quell'individualismo estremo di cui parla Samaddar, e anche la “borghesia” cui fa riferimento non assume quel ruolo unico e monolitico, né tanto meno quello che si stringe nell'insieme di “proletariato”: è proprio questo il problema dei micropoteri e delle resistenze mobili e puntuali, locali, e del rifiuto di un'identità da assumere a partire da un gruppo (anche se l'esperienza della militanza politica non è certo qualcosa che si fa da soli), quando Foucault parla di una “massa che si marginalizza”, nel senso che a un certo punto ci si chiede: “E se sono proprio il proletariato e i giovani proletari a rifiutare l'ideologia del proletariato? Nel momento in cui la marginalità si massifica, potrebbe anche essere che la massa si marginalizza”.

Quanto al capitalismo e al suo portato di un imperialismo etnicizzante, del resto, in certi interventi Foucault si mostra esplicitamente consapevole che la sua appartenenza all'Europa costituisce un ostacolo alla possibilità di pensare l'altro del capitale o comunque quale potrà essere la frattura successiva; in particolare questo si evince quando dice: “E' verosimile che una cultura non capitalista non possa nascere ora che al di fuori dell'Occidente. […] Noi siamo indubbiamente troppo logorati per far nascere una cultura non capitalistica”.

Sulla finanziarizzazione e sulla crisi del debito, una estensione rimaneggiata dei temi foucaultiani della governamentalità e del potere pastorale è stata svolta in M.Lazzarato, La fabbrica dell'uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberalista, Deriveapprodi, Roma 2012.

Dunque, come Judith Revel ha avuto in più occasioni modo di precisare, occorre fare attenzione a non disarticolare i tre registri (libri, corsi e interviste) in quanto sono complementari e molto spesso aprono prospettive differenti anche quando appartengono allo stesso periodo.

Allo stesso modo Alessandro Fontana, che pure è stato uno dei curatori dei volumi tradotti in italiano dai Dits et écrits, in cui sono raccolte le interviste e gli interventi del filosofo francese, tiene ferma la precauzione che sta nel riconoscere che interviste e articoli sparsi “costituiscono le prese e il prolungamento del pensiero e dell'opera sul presente, sull'attualità, sull'immediato”.

A.Fontana, Leggere Foucault, oggi, in AA.VV., Foucault, oggi, a cura di M.Galzigna, Feltrinelli, Milano 2008pp.29-44, qui p.34

Le citazioni di Foucault si trovano, la prima in M.Foucault, Tavola rotonda. 1972, in Archivio Foucault vol.2, op. cit., pp.49-70, qui p.68; la seconda in Id., Dall'archeologia alla dinastica. 1973, in Archivio Foucault vol.2, op. cit., pp.41-82, qui pp.81-82

un'approvazione positiva al di là dei circoli di Nikolas Rose e di pochi altri autori che nulla hanno da offrire alla politica popolare”536.

Per Samaddar parlare di postcolonia globale significa far riferimento alla “situazione postcoloniale” (postcolonial predicament) in tutta la sua non neutralità, tenendo cioè presente la portata delle dissimmetrie che questa produce, come direttamente inscritte all'interno dei rapporti politici, sociali ed economici537; e, inoltre, vuol dire

parlare di una condizione prettamente infestata, nel suo dispiegarsi, da quella dialettica – anche se si vedrà in quale senso intesa - , basata su una logica della contraddizione, tanto odiata dal pensiero postmoderno e dalle scienze logiche astratte, oltre che ovviamente da Foucault.

Secondo lo storico indiano, infatti, “la dialettica sta nel cuore della situazione postcoloniale attraverso tre snodi principali: l'impronta postcoloniale sulla formazione della conoscenza, la salienza dell' accumulazione primitiva, anche quando la postcolonia si sviluppa, e l'emergere del ‘precariato’ e del lavoro immateriale”538.

E' proprio con riguardo a quest'ultimo punto che Samaddar si esprime in maniera più incisiva: alle teorie dell'immanenza che in Europa vogliono fondare un pensiero materialista che faccia a meno della dialettica, egli oppone la necessità, alla luce della condizione postcoloniale, di far emergere in tutto il loro carattere contraddittorio “the twin realities of immaterial labour (the vast unorganised workers and masses) and the multitude (realised as collective political subject) through the lens of dialectics, in other words, not as immanent realities, but as the phenomena of contradictions. Immaterial labour is not immaterial to capitalism, but immaterial to certain forms of accumulation, while being material to the accumulation process as a whole. This is one contradiction”539.

Pur parlando di teorie dell'immanenza come contrapposte ad un pensiero che tiene in massimo conto la dialettica tra le forze, che sono asimmetriche nella situazione postcoloniale, le considerazioni di Samaddar sembrano in gran parte accordarsi e funzionare in maniera complementare con la visione di Sanyal di una genealogia, una storia immanente del capitale; per Sanyal, infatti, il problema è porre il momento di espropriazione, e soprattutto di esclusione, tipico dell'accumulazione originaria, come immanente al capitale, liberandosi dall'ipoteca della transizione. Qui allora l'immanenza sembra stare alla dialettica come la transizione sta alla possibilità della liberazione entro un “fuori” dai rapporti di forza postcoloniali: contro

536 Ivi, p.234 537 Cfr: ivi, p.221n

538 R.Samaddar, What is postcolonial predicament, op. cit., p.46 539 Ivi, p.49

questo “fuori” immaginario, per entrambi gli studiosi indiani, l'attenzione va incentrata sulla lotta dentro e contro il capitale, da una parte (Sanyal) perché il non-capitale viene ad essere parte del complesso del capitale postcoloniale, dall'altra (Samaddar) perché si ha a che fare con una dialettica di parti contrapposte in un senso che va pensato come dialettico, cioè antagonista.

Se per Sanyal, del resto, entro il complesso del capitale postcoloniale capitale e non-capitale stanno insieme senza che vi sia un rapporto di alterità, il suo obbiettivo è proprio quello di far emergere, in tutta la sua carica politica, il non- capitale come altro, e in questo senso dialettico, ma entro una traiettoria d'immanenza perché, del resto, “la ricerca di un'alternativa al capitalismo sembra finita”540 e inoltre “l'odierno mondo postcoloniale è pieno di esempi in cui i reietti

dello sviluppo, i dimenticati, chiedono insistentemente di essere inclusi nel mondo dello sviluppo, all'educazione dunque, al sistema sanitario, alla previdenza sociale, agli alimenti e soprattutto ai mezzi di sostentamento”541.

Ci sono dunque due dati, il rifiuto delle teorie della transizione e la centralità dei rapporti sociali alla base del capitale, che espongono una critica in vista di una progettualità alternativa sul tema della “politica popolare”, che non stupisce che provenga dall'area indiana, se si pensa che a Calcutta c'è forse la maggior concentrazione delle contraddizioni che segnano la postcolonia, eppure questa condizione è associata ad una realtà in cui il linguaggio dei diritti ha imparato a parlare partendo dal principio dell'autodeterminazione, non da quello che fa discendere le aspettative in via primaria ed esclusiva dalla legge.

Come spiega Samaddar, “il primo «diritto umano», in un paese come l'India, è quello all'autodeterminazione, a cui la nazione deve la sua origine. E questo fa sì che il linguaggio dei diritti abbia sempre in qualche modo una doppia natura: da una parte si riferisce all'ordinamento giuridico, dall'altra alla giustizia sociale, a una rivendicazione di uguaglianza che non può mai essere esaurita dall'ordinamento stesso”542.

E, come si vedrà, il discorso di Samaddar sulle autonomie può avere una base sostanziale ancora più forte una volta agganciato al progetto di Sanyal di costruire un profilo teorico specifico per dare consistenza alla categoria di “economia basata sul bisogno”; questa sfera consiste infatti in tutta quella parte dell'economico a cui il capitale non permette di entrare nel circuito dell'accumulazione e che nasce come

540 K.Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico, op. cit., p.23 541 Ivi, p.103

542 S.Mezzadra, Il bordo al centro del mondo, intervista a R.Samaddar, “Il Manifesto”, 12 Agosto 2005, consultabile su http://www.mcrg.ac.in/rana9.htm (visitato il 12/11/2013)

orientata ad una diversa finalità: occupazione, reddito, consumo543: è, insomma, il

“non-capitale”.

Da un lato, quindi, un discorso sulla governamentalità che non si esaurisce nel vedere come si svolge la gestione dei cittadini di seconda categoria con cui si negoziano le aspettative, ma nel porre come “altro”, irriducibile al governo delle soggettività, l'autonomia come pratica agita e immediatamente carica di politicità; dall'altro lato, e in via complementare, vi è l'obbiettivo di legare la governamentalità col capitale, politicizzare il regno della razionalità neutrale del discorso sulla gestione biopolitica che, in quanto tale, dissimula la produzione di soggetti assoggettati ad un'etica dell'homo oeconomicus come indefinita produzione di sé, di una soggettività autonoma in un continuo work in progress finalizzato a rendere sempre meno oneroso il proprio fardello rispetto al resto della società544.

Allora il punto è partire dal riconoscimento della condizione postcoloniale - in cui sussiste un “capitale postcoloniale” formato da un capitale non autosussistente ma legato a doppio filo al non-capitale - come substrato comune a situazioni di sfruttamento, di colonialità e di razzializzazione, che hanno in comune la produzione di soggettività e che, pur presentandosi entro forme e realtà distanti nello spazio e nella gradazione delle proporzioni della criticità, non possono essere distinte secondo una gerarchia o essenzializzate come realtà singole, ma al contrario riescono proprio nella loro composizione frammentata a mettere in moto un meccanismo di compattamento ed organizzazione ad ampio raggio, giocando la frammentarietà come valore, ovvero come possibilità di rendere una punteggiatura di eventi sia a livello territoriale che globale simultaneamente.

Solo una visione universalizzata della condizione postcoloniale può universalizzare a sua volta la portata delle lotte dentro e contro il capitale e dotare di un substrato comune le insorgenze e le autonomie che si manifestano nei modi più diversi e in quelle che sia economicamente sia culturalmente appaiono come realtà distanti pur dentro una sfera unica.

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