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La critica postcoloniale dell'Analitica kantiana

A spingersi ben oltre la critica foucaultiana all' “Antropologia” di Kant è Spivak, che connota la sua opera di decostruzione del testo kantiano di quel tipo di valenza

92 M.Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p.398

93 M.Foucault, Sulla genealogia dell'etica: compendio di un work in progress, in H.L.Dreyfus - P.Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 280

94 M.Foucault, Introduzione all' «Antropologia» di Kant, op. cit., p.74 95 Ibidem.

Si veda in proposito M.Fimiani, Foucault e Kant. Critica clinica etica, La città del sole, Napoli 1997, p.135 96 M.Foucault, L'Herméneutique du sujet (1981-1982), Gallimard-Seuil, Paris 2001; trad. it. L'ermeneutica del soggetto, a cura di F.Gros, trad. di M.Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, pp.22-23 in nota ad asterisco.

immediatamente politica a cui Foucault solo a partire dagli anni Settanta riconoscerà di aver voluto da sempre improntare le sue ricerche.

Per capire il senso della decostruzione, occorre partire da un presupposto: la scrittrice bengalese pare rendersi conto che per mettere in discussione le basi dell'auto-rappresentazione etico-politica europea non basta “lavorare contro” - come farebbero, a suo parere, i postcolonial studies – ma occorre costruire una sporgenza, decostruire le operazioni linguistiche riconosciute quali produttive di certi effetti, per mettere insieme i pezzi di ciò che per queste era impossibile pensare.

Infatti, laddove Spivak si riferisce non solo all'opera di Kant, ma anche a Hegel e Marx, afferma che “voltare pretenziosamente le spalle a questo trio […] quando una parte talmente grande della propria critica viene palesemente, sebbene talvolta involontariamente, copiata da loro, significa compiere un diniego dell'agentività97,

dichiarare la fine del mondo attraverso una negazione della storia”98.

Per l'appunto, anche con specifico riferimento alla possibilità di rompere la dialettica, “sfuggire realmente a Hegel presuppone che si valuti esattamente quanto costi staccarsi da lui; presuppone che si sappia sino dove Hegel sia accostato a noi”99 e in che misura “il nostro ricorso ai suoi danni possa forse essere ancora

un'astuzia che egli ci oppone e al fondo della quale ci attende, immobile e altrove”100.

La storica bengalese articola la decostruzione direttamente come strategia politica, ritenendo che l'ancoraggio della decostruzione alla politica “potrebbe essere di un certo interesse per molti sistemi culturali marginalizzati”101.

Per vedere come in questo senso sviluppa la messa all'opera del suo progetto, si può partire dallo stesso Kant da cui già Foucault aveva preso le distanze, nel senso sopra richiamato.

Spivak approfondisce decisamente la questione, laddove sostiene che la divisione non è solo o non tanto tra soggetto e oggetto della conoscenza, ma percorre, frattura il soggetto stesso, perché la posizione dell'antropologia rispetto alla critica

97 Sul concetto di agency, si anticipa la definizione che sarà ripresa in seguito: il concetto di agentività accorda al soggetto una “capacità di azione e di intervento” finalizzata a produrre una rappresentazione propria di sé che diventi parte attiva di una comunità, “una capacità di agire […] che implica un'egemonia non convenzionale intesa come forza, come progetto di vita modellato entro un sistema che si collochi oltre il simbolico prestabilito”.

L.Curti, Percorsi di subalternità: Gramsci, Said, Spivak, in AA.VV., Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, a cura di I.Chambers, Meltemi, Roma 2006, pp.17-26, qui in particolare p.24; G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.14

98 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.34

99 M.Foucault, L'ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L'ordine del discorso - i meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, trad. di A.Fontana, Einaudi, Torino 1972, p.53

100 Ivi, pp.74-75

in Kant contribuirebbe a comporre, con le parole di Bhabha, “lo scenario in cui viene riattivata e ripetuta una fantasia primaria – il desiderio del soggetto di un'origine pura che è sempre minacciata dalla sua divisione”102, appunto l'origine delle

condizioni della conoscenza dell'uomo a partire dall'uomo stesso, dalla sua stessa essenza positiva.

Attraverso la decostruzione del testo kantiano, Spivak mette in luce su quali contraddizioni e paradossi si regge il soggetto noumenico che può essere narrato nell' “Analitica del sublime”.

Anche qui è in gioco la forclusione di un oggetto, o meglio di un soggetto altro, rigettato, impossibile da pensare, ma necessario per far funzionare il discorso, al pari di quell'impensato che è indispensabile all'uomo nato dall'episteme moderna e che anzi appare proprio insieme a questo, come “una parte di notte, uno spessore apparentemente inerte in cui – il logos – è coinvolto, un impensato che esso da un capo all'altro contiene, ma nel quale si trova nondimeno imprigionato”103.

Spivak fa una premessa alla sua opera di decostruzione della Critica del giudizio di Kant: «Chiamerò la mia lettura di Kant “errata”»104 perché attua l'inserimento

dell'empirico e dell'antropologico in un testo filosofico, “uno scrupoloso travestimento, volto alla produzione di una contro-narrazione che renda visibile la forclusione del soggetto, il cui non-accesso alla posizione di narratore è la condizione di possibilità del consolidamento della posizione di Kant”105.

Infatti seppure nel secolo che separa la produzione di Kant da quella di Marx cambia la relazione tra produzione discorsiva europea e imperialismo, c'è qualcosa che rimane fisso, come origine dimenticata e fondante: “un momento irriconoscibile (unacknowledgeable), che chiamerò informante nativo, è crucialmente necessario per i grandi testi; ed è forcluso”106.

Kant avrebbe riprodotto l'immagine del noumeno nello spazio dell'Altro, dando «per scontato che l' “europeo” sia la norma dell'umano»107 e operando così, attraverso il

suo progetto filosofico, “sia esso sublime o borghese, […] nei termini di un'implicita differenza culturale”108, escludendo, rigettando l' “uomo rozzo”, comprendente

l'aborigeno, l'indigeno della Nuova Olanda o della Terra del Fuoco, come “non-

102 H.Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, p.109 103 M.Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p.7

104 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.35 105Ibidem.

In proposito, E.Fornari, Epistemologia della paura. L'alterità sublime negli studi postcoloniali, in “InOltre”, vol.10. Paura, Jaca book 2007, pp.118-119, ora anche in E.Fornari, Linee di confine. Filosofia e postcolonialismo, prefazione di É.Balibar, Bollati Boringhieri, Torino 2011, nota a p.53

106 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.29 107 Ivi, p.31

nativo-europeo”, fuori dallo statuto del soggetto.

Infatti, nell' “Analitica del sublime” , Spivak legge che la disposizione dell'animo al sentimento del sublime, «questa ricettività, una possibilità “naturale” in quanto parte della programmazione dell'umanità destinata, è attualizzata solo dalla cultura [Kultur piuttosto che Bildung (istruzione o formazione)]109» laddove però Kant

aggiunge che “se il giudizio sul sublime della natura […] esige una certa coltura, esso non è prodotto originariamente dalla coltura stessa […] ma ha il suo fondamento nella natura umana”110.

Ne consegue, paradossalmente – ma secondo un paradosso che è coerente, strategicamente, col progetto del soggetto-narratore-dominante - che “non è possibile diventare colti in questa cultura, se si è naturalmente alieni da essa”111.

Se mancasse la frattura linguistica che Kant interpone tra l'uomo che può raggiungere il sublime e l'uomo rozzo saremmo in presenza di un apparentamento simile a quello del testo di Borges citato da Foucault nell'introduzione a “Le parole e le cose”, dove l'impossibilità di pensare su uno stesso piano ontologico animali fantastici e animali in carne ed ossa mostra i margini del pensiero di un certo ordine delle positività.

L'uomo rozzo, se posto lungo la traiettoria lineare che lo congiungerebbe idealmente all'uomo che può vedere il sublime, provocherebbe a Kant e all'ideale illuministico del progresso – un progresso a cui non tutti gli uomini possono accedere in quanto “umani”, se dall'Uomo si è espulso quell'informante nativo che segna il marchio che elide l'impossibilità della relazione etica112 - “un certo

malessere difficile da superare. Forse perché sulla sua scia [spunterebbe] il sospetto di un disordine peggiore che non l'incongruo e l'accostamento di ciò che non concorda; sarebbe il disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero di ordini possibili nella dimensione, senza legge e geometria, dell'eteroclito”113,

ordini possibili che aprono vie centrifughe rispetto alla ratio occidentale.

Il paradosso si manifesta in maniera evidente, secondo Spivak, sul piano dell'ipotesi del fallimento cognitivo, per cui non solo per Kant “ciò che per noi, preparati dalla coltura, chiamiamo sublime, senza lo sviluppo di idee morali, è per l'uomo rozzo [dem rohen Menschen] semplicemente terribile”114, ma, inoltre, mentre il fallimento

cognitivo può per l'uomo colto avere un ruolo funzionale ai fini dello sviluppo della

109 Ivi, p.37 110 Ivi, pp.37-38 111 Ivi, p.38 112 Ivi, p.31

113 M.Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p.7

cultura, per l'uomo rozzo la correzione dell'errore si profila attraverso quella stessa

Kultur115 da cui è naturalmente escluso, pur se funzionalmente vi è proiettato

proprio in quanto - col gioco di Spivak sul significato letterale dell'aggettivo roh -

“ancora crudo”, non ancora “cucinato”, preparato dalla cultura.

Ma è proprio questa tensione a rendere palese come “la missione culturale dell'imperialismo non possa mai compiersi del tutto, ma ciononostante debba essere intrapresa”116 - e tale progetto è perseguito mediante l'impostazione di una

“acculturazione” che si fa attraverso una violenza epistemica.

In tutta l'impalcatura dell'opera kantiana si ritroverebbero quindi i radicamenti su cui si fonda una deformazione culturale dello sguardo che avremmo ampiamente ereditato e diffuso.

Questo perché lo sguardo eurocentrico non si configura tanto entro una teoria, ma consiste, come osserva Samir Amin, in una deformazione sistematica e fondamentale, un paradigma diffusivo117, che genera da un lato il convincimento del

dominatore occidentale di far parte di un'umanità geopoliticamente differenziata, dall'altro, e soprattutto, fonda la rappresentazione di sé come modello di riferimento e situato costantemente un passo più avanti, poiché l'accesso alla volontà razionale “è strutturato come supplementazione programmata di una mancanza strutturalmente necessaria”118.

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