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Il governo di sé a fondamento della libertà

E' vero che lo stile militante tipico della partecipazione del singolo agli affari della città si esprimeva in modo particolare in campo militare, al punto che aderire allo schieramento oplitico era, prima della crisi delle poleis, privilegio dei soli cittadini; tuttavia, l'identità civica come militanza era fondata prima di tutto su una modalità peculiare di concepire il proprio rapporto con se stessi e quindi la relazione tra il governo di sé e il governo degli altri.

Questa relazione si dispiega entro due poli che non sono che due facce della stessa medaglia: da un lato, nella concezione che il cittadino ha rispetto alla sua configurazione come governato, dall'altro, e correlativamente, nel modo in cui

608 Ivi, pp.78-79 609 Ivi, p.79

esercita il governo di sé.

E' la partecipazione attiva alla gestione, come se si trattasse di un partito militante, a fondare la comunità e a fondersi con essa, al punto che un cittadino che non partecipi agli affari politici non è considerato inoperoso, ma inutile611, per cui è come

se venisse meno la stessa distinzione tra buon cittadino e cattivo cittadino, in quanto essere cattivi cittadini equivale a non essere affatto cittadini, proprio in un senso che appare affine all'idea foucaultiana secondo cui non si hanno diritti perché questi sono stabiliti formalmente, calati dal cielo delle leggi, ma nella misura in cui questi vengono esercitati, praticati, come in una sorta di allenamento che è spinto e “dà forma all'impazienza della libertà”612.

Questa immediata inerenza che regge il nesso tra un modello dell'umano – che è però aperto e trova negli spazi intermedi tra vizio e virtù infinite articolazioni e modi di essere - e la partecipazione alla vita politica, e non ad un modello sociale normalizzante, fa dire a Meier che “i cittadini attici furono sicuramente homines

politici, e lo furono in straordinaria misura. E da questa condizione furono

determinate anche le loro esperienze. Ma proprio per questo furono anche e contemporaneamente un modello dell'umano più in generale. […] Non conoscevano […] la suddivisione, la parcellizzazione della società in settori, in quelle specializzazioni che procurano tanti spazi particolari per affermarsi e raccogliere prestigio. Di conseguenza le loro esperienze non furono quelle della solitudine, degli stati d'animo umorali, della sensazione di lacerazione e di smarrimento, del farsi valere in tanti ambiti parziali”613 e dei saperi che riportano sempre alla valutazione

di qualche “normalità”.

Su questa via l'antichità classica, nel considerare il rapporto tra il cittadino e la città, lontano dall'esprimere un vero e proprio giudizio morale - che comunque non manca, come si vedrà, ma secondo una problematizzazione a noi estranea – suggerisce un'idea del rapporto tra governo di sé e governo della città strumentale e tendente ad uno scopo, la buona gestione della città, che però ha diretta e immediata ricaduta su chi la città la vive, perché il fine di questa è creare “i migliori cittadini”614.

611 E' ciò che Tucidide fa pronunciare a Pericle nel libro secondo delle “Storie”: “Noi siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici più che ozioso inutile”.

612 Cfr: M.Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, op. cit., pp.228-232 613 C.Meier, Cultura, libertà e democrazia, op. cit., p.381

614 E' vero, però, che la possibilità di far parte dei “migliori cittadini” non solo è riservata ai cittadini, ma individua l'ambito privilegiato, per non dire esclusivo, nella figura di un maschio, greco, adulto, libero. Tuttavia la questione non può essere posta sulla stessa linea dell'inclusione escludente operata dall'attuale discorso della cittadinanza rapportandolo alla base della razza, del genere e della divisione del lavoro che opera.

Ma il migliore cittadino non corrisponde affatto all'idea di cittadino ideale come imprenditore di se stesso postulata dall'attuale discorso sulla cittadinanza: mentre un tale dispositivo, infatti, mira a strutturare la percezione di sé sempre come se si trattasse di una posizione debitoria nei confronti di una società rispetto alla quale occorre eliminare il proprio peso, l'idea greca è connessa ad un motivo eudaimonistico, che differisce pure nettamente dalla promessa del benessere del Welfare State, in quanto si tratta di un progetto che può attuarsi “solo ricercando la vera felicità, non nel ricercare una felicità qualunque, o in qualsiasi modo essa venga intesa”615.

Ne deriva uno schema del governo che non si pone nella relazione della cura della città verso il soggetto, ma in un nesso reciproco e interdipendente: la città funziona se in grado di costituire i migliori cittadini e i cittadini valgono se fanno funzionare la città.

E' oltretutto un'interdipendenza che sembra andare al di là della specifica forma di governo: è vero che Platone ed Aristotele disapprovavano la democrazia, poiché in essa, spettando il diritto di parola a tutti e quindi in egual misura agli stolti e ai virtuosi, si finiva per perdere di vista il logos, quale discorso vero lontano dalla retorica; tuttavia questa considerazione di valore è del tutto scissa dall'ideale finalistico connesso al governo in senso ampio, indipendente quindi dalle forme di governo, assunte come un qualcosa di contingente.

Di fatto, come osserva Finley, tutti i pensatori politici antichi, compresi Platone e Aristotele, “esaminarono le diverse forme di governo dal punto di vista normativo, cioè in base alla capacità con cui ciascuna di esse poteva aiutare l'uomo a conseguire un obiettivo morale nella società, cioè la giustizia e la vita buona”616,

senza che però questi fossero intesi quali ideali universali avulsi dal soggetto che li pratica, o quali oggetto di una serie di prescrizioni basate su un codice morale. In questo senso, la spaccatura tra etica moderna e etica antica si coglie nella distanza tra un fondamento deontologico e un'ispirazione eudaimonistica intesa come progetto: “alla domanda :«perché il bene è da preferire? Perché dovrei agire moralmente?», l'etica degli antichi risponde «perché così, e solo così, sarai felice (eudaimon)», mentre quella dei moderni risponde con Kant:«perché è tuo dovere»”617.

Ma la causa finale (quel “perché così sarai felice”), il progetto di creare i migliori cittadini, non apre dietro di sé una strada già tracciata di passaggio attraverso un

615 L.Strauss, La città e l'uomo, op. cit., p.100

616 M.Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, postfazione di C.Ampolo, Laterza, Roma-Bari 1997, p.5

iter di purificazione o di incivilimento, bensì il compito di stilizzare il proprio divenire se stessi, all'interno di un sistema in cui la morale e l'etica devono surrogare l'assenza di regole fortemente istituzionalizzate e coercitive.

Un atteggiarsi specificamente greco connota comunque il modo in cui la morale e l'etica funzionano per definire una funzione responsabilizzante per il soggetto: se ne trovano le tracce se si considera il mondo ellenistico come un'occasione per mettere in discussione la nostra esperienza nel costituirci come soggetti morali, all'interno di un sistema in cui, ora come forse allora, il soggetto è libero da condizionamenti morali, libero di scegliere il modo proprio di essere, ma soprattutto responsabile della propria libertà; però, come osserva Vegetti, proprio perché la morale e l'etica si presentano quali sistemi aperti, leggeri, l'interrogazione e la problematizzazione è più ricca, e tuttavia se “più che in ogni altra epoca, l'uomo antico ha avuto bisogno di una morale e di un'etica per guidare la sua vita individuale e sociale […] restando così esposto all'incertezza della scelta […] quasi mai ha pensato, comunque, che questa libertà di scelta fosse un male”618.

Da questo punto di vista, invece, la morale che l'Occidente ha fatto propria attraverso un pastorato cristiano che ha esteso le proprie forme anche a livello governamentale, produce, dalla responsabilità di essere liberi nel costituire se stessi, un senso di colpa e di vergogna che deve derivare al soggetto allorquando fallisca o trovi difficile diventare “imprenditore di se stesso”; da parte sua, la morale antica, pur avendo in comune con quella moderna la scarsa stringenza delle regole, in quanto la scelta libera deve legarsi ad una responsabilità individuale forte, non definisce in maniera precisa ciò che il soggetto deve diventare di fronte al potere, ma piuttosto indica prima ciò che può fare per se stesso.

Questo significa, parafrasando ciò che lo stoicismo postula per il campo etico, che se non si può pensare di costituire uno spazio di libertà puro e sganciato dalla soggezione al potere, poiché è questa stessa che determina anche la possibilità di essere interpellati in quanto soggetti, il problema è allora quello di costituire se stessi come soggetti liberi: “convivere con le passioni, accettare la dipendenza dagli eventi esterni imposti dalla sorte e pensare tuttavia di poter mantenere lo spazio per una scelta libera e responsabile costituisce per gli stoici una perniciosa illusione. […] Non si tratta di scegliere liberamente, ma di essere liberi da ogni dipendenza”619.

618 Ivi, pp.5-6 619 Ivi, p.224

6.5 La problematizzazione etica nella relazione tra governo di sé e

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