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Derrida e Foucault sono accomunati dall'appartenere a quella cultura francese che negli anni Sessanta, attraverso la Neitzsche Rennaisance ispirata alla ripresa di Heidegger, ha aspirato ad una radicale trasformazione del ruolo del pensiero rispetto al compito di oltrepassare la metafisica126.

Tra i due pensatori, questa tensione viene risolta in maniera differente.

Nel tentativo di smontare uno ad uno tutti i costrutti metafisici su cui si è fondato il razionalismo moderno, Foucault parte dal Soggetto, dall'Io in quanto coscienza, e si pone sulla strada tracciata da Nietzsche, che all'interrogazione kantiana “was its

der Mensch” aveva risposto con la morte di Dio, e dell'Uomo come nuovo infinito, e

opponendovi “der Übermensch”, come punto di arrivo e di non ritorno in grado di disarmare quella domanda kantiana fondativa di una metafisica nuova.

L'attenzione è poi rivolta a Cartesio, perché a livello filosofico è ai postulati del cogito cartesiano che sarebbe da addebitare la separazione tra ragione e s-ragione. Entro il paradigma fondamentale della filosofia moderna, il modello del razionalismo cartesiano, l'Io come coscienza è l'elemento fondamentale di ogni conoscenza perché l' “io penso” cartesiano fa del dubbio la matrice della razionalità del soggetto pensante.

Ma se il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, cioè non sono come appaiono, tuttavia non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa.

In questo senso Foucault richiama, accanto a Nietzsche, anche Marx e Freud, quali pensatori che hanno lavorato alla rottura di un quadro categoriale della trascendenza, in vista di una trasformazione dell'esistente.

E' infatti con Nietzsche, Marx e Freud che al dubbio sulla cosa si aggiunge il dubbio sulla coscienza: quelli che Paul Ricoeur ha visto come i “maestri del sospetto”127,

avrebbero riportato il “dubbio cartesiano” già nel cuore stesso della “fortezza cartesiana” mostrando come dietro ogni sovrastruttura (coscienza – capitale – morale cristiana) si nasconda quella che è la struttura del reale (inconscio – sfruttamento del proletariato – volontà di potenza).

Non esistono dei segni autentici, i cui referenti possano trasparire in maniera limpida: i segni non sono altro che maschere128, interpretazioni che rimandano 126 Cfr: G.Vattimo, Derrida e l'oltrepassamento della metafisica, in J.Derrida, La scrittura e la differenza, trad. di G.Pozzi, Einaudi, Torino 2002, p. XI

127 Cfr: P.Ricoeur, Dell'interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967

128 Foucault esplicita questa posizione nel saggio breve Nietzsche, Freud, Marx, dove si legge: “l'idea che l'interpretazione preceda il segno implica che il segno non sia un essere semplice e

senza fine ad un'altra interpretazione che fa capo all'interprete stesso, in un circolo per cui l'ermeneutica finisce con l'essere nient'altro che l'interpretazione dell'interprete.

L'uomo stesso, quale costrutto universale, diviene nient'altro che il residuo formato dallo scarto dell'interpretazione, quando con le moderne scienze umane comincia a interpretare se stesso.

Derrida, invece, attribuisce al progetto del superamento della metafisica le caratteristiche di un progetto che non può che rimanere tale, incompiuto, in quanto egli è consapevole dell'impossibilità di compiere un vero e proprio salto aldilà della metafisica.

La decostruzione si presenta come una tensione necessaria per il pensiero filosofico, una vocazione specifica che si fonda sulla “identificazione della metafisica con il fono-logo-centrismo della cultura occidentale”129.

La sua messa all'opera tira sempre in causa il concetto di “responsabilità” della filosofia, poiché questa, nel lavoro di decostruzione, “viene sempre chiamata a rispondere di se stessa. Nel senso di giustificarsi […] ma anche nel senso di rendere conto delle violazioni che esercita (anche nei confronti di se stessa), delle proprie impertinenze, della infrazione dei propri limiti o paradigmi, delle invasioni o effrazioni cui sottopone ciò che prende di mira, ciò che di volta in volta diventa (o può diventare) “oggetto” di discorso filosofico; di ciò che, strappato alla propria particolarità e identità con se stesso, viene forzatamente condotto attraverso il passaggio per l'universale, onde ne venga messa alla prova la tenuta concettuale”130.

Tuttavia, mentre Foucault sta cercando, scrivendo la storia di un silenzio, di una frattura originaria, la possibilità di quell'esperienza che sfugge alla dialettica del soggetto e della storia, per Derrida non può esserci una via di fuga dall'ordine che ci costituisce come soggetti ad una ratio e ci tiene dentro un linguaggio.

Sebbene in “Storia della follia” il progetto, quello latente, che consiste nel tentativo di recuperare “un logos anteriore alla lacerazione ragione-follia”131, sia ciò che

attrae maggiormente Derrida, questo a suo parere rimane un progetto mancato:

benevolente […] dopo Freud, Marx e Nietzsche […] i segni sono interpretazioni che tentano di giustificarsi, e non il contrario. Così funziona il denaro come è definito nella Critica dell'economia politica, e soprattutto nel primo libro del Capitale. Così funzionano i sintomi in Freud. E, in Nietzsche, le parole, la giustizia, le classificazioni binarie del Bene e del Male, di conseguenza i segni, sono maschere”.

M.Foucault, Nietzsche, Marx, Freud. 1967, in Archivio Foucault vol.1, op. cit., pp.137-146, qui pp.144-155

129 Cfr: G.Vattimo, Derrida e l'oltrepassamento della metafisica, op. cit., p. XI

130 F.Polidori, Responsabilità, in “Aut Aut”, Jacques Derrida. Decostruzioni, Il Saggiatore, Milano luglio- settembre 2005

Foucault vuol conferire all'archeologia del silenzio della follia lo statuto di una “storia”, quando invece occorre recuperare l'eccedenza di un “fondamento non storico della storia”132 che è lo spazio del pensiero filosofico stesso e del suo

progetto, l'unica cosa da fare salva rispetto alla descrizione della costituzione storica degli oggetti finiti133.

Inoltre il tentativo di interpellare la follia dal punto di vista della possibilità di costituire un discorso sui limiti della razionalità moderna, sarebbe stato portato avanti pur nella consapevolezza di parlare dall'interno di quei limiti stessi.

Dal lato di Foucault, invece, esiste un margine tra il logos e la non-parola folle; ed è proprio su questo limite che lui stesso si è collocato nello scrivere la “Storia della follia” .

La controversia si basa in realtà su una diversa interpretazione di alcuni passi tratti dalle “Meditazioni” cartesiane con cui si apre il capitolo sul “Grande Internamento”134.

Già con questa “introduzione filosofica” Foucault ha inteso riconnettere direttamente l'avvento di una fase storica caratterizzata dall'avanzata di un disciplinamento sociale, di cui parla subito dopo le tre pagine dedicate a Cartesio, con una certa razionalità diffusa in campo filosofico, per cui l'opera cartesiana è resa possibile ed è decifrabile solo all'interno di ordini discorsivi già presenti e tali da legittimare gli enunciati in essa presenti135.

Ed essa s'inserisce in un contesto in cui preesiste un criterio di riconoscibilità che considera la ragione come misura, sensatezza, capacità di discernere, per cui l'uomo razionale è l'uomo titolare di queste caratteristiche e dunque si rispecchia, a

contrario, in colui che non è folle.

Il problema è se Cartesio abbia o meno espulso la follia dal pensiero quando l'ha distinta dalle altre forme di errore: l'errore naturale e il sogno.

Per Foucault, Cartesio non evita lo scoglio della follia nello stesso modo in cui aggira l'eventualità del sogno o dell'errore naturale: la follia è esclusa dal movimento del

logos, poiché essa non consente neanche di dubitare; e così ci si esime dal mettere

in questione la ragione stessa, presentando il dubbio solo laddove già è cominciata la ragione.

Ne discende che se l'assennatezza, in quanto ragione, abilita a pensare, il folle, che non ne è titolare, è colui che non può esercitare il pensiero: non può perché non ne

132 Ivi, p.42 133 Ivi, p.73

134 M.Foucault, Folie et Déraison. Histoire de la folie à L’àge classique, Plon, Paris 1961; trad. it. Storia della follia nell'età classica, trad. di F.Ferrucci, Rizzoli, Milano 2008, pp.51-82

è titolare.

Invece Derrida ritiene che in Cartesio non vi sia stata alcuna espulsione della follia dal pensiero e anzi, quando essa viene chiamata in causa, è usata solo in funzione retorica rispetto ad un immaginario interlocutore non filosofo; e a maggior ragione nel rapporto con le altre forme dell'errore la follia non sarebbe esclusa, in quanto il sogno ne sarebbe l'esasperazione iperbolica136, l'elemento che la include.

La follia fa parte del gesto filosofico e del pensiero stesso, non la si può collocare in luoghi altri137, non è un elemento dotato di una propria positività.

E anche quando Cartesio fa entrare in scena il “genio maligno”, nel convocare la possibilità di una follia totale, la follia è collocata “nell'interiorità più essenziale del pensiero”138.

Nel riprendere la questione molti anni dopo, Derrida fa un altro nome, quello di Freud, perché a suo parere un problema di margini, limiti e “oggetti positivi” è da farsi anche su questo personaggio che Foucault considera in maniera ambivalente. Freud non può infatti essere soltanto l'oggetto del discorso di Foucault, ma costituisce il bordo del suo linguaggio139, perché probabilmente il suo discorso sulla

follia è stato reso possibile anche dall'esistenza della psicanalisi freudiana.

Ad emergere è, insomma, in questi attacchi di Derrida, il problema del limite del pensiero stesso, che si pone, come osserva Young, come questione del rapporto tra storia e scrittura140, possibilità di una narrativizzazione che a sua volta non è avulsa

dalla storicità, perché quello che si vuol far parlare attraverso il testo è una (presunta) forma pura di coscienza.

Analogamente, quando l'obbiettivo è “quello di costruire una teoria della coscienza o della cultura”141, subalterna, nel tentativo dei Subaltern Studies di ripensare la

storiografia dell'India coloniale, il discorso che si concentra sull'analisi testuale rischia di assumere l'aspetto di una caricatura di quella stessa presunzione

136 Sulla forma di errore chiamata in causa dal sogno, la replica di Foucault richiama il vocabolario utilizzato da Cartesio nel distinguere le forme dell'errore: se per la follia viene operata una comparazione (tra me che non solo folle e che quindi se seguissi l'esempio dei pazzi non sarei meno privo di mente di loro) che esclude, per il sogno è usato il vocabolario della memoria che rimanda chiaramente ad un contenuto che permanendo nella sfera dell'io, ne riafferma l'indubitabilità.

La follia sarebbe allora collocata in una posizione differente rispetto al sogno, differente a livello strutturale, poiché “il contenuto del sogno […] può divenire oggetto di una mente attenta. Il folle non può mai essere attento: né a sé, né all'oggetto”.

Cfr: ivi, pp.42-52

137 Cfr. P.A.Rovatti, La follia, in poche parole, Bompiani, Milano 2000, p.14-15 138 J.Derrida, Cogito e storia della follia, op. cit., p.66

139 M.Foucault, Malattia mentale e psicologia, op. cit., p.XV e XVI

Qui Derrida si riferisce al passo in cui Foucault scrive, nell'opera sopra annotata, a p.86, che “mai la psicologia potrà dire la verità sulla follia, perché è la follia a detenere la verità della psicologia”.

140 R.Young, Mitologie bianche. La scrittura della storia e l'Occidente, op. cit., in particolare il capitolo “I fantasmi di Foucault”, pp.158-188; qui il riferimento è alle pp.162-164

interpretativa della storia “totale” rispetto alla quale si vorrebbe costruire una contro-narrazione.

Nella storiografia di Guha, secondo Spivak, ciò che si va ad interpretare è una “ininterrotta catena di segni”, in vista della sua rottura e ricomposizione per dare luogo al cambiamento funzionale del sistema dei segni nel passaggio dal religioso al militante142.

Questa è la strategia attraverso cui si vuol compiere lo studio del “fallimento storico della nazione di creare se stessa”143, dovuto al mancato riconoscimento

dell'autonomia e del carattere politico delle rivolte dei contadini subalterni contro il dominio coloniale, che lascia la sua eredità di fallimento nel perdurare, con la conclusione formale del dominio, del governo della conoscenza entro le strutture del paese “indipendente”.

E' lo stesso concetto di “fallimento” a dover essere rivisto: Guha indicava che per riconoscere il valore politico delle insurrezioni contadine occorre abbandonare, o quantomeno decentrare, le categorie interpretative che assumevano la società occidentale come modello di riferimento, ma poi richiamava lui stesso indirettamente quelle categorie parlando di fallimento.

Ammettendo, infatti, che la coscienza subalterna potesse essere letta “in quanto fallimento”, si ritirava in campo la struttura teorica dello Stato-nazione come progetto inerente alla storia, prefigurando la possibilità reale che la coincidenza degli interessi della popolazione indigena con quelli delle élites avrebbe potuto realizzarsi o fallire.

Spivak ammette l'esistenza di un nesso diretto che lega l'occultamento del “fallimento”, di questo successo-nel-fallimento, con il perpetuarsi del dominio coloniale144, ma fa passare i tentativi di Guha e del suo collettivo al vaglio della

messa all'opera della decostruzione, per la necessità di “mettere in discussione l'autorità del soggetto della ricerca senza paralizzarlo”145.

Ne deriverebbe infatti la concettualizzazione di un limite paralizzante, qualora un punto focale venisse disconosciuto dal soggetto della ricerca, laddove Spivak, riferendosi ai tentativi di Guha, sottolinea che “un approccio decostruzionista dovrebbe concentrarsi sul fatto che anch'essi sono impegnati nello sforzo di dislocare i campi discorsivi e che anch'essi ‘falliscono’ (in senso generale) per ragioni che sono altrettanto storiche di quelle su cui essi concentrano la propria attenzione a proposito degli eterogenei soggetti storici che studiano [rischiando di]

142 Cfr: Ivi, pp.104-105 143 Ivi, p.39

144 Ivi, p.107 145 Ivi, p.110

‘oggettivare in maniera insidiosa’ il subalterno”146.

Dunque Foucault e i Subaltern Studies vengono tacciati del fatto di concordare “sull'assunto che ci sia una forma pura di coscienza”147 e di domandarsi, in vista di

un'elaborazione che va in effetti alla ricerca di una forma di rap-presentazione, “come possiamo toccare la coscienza del popolo mentre ne indaghiamo la politica? Con quale voce-coscienza può parlare il subalterno?”148.

In realtà, “per il ‘vero’ gruppo subalterno (il genere non è specificato in questo caso) [perché vi rientra anche la donna subalterna] la cui identità è la propria differenza, non c'è un soggetto subalterno irrappresentabile che possa conoscere e dire se stesso”149, per cui, andando oltre il problema della rappresentazione storica,

occorre, per Spivak, tenendo presente le coordinate del luogo dell'enunciazione, riconsiderare la funzione dello storico in rapporto al suo oggetto: “L’arena in cui si determina il continuo tentativo dei subalterni di assumere una posizione egemonica deve sempre, per definizione, rimanere eterogenea rispetto agli sforzi dello storico. Lo storico deve insistere nei propri sforzi per raggiungere la consapevolezza che il subalterno è necessariamente il limite assoluto dello spazio in cui la storia è narrativamente narrata in logica. È una lezione difficile da imparare, ma non impararla significa semplicemente spacciare soluzioni eleganti per una corretta pratica teorica”150.

Come è stato giustamente osservato, “ciò che Spivak intende evidenziare, non è tanto il paradosso in sé, quanto il valore epistemologico della consapevolezza di tale paradosso. Ciò che stiamo conoscendo […] non è un ente (il subalterno), ma il suo dissolversi asintoticamente in prossimità della sua concettualizzazione. Ciò che ci si para dinanzi, di fatto, è un limite. Il limite della conoscenza storica, della narrazione razionale del passato”151.

Foucault stesso, anche in seguito alla controversia con Derrida, modifica la sua posizione nei confronti della storia - e della scrittura, come si vedrà.

In particolare, se ne “Le parole e le cose” comincia a guardare alla Storia stessa come fenomeno storico, quando indica “la Storia […] madre di tutte le scienze

146 Ibidem

147 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.285 148 Ivi, p.284

149 Ibidem

150 G.Ch.Spivak, In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, London, Methuen 1987, p.120 151 G.Ascione, A sud di nessun Sud, op. cit., p.102

Anche secondo Mellino, per Spivak, “più che cercare le tracce di un soggetto che non può in nessun modo essere ristabilito […] - lo storico – dovrebbe mettere l'accento sulla scomparsa o sul silenzio del subalterno in quanto aporia della storia (occidentale) e quindi delle strutture conoscitive del sapere o del soggetto moderno”.

dell'uomo, pur essendo essa non meno vecchia forse della memoria umana”152, già

ne “L'Archeologia del sapere”153 definisce in maniera specifica la posizione dello

storico, distinguendo la storia dall'archeologia per il rapporto che ciascuna ha con i documenti.

Come osserva Young, a un certo punto Foucault capisce che occorre mettere a punto un'analisi storica che guardi con sospetto alla storia cosiddetta “totale”, perché “gli storici della storia totale si sono occupati soprattutto dell'interpretazione dei documenti, nel tentativo di ricostruire il passato, di dargli un significato interno (accessibile sempre e solo allo storico), di recuperare una voce e darle la possibilità di parlare”154.

La storia è quella scienza che abbraccia tutte le scienze umane e che tende sempre a trasformare i documenti in “monumenti”, nel senso di andare a selezionare quegli elementi che possono essere raggruppati, strutturati in un certo modo per costruire un sistema coerente che restituisce il fondamento di un'unità, “una strana ontologia della struttura”155, centrata sulla necessità di “salvare, contro tutti i decentramenti,

la sovranità del soggetto, e le figure gemelle dell'antropologia e dell'umanesimo”156.

2.6 L'implicazione del Sé nell'Altro e la dialettica del riconoscimento:

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