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La coscienza rivoluzionaria e le ricadute dell'essenzialismo culturale

Il rischio di una oggettivazione, o meglio di una fissazione in una forma come essenza fondante, è insito anche in quel tipo di essenzialismo culturale che si presenta come una delle falle in cui molte delle letture degli studi sul colonialismo e postcoloniali scivolano, nel tentativo di creare e gestire un dispositivo politico attraverso cui pensare la composizione della lotta anticoloniale nella sua autonoma politicità.

L'invocazione di un'autenticità dei valori della negritudine, da Césaire e Fanon, sembra aver seguito sempre più un “processo di reificazione”478, e la letteratura e le

altre forme artistiche che hanno avuto l'intento di riesumare la memoria delle tradizioni culturali479, decantandone la specificità, per ridare la voce a chi di quella 477 A.Russo, Prolegomeni a una genealogia della soggettività rivoluzionaria, in AA.VV. Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, a cura di A.Amendola, L.Bazzicalupo, F.Chicchi, A.Tucci, Quodlibet, Macerata 2008, p.341

478 M.Mellino, Introduzione a A.Césaire, Discorso sul colonialismo, op. cit., p.15

479 Tra queste, una figura che appare anche per molti versi vicina a Fanon, come ha messo in rilievo Renate Siebert (qui farò di seguito riferimento al citato “Voci e silenzi postcoloniali”), è quella di Assia Djebar, per la sua carriera cinquantennale di scrittrice e cineasta.

Nata in Algeria e trasferitasi in Francia e poi ancora negli Stati Uniti, vivendo quindi come “un esilio nell'esilio”, ha improntato la sua produzione letteraria ed artistica ad “ascoltare i silenzi e dare poi voce alle loro tonalità diverse; scrivere e filmare le grida del silenzio” (p.246).

Il problema che si pone è tuttavia quello del rapporto con il campo della politica: questo non si comprende se non partendo dal fatto che lei è e rivendica, proprio rispetto a questo campo, di essere una scrittrice, e in particolare una scrittrice che vive il suo essere una donna femminista in un senso specifico: non essere mai portavoce di, non parlare al posto di, ma, semmai, posizionarsi al lato, prestare la propria voce a chi voce non ha.

In quanto scrittrice, dal punto di vista della partecipazione attiva, l'unica sua uscita pubblica e politica fu l'organizzazione di una raccolta di firme su un giornale francese nel 1991, a favore della democrazia in Algeria, a cavallo tra il primo turno delle elezioni vinte dal FIS (Fronte Islamico di Salvezza Nazionale) e la presa del potere dei militari che di fatto abolì il secondo turno; inoltre fu impegnata nel Parlamento internazionale degli scrittori, di cui era stata co-fondatrice.

Proprio nella misura in cui, tuttavia, assume come una camicia di forza la definizione di politica che potremmo foucaultianamente intendere come il campo in cui non solo si è assoggettati a dei processi di disciplinamento e di violenza epistemologica, ma anche in cui diviene possibile la costituzione di sé come soggetti da un punto di vista attivo e creativo, si possono rinvenire allora dalle opere di Djebar sì dei punti di connessione con Fanon, “la passione per la pluralità delle culture, delle lingue e delle esperienze umane [e] l'attenzione alla memoria” (p.50), ma quel che resta determinante nelle loro esperienze è la diversa declinazione che assume il campo della politica: “centrale e vitale per Frantz Fanon, […] un campo minato, intrinsecamente corrotto e per niente attraente nelle valutazioni che ne dà Assia Djebar”(ibidem); una differenza sicuramente dovuta anche alla distanza generazionale tra i due, che è poi la distanza tra la fase pre e post liberazione.

Il problema, che si pone in modo analogo per molti scrittori della colonia e della postcolonia, è che un tale rapporto con il campo della politica, attraverso il supporto della letteratura, non va a definirsi che come un ripiegamento di tipo estetico, che emerge per Djebar soprattutto nella parte della sua vita, segnata dalla fase post-liberazione e dalla delusione che ne deriva per l'imporsi di un nuovo dominio e per la perdita di quel sentimento di appartenenza che la lega alla sua terra d'origine; ciò è quanto la porta a scrivere: “Semplicemente non la vedo più l'Algeria. Semplicemente, volto le spalle alla terra natia, alla nascita, all'origine / […] Semplicemente, riabito altrove; mi circondo d'altrove e palpito ancora”.

cultura è espressione con la propria stessa essenza soggettiva, hanno contribuito a creare una visione in cui non si fa che produrre le culture come entità fisse, chiuse nell'incomunicabilità delle loro caratteristiche480.

Queste esaltazioni di un esotico-altro-culturale investono nella letteratura una forma di fuga, di ri-traduzione di un immaginario che intende recuperare le voci disperse di quello che è il nativo prima e aldilà dall'essere toccato dallo sguardo del colonizzatore.

Tuttavia un simile dispositivo di tipo estetico, oltre a fornire un appiglio debole dal punto di vista politico, comporta tutta una serie di criticità in ciò che offre effettivamente, nel presentare quegli stessi limiti che è stato possibile rinvenire in Foucault nel periodo in cui trovava nell' “intempestività letteraria” una forma di resistenza in cui, anche se non è importante colui che parla e di chi parla ma l'atto con cui si parla, si trattava pur sempre di una forma di resistenza intesa come scarto, via di fuga, una sottrazione improvvisa e che non teneva conto del carattere relazionale del potere, e, quindi, anche dello stesso dato culturale, essendo anche questo in qualche modo interrelato con i meccanismi di potere ed egemonia.

Ad essere rimossa è la contaminazione, l'origine conflittuale del fenomeno culturale, prestando tra l'altro il fianco alla nota “mercificazione globale dell’alterità culturale, dove il postcolonialismo sarebbe ambiguamente complice ed avversario della ‘alterity industry’ e di un sistema di traduzione culturale che opera sotto il segno dell'esotico”481.

Si giunge a questa deriva, secondo Mellino, quando si fa un uso epistemologico482 Intesa in questo senso, è chiaro che viene soppressa alla radice, perché rifiutata nel suo significato di “dispositivo politico”, la ricerca di un'articolazione del rapporto tra politica e soggettivazione intesa come possibilità di costituirsi soggetti.

Mentre Fanon non scinde mai le due dimensioni, quella del dato culturale e quella della soggettivazione politica, sostenendo che la liberazione sociale poteva farsi solo unitamente ad una liberazione culturale che partisse dall'interno delle coscienze, Djebar alla fine sembra ritrarsi dal campo della politica, rinchiudendosi nell'apertura creata dalla sua stessa letteratura.

Il testo di Djebar sopra citato è tratto da A.Djebar, Bianco d'Algeria, Il Saggiatore, Milano 1998, p.113

480 Il più critico in questo senso sembra essere Amselle, che se riassume nello scivolamento essenzialista praticamente tutte le ricerche dei principali studiosi postcoloniali, incapaci di dare vita ad una prospettiva in grado di evitare “la trappola del rispecchiamento” tesa dalla scienza occidentale, va però poi a riprendere un pensiero centrato sulla diaspora ebraica che, pur mettendo in rilievo la caratteristica del dato culturale come perennemente in viaggio, non è esente dal rischio essenzialista: si parla, con Amselle, di “distacchi dall'Occidente” facendo riferimento alla necessità di costituire dei paradigmi che rispondano e siano in grado di dare voce alle diverse culture (ad esempio, un “paradigma africano” nelle scienze sociali) lasciandole completamente sganciate l'una dall'altra e senza tenere conto dell'importanza dei fenomeni di contaminazione e di meticciato, quale più recente oggetto della presa di un potere globale frammentato che differenzia per immettere ogni cosa sotto il suo regime governamentale.

481 A.Corio, Contagio postcoloniale e mercificazione della marginalità. Per una genealogia critica del discorso della contaminazione, in “Trickster. Rivista del master in studi interculturali”, n.4

482 La nota di Mellino sulla differenza tra uso in senso epistemologico e uso ontologico della critica postcoloniale, è in linea con la distinzione che Bhabha rinviene come fondamentale tra la nozione di diversità culturale che è “un oggetto epistemologico – la cultura come oggetto della conoscenza empirica […], categoria dell'etica, dell'estetica o dell'etnologia comparata”, e la differenza culturale

della nozione di teoria o di critica postcoloniale, che “serve soltanto a rafforzare discorsi e problematiche di tipo ontologico e soprattutto a mettere in luce una certa concezione etico-politica riguardo le dinamiche delle identità culturali”483.

Con la nozione di identità, come osserva Laplantine, non si fa che ridischiudere un processo di riattivazione dell'origine, perché la proclamazione dell'autenticità delle culture, di un essenzialismo che nella rivendicazione delle loro caratteristiche innate le chiude in un comunitarismo che “consiste nel ritrovarsi in sé, nel restare fra cugini”, è “la rivendicazione di un riflusso. Il compimento ha già avuto luogo, si può solo ripetere. È il passato a comandare il presente, attribuendogli la propria legittimità retroattiva”484.

E vale a riattivare il dispositivo razziale, perché ciò che oggi chiamiamo “comunitarismo”, ovvero la radicalizzazione logica del tema del “diritto alla differenza” è “la riscoperta delle differenze, delle identità, delle radici, delle culture, che sono forse un altro modo di designare ciò che un tempo chiamavamo razze”485.

La chiusura ermetica delle culture nella loro specificità è, insomma, l'affermazione di un essenzialismo che, vicino alla concezione del multiculturalismo come “apologia del pluralismo terapeutico”486, non ha che un

solo un passo in avanti da compiere per tradursi nell'affermazione di “una visione frammentata del mondo che si rivela inevitabilmente terreno fertile per ogni sorta di integralismo”487.

Ma, allo stesso modo, è anche la definizione di una coscienza rivoluzionaria, pensata sotto il dominio di un sapere sulla rivoluzione, a rischiare di mantenere la soggettività rivoluzionaria fissata non solo in una forma di coscienza di tipo fenomenologico e priva di divenire, ma anche nella caratterizzazione puramente negativa e oppositiva della violenza insorgente: è quanto accade se si pensa la negritudine come fanno, a parere di Fanon, certi intellettuali indigeni che si impegnano per l'affermazione incondizionata della cultura africana, sortendo l'effetto semplicemente di invertire lo stereotipo coloniale, perdendo, nell'ambito del discorso, proprio quel fuoco che sta nella materialità dei rapporti di sfruttamento. Lo psichiatra algerino mostra chiaramente la sua posizione quando, retoricamente,

intesa quale “processo dell'enunciazione della cultura”, “processo di significazione” che è capace di tenere in conto “il prodursi di campi di forza, riferimento, applicabilità e capacità”.

H.Bhabha, I luoghi della cultura, op. cit., pp.54-55 483 M.Mellino, La critica postcoloniale, op. cit., p.117

484 F.Laplantine, Identità e metissage, umani aldilà delle apparenze, op. cit., pp.36-39 485 Ivi, pp.46-49

486 Ivi, p.41

chiede: “Non volendo fare la figura del parente povero, del figlio adottivo, della prole bastarda, tenterò febbrilmente di scoprire una civiltà negra? […] Ma non vediamo assolutamente che cosa questo potrebbe mutare la situazione dei ragazzetti di otto anni che lavorano nei campi di canna nella Martinica o nella Guadalupa”488.

L'unica strada per far sì che la violenza, la resistenza e l'opposizione degli insorti siano pensabili in quanto carichi di una valenza affermativa, è quella tracciata dallo stesso Fanon alla fine di “Pelle nera maschere bianche”, in cui lancia un monito alle generazioni presenti e future, nere o bianche che siano, e non meno che a se stesso, in cui esprime il desiderio di un riconoscimento aldilà e al di fuori della determinazione della Storia: “Domando che mi si consideri a partire dal mio desiderio. Non sono soltanto qui e ora rinchiuso nel regno delle cose. Sono per altrove e per altra cosa. […] Non sono prigioniero della Storia. Non devo cercarvi il senso del mio destino. […] La densità della storia non determina alcuno dei miei atti”489.

Questo significa che “non ho il diritto, io uomo di colore, di preoccuparmi dei mezzi che mi permetterebbero di pestare la fierezza dell'antico padrone. Non ho il diritto né il dovere di esigere riparazione per i miei antenati addomesticati […] Non ho il diritto di confinarmi in un mondo di riparazioni retroattive”490.

E' la necessità della sottrazione della soggettività rivoluzionaria rispetto ad una storia da cui non si può e non si deve accettare di essere dominati; pena la costrizione in un contenitore di negrezza, come la faccia essenzializzante della negritudine, non meno costruita e totalizzante del paradigma della bianchezza del dominatore europeo, poiché porta con sé una pari attitudine a rendere allucinato il reale sotto il segno di quella visione deterministica che la Storia fa passare come processo di presa di coscienza e di progresso: da un lato una “missione negra”, dall'altro il “fardello bianco”.

Ancora una volta, il nesso che unisce l'analisi foucaultiana e fanoniana, nel loro presentarsi immediatamente come dispositivi politici, sta nella messa in atto di un “atteggiamento sperimentale” che è continuamente da riattivare e da tenere “alla prova della realtà e dell'attualità”, in quanto troppo spesso, come avverte Foucault, l'affermazione radicale e globale della libertà, inseguita da un gruppo che porta avanti un'idea forte di identità, si è trasformata in un sogno vuoto: “Sappiamo, per esperienza, che la pretesa di sottrarsi al sistema dell'attualità

488 F.Fanon, Pelle nera maschere bianche, op. cit., pp.202-203 489 Ivi, pp.190, 202-203

per formulare dei progetti d'insieme di un'altra società, di un altro modo di pensare, di un'altra cultura, di un'altra visione del mondo non hanno fatto altro che rinnovare delle tradizioni molto pericolose”491.

Capitolo quinto

Il “pre-istorico” del capitale: teorie della transizione e

genealogia dell'immanenza

5.1 Da “Provincializzare l'Europa” alla postcolonia come condizione globale

Seguire il metodo archeologico e geneaologico ha mostrato, fin qui, in che modo la cassetta degli attrezzi foucaultiana, coi suoi limiti di adattamento e le sue punte di originalità, si sia potuta prestare in maniera efficace e complementare rispetto ai

Subaltern Studies ed agli studi provenienti, oltre che dalla storia e dalla filosofia

politica, da discipline che ad essi si sono collegate, come la letteratura, l'etnologia, la psicologia e la medicina sociale, che ne hanno approfondito aspetti specifici. Ciò ha avuto l'obbiettivo di fornire un contribuito alla costituzione di un dispositivo epistemologico come fondamento alla politicizzazione delle problematiche che ruotano attorno a tutto ciò che fa agency per il soggetto subalterno, da quello che ha vissuto la colonia a quello che ha inteso darsi un'organizzazione, dal punto di vista sia materiale che etico, sia collettivo che individuale, nel tentativo di liberarsene, pur se in una maniera peculiare rispetto al punto di vista di chi guarda a queste realtà riferendole alle categorie classiche del fenomeno politico.

Tuttavia la fedeltà ad un autore, come lo stesso Foucault diceva, non è data dall'aderenza delle visioni di chi usa il suo metodo al modo in cui vengono interpretati i suoi detti e scritti, ma piuttosto da quanto si riesce a far stridere il suo pensiero, a deformarlo, a farlo gridare, anche strumentalizzandolo ai propri scopi conoscitivi e, se si vuole e si può, politici.

Muovendosi a partire da questo punto di vista, bisogna riconoscere, come sottolineato nell'articolo intitolato “Michel Foucault e il nostro tempo postcoloniale” da Ranabir Samaddar - direttore del Calcutta Research Group e animatore dei

bordier studies, nonché pioniere di un approccio critico radicale al problema delle

autonomie - che l'apporto dell'apparato metodologico foucaultiano non può ridursi ad un valore di ri-conoscimento del reale – anche se, in verità, lo storico indiano non vede molte vie d'uscita rispetto ad un uso di Foucault che vada oltre i suoi studi

archeologici - e quando ciò è stato fatto dai suoi critici, in particolare da quelli che hanno voluto recepire le sue lezioni per sostenere la causa degli esclusi in senso lato e dei popoli colonizzati in senso stretto, la conclusione non ha potuto superare, a parere di Samaddar, la creazione di un dispositivo di tipo esclusivamente epistemologico, che appare però qualcosa di “troppo debole e incapace di soddisfare il desiderio di autonomia presente nelle politiche democratiche radicali”492.

E' come dire che in casi come quello indiano delle espressioni di autonomie, proprio nella misura in cui queste sono non solo insorgenti ma costitutive di politiche, la pratica supera la teoria, nel senso che le pratiche vengono prima che un evento stesso possa essere stato pensato e fermato in un'immagine teorica, oppure che sono le stesse teorizzazioni del passato e la necessità di tener fede a certe elaborazioni discorsive a bloccare l'immaginazione.

Si tratta, come precisa Samaddar, di autonomie al plurale, in quanto il punto è proprio mostrare quanto spesso siano tra loro confliggenti e tuttavia possano coesistere; e ciò può vedersi a patto di mantenere una configurazione dell'autonomia non come un principio supremo ma come possibilità di negoziazione e di dialogo continuo493.

E' da queste considerazioni, dalla questione della tensione in cui si tengono teoria e pratica, che diviene stringente la necessità di interrogare la portata attuale non solo delle analisi foucaultiane, ma della stessa prospettiva degli studi subalterni, in particolare di quelli provenienti dall'area indiana; e, inoltre, è necessario ricollocare questi discorsi alla luce dell'attuale scenario globale, che impone una frattura tanto dal tempo di Foucault quanto dagli anni della prima diffusione delle ricerche del

Subaltern Studies Group.

Inserendosi nella porosa e disseminata area degli studi postcoloniali, i Subaltern

Studies si sono anch'essi riferiti ad un'accezione della materialità “postcoloniale” in

cui il prefisso post sta ad indicare altra cosa rispetto a “ciò che viene dopo” e all'idea del superamento dei meccanismi coloniali, per segnalare piuttosto il materializzarsi spiazzante di un insieme di conseguenze dovute al modo e ai limiti in cui questo superamento si è dato, l'intrecciarsi e il diffondersi degli effetti di

492 R.Samaddar, Michel Foucault e il nostro tempo postcoloniale, trad. di M.Turrini, in “Studi culturali”, n.2 agosto 2010, pp.213-237, qui p.230

493 Cfr: R.Samaddar, The politics of autonomy. Indian experiences, edited by R.Samaddar, Mahanirban Calcutta Research Group, Kolkata, Sage, New Delhi - Thousand Oaks - London 2005.

Qui, prima ancora dei ringraziamenti, lo storico indiano precisa l'espressione politics of autonomies e inserisce l'annotazione per cui “the volume speaks of autonomies and not one supreme principle of autonomy, meaning thereby that in this vision, one form or arrangement of autonomy cannot cancel another; autonomies must learn to co-exist in a sort of negotiation, conversation, and daily dialogue. Our political future is moving in that direction” (p.7).

reazione, ma anche il prolungamento, in nuove forme, degli elementi che hanno connotato la realtà coloniale.

Ma oltre a questo aspetto, per così dire, negativo, di oppressione, c'è il balzare fuori di soggettività che esprimono in senso radicale, e perciò stesso anche spesso difficile da classificare e recepire, istanze diverse e plurali dell'autonomia.

In questo sta il punto cruciale delle ricerche che tentano di connotare in senso politico la nuova punteggiatura delle emergenze che affiorano non semplicemente come contraccolpo ma in una dimensione di affermazione: l'urgenza è quella di coniugare ed adottare un nuovo punto di vista per guardare alle pratiche di soggettivazione nel modo in cui si muovono nella dimensione globale, alla luce del fatto che, come suggerisce Mellino, “il prefisso «post» di postcoloniale sta qui a indicare anche una «presa di parola», un agire che possiamo definire costituente”494.

Ad essere in questione sono le pratiche agite contro delle tecnologie di potere che funzionano secondo una logica che è andata affinandosi e specificandosi non più e non soltanto come “colonialismo”, ma piuttosto in quanto “colonialità”.

Come precisa Aníbal Quijano, questa va intesa come connotato qualificante in maniera specifica di intere sfere sociali, politiche, governamentali e culturali intrecciate, anziché come una fase determinata o come uno strumento per dare vita ad un impero o ad uno sfruttamento economico puro e semplice.

Non si tratta, insomma, della visione centripeta di un predatore che stila un programma definito e lo mette in atto, ma delle caratteristiche di una razionalità specifica, complessa e diffusa.

La nozione di “colonialità del potere” è servita al sociologo peruviano prima per includere la dimensione culturale del dominio coloniale rispetto alle analisi fatte dai teorici della dipendenza, poi più recentemente - e in concomitanza di una nuova

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