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La missione progressista borghese e il modo di produzione asiatico

Gli studi postcoloniali si sono prevalentemente orientati, nell'analisi dei cantieri marxiani e dell'elaborazione marxista che ne è derivata attraverso la storiografia successiva, verso la messa in discussione delle teorie della transizione.

Riprendendo la base da cui la critica prende le mosse, il punto di attacco dei

postcolonial sta nella problematizzazione del discorso sullo sviluppo, per cui si è a

varie riprese sostenuto che a livello macrostorico, i meccanismi governamentali coloniali – nel senso pastorale cui si è fatto, dal capitolo terzo e fino a qui, riferimento esplicito - producono un effetto di blocco al primo stadio dei paesi il cui sviluppo pieno è rimandato a data imprecisata, un blocco che contraddice le stesse previsioni del Marx del “Manifesto del Partito comunista” e degli articoli sull'India e sulla Cina, in cui si delineava una storia evolutiva dell'umanità avente la sua fase

pre-istorica nel cosiddetto “modo di produzione asiatico”.

Il problema, come sostiene Chakrabarty, è che non si considera che le storie subalterne (quelle che lui chiama Storie 2, ovvero tutto ciò che il capitale non può sussumere in maniera assoluta al suo proprio interno) danno forma a “passati che oppongono resistenza alla storicizzazione”504, che “ineriscono al capitale e tuttavia

502 R.Samaddar, What is postcolonial predicament, in “Economic & Political Weekly”, vol. XLVII, num. 9, March 2012, p.50 (corsivo aggiunto)

503 S.Mezzadra – G.Roggero, Introduzione a K.Salyan, Ripensare lo sviluppo capitalistico, op. cit., p.20 504 D.Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, op. cit., p.140

interrompono e segnano il fluire della sua logica”505.

Dal canto suo, Spivak, sul modo di produzione asiatico, puntualizza che pur trattandosi di un'espressione che Marx ha usato probabilmente una sola volta, essa contiene una normatività, l'invenzione di una specifica tassonomia, richiesta dalla difficoltà connessa alla teorizzazione dell'altro e alla risposta da dare alla domanda sul perché la logica del Capitale non si è determinata ovunque nella stessa maniera506.

A proposito di questa “sorprendente” variabile indipendente che determina che non tutto, in tempi differenti, porti al medesimo punto, sembra che proprio quella supremazia accordata alla struttura rispetto alla sovrastruttura, intesa qui da un punto di vista prevalentemente politico e sociale, abbia poi gettato le basi anche alla difficoltà storica di vedere che diverse combinazioni di quegli elementi, che si volevano definire sovrastrutturali, possa convivere con l'avanzare del capitale, anche se ciò va tenuto nettamente fuori dall'idea di imprimere etichette culturaliste, al contrario di come pure da qualcuno è stato paventato, avanzando l'ipotesi di definire come “capitalismi culturali”507 le poderose spinte negli ultimi decenni del

capitalismo in India e Cina.

Dopotutto, come rileva Chatterjee, “se il capitalismo in India e in Cina cresce a un ritmo così elevato in questo periodo storico è solo perché non è mai possibile che una stessa partitura sia suonata in modo identico”508.

Marx era però chiaramente consapevole della differenza nelle modalità delle transizioni e dei punti di arrivo tra paesi dalla diversa costituzione sociale, laddove tra l'altro è la fase dell'accumulazione originaria ad impattare in maniera diversa ed eterogenea rispetto a quanto si osservava nell'Inghilterra delle enclosures, per cui da questo punto di vista non si può parlare di un pensiero unilineare, soprattutto se si fa riferimento alle riletture delle analisi per così dire giovanili fatte in seguito nei “Grundrisse” ed influenzate dagli studi etnologici ed antropologici che in quel periodo si andavano sviluppando: come sostiene Mezzadra, “Marx si mosse nella prospettiva di un approccio ‘multilineare’ alla storia e allo sviluppo del capitalismo, considerando cioè la possibilità di una molteplicità di forme eterogenee, calibrate su diverse scale storiche e geografiche, di imposizione e organizzazione del rapporto sociale costitutivo del capitale”509.

505 Ivi, p.94

506 Cfr: G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., pp.91-92

507 J.L.Amselle, L'India e il Centre for Studies in Social Sciences of Kolkata. Intervista a P.Chatterjee,

dicembre 2006, consultabile su

http://www.meltemieditore.it/PDFfiles/ildistaccodalloccidente_interviste.pdf (visitato il 14/06/2013) 508 Ibidem

Ancora più a monte vale questo discorso - in quanto sottolinea la centralità dell'essere il modo di produzione un rapporto sociale - se si guarda all'analisi del mondo antico e della scena medievale, rispetto ai quali Marx pure individua un aspetto economico come modo di produzione sostenendo che “il Medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. Viceversa: il modo e la maniera di guadagnarsi la vita, spiega perché la parte principale era rappresentata là dalla politica, qua dal cattolicesimo”510; anche in

questo caso, come precisa Vegetti, il problema non è quello “di una banale affermazione della priorità strutturale dell'economico, che si fonda semplicemente sul truismo dell'esistenza di un processo di produzione; si tratta invece di un rinvio al problema centrale, cioè al problema delle forme sociali cui questo processo di produzione dà luogo, e che lo organizzano nella sua determinatezza”511.

Fatte queste premesse di cautela, inevitabili approcciando ad un armamentario così vasto, rimane il fatto che la distinzione, se si usano le espressioni di modo asiatico di produzione e di modo occidentale di produzione, è fatta sulla base di un fattore particolare, che è però un “particolare dominante”512: il capitale, o comunque la

tensione, o addirittura la torsione della storia verso il modo di produzione capitalistico.

E in ogni caso, quel che rileva è che, proprio in virtù di questa “dominanza”, ciò che a livello discorsivo è rimasto vivo nella coscienza storica è evidentemente il primo aspetto sopra richiamato, cioè quello di una descrizione tassonomica, e quindi gerarchicamente costruita, nelle classificazioni degli elementi (stato liberale/stato dispotico; barbarie e semi-feudalità/sviluppo e germi rivoluzionari progressisti), a discapito della lettura analitica del complesso dei testi marxiani.

Una simile circolazione e sedimentazione degli enunciati di questa storia è del resto confermata dal modo in cui, pur senza volerli palesemente connotare in senso imperialista o etnocentrico, si formulano i discorsi intorno alle realtà dei paesi, pure coi loro aspetti paradossali e contraddittori, che emergono come colossi dell'economia mondiale: capitalismi certo irriducibili sia alla transizione che al divenire del capitale occidentale, ma ai quali a tutt'oggi si è soliti riferirsi con l'etichetta di new entries, ancora una volta, da un lato ad indicare che si tratta della novità di un compimento atteso – anche se proprio la sovrastruttura sorprende e

http://www.academia.edu/2549962/Nei_cantieri_marxiani._Il_soggetto_e_la_sua_produzione_una_disp ensa_universitaria (visitato il 12/11/2013)

510 K.Marx, Il Capitale, a cura di D.Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970, libro 1, sez.1, p.95, n.33 511 M.Vegetti, Introduzione a AA.VV., Marxismo e società antica, a cura di M.Vegetti, Feltrinelli, Milano 1977, p.16

spaventa, non solo la minaccia economico-finanziaria - dall'altro lato sottintendendo però al tempo stesso la riaffermazione della supremazia occidentale in quanto è negli old countries che la storia, a partire da quella del capitale, sarebbe esistita da sempre, come uno sfondo a tutto ciò che è emerso in seguito come dato di novità. Tornando alla questione della critica allo storicismo marxiano, come si è già visto nel primo capitolo, la critica dei postcolonial studies è diretta, da un lato, alla categoria di proletariato in quanto eurocentrica, perché non possiede la capacità di rappresentazione per riferirsi alle "masse lavoratrici" non europee; dall'altro, e per quello che ora viene in rilievo, si contesta il carattere evolutivo della prospettiva che parte dalla necessità storica di innescare una storia dell'accumulazione capitalistica, laddove ci sono ancora condizioni definite semi-feudali (lette come pre- capitalistiche), che, per il giovane Marx, attraverso la forza rivoluzionaria di una borghesia progressista, vanno rimosse proprio come quella stessa borghesia era riuscita a fare in Inghilterra.

Nel “Manifesto del Partito Comunista”, Marx traccia infatti la direzione evolutiva di un mondo in cui l'Europa ha la posizione centrale nella produzione di una storia il cui motore è visto nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo.

Questo si sarebbe realizzato per la prima volta nel vecchio continente grazie al ruolo rivoluzionario, e quindi positivo, pur se spietato nei metodi e nell'ideologia, della borghesia in Inghilterra.

Alla classe borghese il marxismo attribuisce un ruolo di sostegno alla rivoluzione progressista rispetto ai rapporti feudali, che avevano dato luogo ad uno sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche.

La stessa emancipazione ideologica dal dominio della religione cattolica, pur conservandone in versione secolarizzata i tratti più autoritari, e comunque lo sviluppo di un atteggiamento ateistico libero dalle vecchie forme clericali, avrebbero consentito quella propensione al perfezionamento dei mezzi produttivi e all'assorbimento della forza-lavoro nel ruolo di merce entro il ciclo di produzione, quale presupposti della rivoluzione industriale.

Ma, facendo un balzo storico in avanti, una volta che l'industria ha emancipato i rapporti economici dal feudalesimo, il proletariato non deve fare altro che togliere questo strumento alla borghesia, che l'ha privatizzato, e costruire una nuova società.

Contrapposto al modo di produzione che in Europa ha sostituito i rapporti su cui si basavano i sistemi feudali, vi sarebbe il “modo di produzione asiatico”, in cui la condizione di stagnazione economica è accompagnata da uno Stato dispotico, anch'esso caratteristica tipica dei regimi orientali, oltre alle condizioni semi-feudali

del modo di produzione e di organizzazione sociale.

Il problema è che per Marx, la transizione in Europa aveva potuto aver luogo perché nel sistema feudale, per come lì si era dato, già vi erano una serie di presupposti contenenti contraddizioni tali da far evolvere quei rapporti verso il sistema produttivo capitalistico.

Laddove queste condizioni mancano, appunto nel modo di produzione asiatico, ancora infarcito dalla superstizione e incapace di autodeterminarsi, non basta attendere l'evolversi della storia dei rapporti produttivi, ma la storia, sotto la spinta dell'Europa, e in particolare delle potenze coloniali513, va costituita, prodotta, in

quanto non esiste ancora e stenta a manifestare i germi di una sua propria origine: “L'India non poteva sfuggire al destino d' essere conquistata, e tutta la sua storia, se è qualcosa, è la storia della successione di conquiste che ha dovuto patire. La società indiana non ha storia o, quanto meno, storia conosciuta. Quella che si chiama la sua storia non è se non la cronaca dei diversi intrusi ognuno dei quali fondò il suo impero sulla base passiva di una società incapace così di resistenza, come di metamorfosi”514.

Questa Storia che deve essere iniziata, stabilisce però una ben precisa parabola evolutiva dell'umanità e, postulando che l'origine di tutte le formazioni socio- economiche capitalistiche stia nelle medesime condizioni in cui si trovano le comunità asiatiche primitive, fissa la necessità del passaggio delle comunità orientali dallo stato di barbarie alla civiltà, attraverso gli stessi stadi percorsi dall'Europa.

Quello che ricorre è ancora il motivo della mimicry che Bhabha riferisce al livello psicoanalitico alla base delle “imitazioni” dei comportamenti dei colonizzatori da parte dei colonizzati, capaci di ricreare nient'altro che una brutta copia dell'originale, a controprova del carattere innato e naturale della divisione binaria delle parti nel manicheismo della colonia.

Nel “Manifesto” si legge che “la borghesia costringe alla civiltà anche le nazioni più

513 “L'Inghilterra in India ha una doppia missione; una distruttiva, l'altra rigeneratrice: demolire l'antica società asiatica, e gettare le basi materiali della società occidentale in Asia […]. L'opera di rigenerazione non traspira da un mucchio di rovine: eppure, è già cominciata […]. - Infatti - “dagli indigeni istruiti a Calcutta con riluttanza e parsimonia sotto il controllo inglese, sta nascendo una nuova classe, dotata dei requisiti essenziali del governo, e imbevuta di scienza europea”.

K.Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, in K.Marx - F.Engels, India, Cina, Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, a cura di B.Maffi, Il Saggiatore, Milano 2008, p.104 E anche ne “La dominazione britannica in India” si legge che l'intervento inglese ha salvato “queste piccole comunità semibarbare e semicivili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa e, al dire il vero, l'unica rivoluzione sociale che l'Asia abbia mai conosciuto”.

K.Marx, La dominazione britannica in India, in K.Marx - F.Engels, India, Cina, Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, op. cit., p.73

barbare. […] le costringe a introdurre da sé la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, si è creata un mondo a propria immagine”515.

E' in tal senso che a maggior ragione può affermarsi che questi sono stati i prodromi a partire dai quali “il discorso sullo sviluppo ha rappresentato in buona sostanza la continuazione del colonialismo con altri mezzi”516.

Così, anche quando Marx ha criticato le brutalità del dominio britannico, proprio mentre lo faceva andava affinando la tesi del potere emancipatore dello sviluppo capitalistico in India, al punto da descriverlo come “lo strumento inconscio della storia”517.

Ne deriva l'implicita contiguità tra il discorso che vede le élites locali come avanguardia autoctona della lotta anticoloniale finalizzata alla costituzione dello Stato-nazione - andando ad occultare, come si è detto, il ruolo delle masse lavoratrici subalterne - e l'orientamento che Marx fa seguire al proletariato in alcuni dei suoi primi scritti.

In “Rethinking working-class history”, Chakrabarty esamina questo punto in maniera specifica, esponendo la sua critica all'analisi marxiana e ad una serie di contraddizioni manifeste, le quali, sebbene non vadano ad inficiare l'afflato, nonché la rilevanza a livello di approccio sociologico, propri di un “cosmopolitismo liberale”518 che Marx avrebbe espresso e perseguito nel complesso della sua opera

intellettuale, starebbero comunque a testimoniare la resistenza di un residuo, probabilmente legato all'illuminismo e ad una coscienza storica che fa parte del suo tempo.

Nel declinare il concetto di “cosmopolitismo liberale”, Pendenza fa riferimento alla presenza in Marx di un approccio cosmopolita, d'impronta illuminista e umanista, che può essere definito come “liberale, perché legato allo spirito dinamico delle forze emancipative del capitalismo nei confronti dell’ancien régime”519, facendosi

espressione dell’ “esistenza di una progressiva ‘cultura globale comune e

515 K.Marx - F.Engels, Il Manifesto del partito comunista, trad. di P.Ceccoli, Giunti, Firenze 2009, pp.25-26

516 S.Mezzadra – G.Roggero, Introduzione a K.Salyan, Ripensare lo sviluppo capitalistico, op. cit., p.12 517 “La Gran Bretagna era animata dagli interessi più vili, e il modo che adottò per imporli fu idiota. Ma non è questo il problema. Il problema è: può l'umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell'Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crine perpetuato dall'Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia”.

K.Marx, La dominazione britannica in India, op. cit., pp.73-74

518 L'espressione è utilizzata da Pendenza allo scopo di dimostrare in che modo - contro l'affermazione di Beck di un canone sociologico ormai tramontato a fronte delle dinamiche globali - Marx, insieme ad altri autori classici, possa essere utilizzato in quanto espressione di uno spirito, ma soprattutto di un approccio metodologico cosmopolita in senso specifico.

Il discorso è portato avanti in M.Pendenza, Sociologia del cosmopolitismo e canone classico. Un legame tutt’altro che controverso, in “Quaderni di Teoria sociale”, in corso di pubblicazione

cosmopolita’ in atto, razionalizzante ed universalistica”520, di cui la classe borghese

progressista e cosmopolita sarebbe il sommo veicolo rivoluzionario, a livello universale.

E' quanto viene dedotto dalla lettura del “Manifesto”, dove Marx afferma a chiare lettere che “la borghesia, attraverso lo sfruttamento dei mercati mondiali, ha dato un carattere cosmopolitico alla produzione e al consumo di tutti paesi”521.

Tuttavia, come ricorda Sanyal, il dato per cui Marx ci presenta maggiormente dinanzi ad una frattura rispetto ai suoi predecessori classici sta proprio nel considerare anche il portato di violenza, espropriazione e sfruttamento che si accompagna come inscindibile correlato alla rivoluzione borghese522.

Inoltre, ancora calandosi in una lettura più comprensiva possibile dei testi marxiani, resta sempre da obiettare, a ragione, che l'ambivalenza del giudizio di Marx rispetto al dinamismo progressista borghese si spiegherebbe considerando in senso

trasformativo, più che evolutivo, gli stadi che la rivoluzione sociale deve

attraversare affinché il proletariato possa prima reimpossessarsi della proprietà dei mezzi di produzione e infine negare se stesso come classe: è così che si giungerebbe alla fase ultima della storia in cui ci sarà una società senza classi. Il senso teleologico permane, in quanto tratto proprio del materialismo storico, ma in questa prospettiva viene ad assumere una valenza prettamente strumentale, lasciando cadere la connotazione essenzialmente positiva che, nell'ambivalenza del giudizio, Marx in molti passi attribuisce alla rivoluzione borghese.

Il problema, piuttosto, che sottintende una visione etnocentrica e stato-centrica, sta in ciò che Chakrabarty individua come una serie di contraddizioni che emergono implicitamente dalla lettura del testo marxiano, pur se inteso in senso, come detto, di trasformazione da fase a fase e non di evoluzione in senso stretto.

In questo senso, infatti, è pur vero che in Marx il proletariato nasce dal rifiuto della visione hegeliana dello stato moderno come rappresentazione dell'universale; e difatti l'autore di “Rethinking working-class history”523 cita il Marx che ha visto il

proletariato come spogliato di ogni traccia di carattere nazionale: nel “Manifesto del Partito comunista” i lavoratori non hanno paese.

Ma se fin dal principio si dice che il proletariato è sganciato dalla nozione di cittadinanza, resta il fatto che questa opposizione assolutamente inconciliabile tra il cittadino e il proletario, richiamata anche nell'Ideologia tedesca, non è portata

520 Ibidem

521 K.Marx - F.Engels, Il Manifesto del Partito comunista, op. cit., p.24 522 Cfr: K.Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico, op. cit., p.149

523 Si farà da qui riferimento a D.Chakrabarty, Rethinking Working-class History. Bengal 1890 to 1940, Princeton University Press, Princeton 2000, cap.7

avanti da Marx fino in fondo, cioè fino al punto da approdare ad una critica della nazione stessa.

In tutto il “Manifesto”, appare una definizione peculiare e storicamente fondata dello stato nazione quale formazione sociale oppressiva e violenta: per abbatterla, "the proletariat of each country must, of course, first of all, settle matters with its own bourgeoisie”524.

Dunque, ponendo in primo piano la necessità che il proletariato risolva in ogni paese le questioni con la propria borghesia, il “Manifesto” non fa a meno di attribuire alla borghesia stessa un ruolo rivoluzionario: le toccherà abbattere non solo le “muraglie cinesi” che isolano certe comunità pre-capitalistiche, ma anche le barriere che, tra queste, fondano le differenze nazionali.

Ma non finisce qui: non solo il proletariato verrebbe ad assumere il compito incompiuto della borghesia, ma vengono riproposte delle categorie che parevano esser state esorcizzate, laddove, come spiega Chakrabarty, Marx farebbe un uso acritico di nozioni come democrazia e nazione, con riferimento all'azione che il proletariato ha da compiere: “win the battle of democracy […] , constitute itself the nation”525.

Del resto la borghesia ha il merito di aver tolto “il terreno nazionale sotto i piedi dell'industria”526, procedendo quindi nel senso della fondazione di un “senso

cosmopolita dell'industria”; eppure ciò è fatto “con grande dispiacere dei reazionari”, assunti al pari di un mucchio di individui a-politici che potremmo assimilare a quel “sacco di patate”527, come una semplice somma di grandezze

identiche - la classe in sé che non è anche classe per sé -, con cui Marx aveva metaforicamente rappresentato i piccoli proprietari contadini ribelli che non potevano rappresentarsi da sé; ma non solo: il riferimento ai “reazionari” è carico di significati etnocentrici, in quanto si fa riferimento a tutti quei soggetti portatori di una tradizione di cui non si può far altro, in nome del progresso, che sbarazzarsi, secondo un principio di imperialismo culturale che culmina con l'affermazione per cui “non si deve dimenticare che queste idilliache comunità di villaggio, sebbene

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