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Segue: l'esplodere della dialettica del riconoscimento

Come anticipato, nella conferenza “Cogito e storia della follia”, Derrida rivolge a Foucault un'altra questione, che è la stessa che Spivak riassume nei confronti del collettivo dei Subaltern Studies, contro il loro intento di recuperare una voce autentica dei subalterni entro un archivio depurato dai discorsi ufficiali e dal predominio assoluto della scrittura.

Oltre al progetto latente che consiste nel tentativo di conferire all'archeologia del silenzio della follia lo statuto di una “storia”, Derrida critica quello che individua come progetto esplicito: “scrivere una storia della follia in se stessa. In se stessa. Della follia stessa. Vale a dire restituendole la parola”180, progetto che è impossibile

da realizzare, in quanto se “fare la storia della follia stessa è dunque fare l'archeologia di un silenzio”181, quello di Foucault sarebbe un gesto che ripete il

delitto che sta nella sottrazione della parola.

E così Derrida conclude che “la disgrazia dei folli, la disgrazia interminabile del loro

178 Ivi, p.67

179 F.Fanon, Opere scelte di Frantz Fanon, a cura di G.Pirelli, Einaudi, Torino 1971, p.50 180 J.Derrida, Cogito e storia della follia, op. cit., p.43

silenzio, sta nel fatto che i loro portavoce sono coloro che li tradiscono meglio”182.

Ciò che viene richiamato è il problema del linguaggio, che coinvolge direttamente la questione della possibilità e del valore della rap-presentazione, del riconoscimento di una agency ad un soggetto situato in un sistema linguistico che sarebbe, secondo Foucault, altro da quello della ragione.

A crearsi è un cortocircuito per cui il subalterno – e così il folle - non può parlare, perché se potesse, egli sarebbe già di default titolare di una agency.

Il concetto di agentività richiama una “capacità di azione e di intervento”183

finalizzata a produrre una rappresentazione propria di sé che diventi parte attiva di una comunità, “una capacità di agire […] che implica un'egemonia non convenzionale intesa come forza, come progetto di vita modellato entro un sistema che si collochi oltre il simbolico prestabilito”184.

E' una irrecuperabilità, una incomprensibilità, a dover essere problematizzata, ed è lo stesso linguaggio “a porsi come centro catalizzante della critica. La domanda –

Can the subaltern speak? - pone infatti immediatamente due questioni linguistiche

e teoriche allo stesso tempo: cosa si intenda per questo ‘speak’ - ‘parlare’, e ‘chi’ siano i subalterni. ‘Parlare’ vuol dire agire tramite segni socialmente riconoscibili e interpretabili; parlare – come scrive Rey Chow - ‘appartiene a una struttura già ben definita e a una storia di dominazione’185. Parlare, in definitiva, equivale a non

essere subalterni”186.

Partendo da Foucault, la problematizzazione del linguaggio si muove fin dall' “Introduzione” all' “Antropologia” di Kant.

Già in uno dei suoi primi scritti, infatti, il filosofo francese sente la necessità di esplicitare, quale oggetto di riflessione dell'antropologia, la lingua “come un elemento che va da sé, all'interno della quale si è collocati sin dall'inizio”187.

Foucault è davanti al problema di matrice kantiana che pone l'uomo in quanto “né homo natura né soggetto puro di libertà [ma] preso all'interno delle sintesi già operanti del suo legame con il mondo”188 ed è cittadino del mondo “puramente e

semplicemente perché parla. E' nello scambio del linguaggio che, nello stesso tempo, raggiunge e compie lui stesso l'universale concreto. Il suo risiedere nel

182 Ibidem

183 L.Curti, Percorsi di subalternità: Gramsci, Said, Spivak, op. cit., p.24 184 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.14

185 R.Chow, Dove sono finiti tutti i nativi?, in Displacements: Cultural Identities in Question, a cura di A.Bammer, Indiana University Press, Bloomington 1994, pp.125-151, ora in R.Chow, Il sogno di Butterfly, op. cit., p.33

186 P.Calefato, Introduzione all'edizione italiana di G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.13

187 Ivi, p.75

mondo è originariamente soggiornare nel linguaggio”189.

A contrario, si potrebbe dire che nel momento in cui l'uomo perde il suo linguaggio,

perché questo è occultato oppure gli è sottratto, perde il legame col mondo, o per lo meno con il suo mondo, viene ridotto alla condizione per cui c'è sempre un altro che detiene il diritto a parlare per lui e a poter formulare un discorso sulla sua verità.

Quella verso l' “universale concreto” - al pari della disposizione al sentimento del sublime attraverso la Kultur, oggetto della decostruzione di Spivak - diventa nient'altro che una tensione paradossale: può realizzarsi attualizzandosi a partire dal linguaggio e attraverso il suo utilizzo, ma il linguaggio è già di per sé parte di un ingranaggio facente capo ad una ratio che include il “cittadino del mondo” mediante l'esclusione di chi non è naturalmente ritenuto idoneo ad accedere a tale status. Ne “Le parole e le cose” il linguaggio diventa uno tra i sistemi discorsivi che trascendono l'uomo, una pratica storica che spezza la trasparente referenzialità dei segni: se fino al Rinascimento essa era stata strumento neutro di conoscenza e “il discorso formava un mezzo trasparente di rappresentazione, i cui elementi linguistici corrispondevano ai primitivi elementi del mondo”190, quando l'uomo fa la

sua comparsa sulla scena dei saperi positivi scopre che dei sistemi lo trascendono e che c'è una storia delle lingue e della loro organizzazione interna, che è già dentro le parole stesse e quindi sta prima del significato che proviene dalla rappresentazione.

Tuttavia il problema, per il soggetto subalterno, è immediatamente duplicato, dal momento che il subalterno stesso si costituisce sempre per sottrazione: da un lato perché, come osserva Guha, “egli imparava a riconoscersi non per via delle proprietà e degli attributi della sua esistenza sociale, ma per via di una diminuzione, se non della negazione, di quelli dei suoi superiori”191; inoltre per la

sottrazione, l'espropriazione che subisce del suo linguaggio, nel momento in cui gli sono imposti la lingua e i codici culturali del colonizzatore.

L'appropriazione dei segni e dei simboli di tutto ciò che è extraoccidentale, l'istituzione di un linguaggio con cui li si fa funzionare attraverso delle rappresentazioni date, genera quella che Spivak chiama violenza epistemica, quale rottura violenta nel sistema dei segni, cancellazione delle tracce di ogni forma di conoscenza e interpretazione del reale, che non può transitare che distorcendosi

189 Ivi, p.77

190 H.L.Dreyfus – P.Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, op. cit. , p.50

191 R.Guha, Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India, Oxford University Press, New Dehli, 1997, p.18; cfr. con la prefazione di S.Mezzadra a R.Guha – G.Ch.Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, ombre corte, Verona 2002, p.12

attraverso la lente del dominatore, in vista del consolidamento delle forme di sapere e della prospettiva delle grandi narrazioni occidentali.

Parlare significa dunque far uso di un linguaggio, di un codice culturale che non solo indica un'appartenenza - in quanto “parlare una lingua vuol dire assumere un mondo, una cultura”192 - ma può realizzarsi solo “nell'evento sociale della relazione

tra parlanti”193.

Se, infatti, “l'enunciato in quanto tale avviene tra parlanti”194, ad essere centrale

nella questione del linguaggio è l'attitudine, propria di questo, a creare una relazione, il punto di aggancio ad una dialettica del riconoscimento.

Ma tutto questo, come Fanon ha ripetuto accanitamente, non può accadere per il subalterno: nel momento in cui gli è imposto un linguaggio che cancella la lingua nativa e sono negate le rappresentazioni che richiamano il suo immaginario, parlare “la lingua dell'altro” significa non esistere più.

Se infatti “per l'uomo parlare significa esistere, in assoluto, per l'altro”195, la

reciprocità, che si fonda sulla dialettica del riconoscimento, “nella colonia, si inceppa, stregando questa relazione in un'oscillazione infinita tra mimetismo, parodia e finzione”196.

Nella colonia non è mai esistita la dialettica tra servo e padrone, perché “il padrone qui differisce essenzialmente da quello descritto da Hegel. In Hegel c’è reciprocità, qui il padrone se ne infischia della coscienza dello schiavo. Non ne vuole il riconoscimento, ma il lavoro”197.

La dialettica si inceppa provocando un'alterazione della personalità, perché “ogni idioma è un modo di pensare […] e per il negro sbarcato da poco, adottare un linguaggio diverso da quello della collettività che l'ha visto nascere è uno sfasamento e uno sdoppiamento”198: da un lato non risponde che in francese ma

non è bianco, dall'altro non capisce più il creolo ma è rimasto nero.

Quando il linguaggio dell'altro non è più riconosciuto in quanto tale, non solo non può più darsi una comunicazione “umana”, ma a soccorrere questa assenza è la costruzione di un linguaggio sull'altro, sostanzialmente di un monologo, che ne

192 F..Fanon, Pelle nera maschere bianche, op. cit., p.32

193 M.Bachtin, Linguaggio e scrittura, trad. di L.Ponzio, Meltemi, Roma 2003, p.91 194 Ivi, p.92

195 Fanon, F., Pelle nera maschere bianche, op. cit., p.15

196 R.Beneduce, La potenza del falso. Mimesi e alienazione in Frantz Fanon, in “Aut Aut”, Per un pensiero postcoloniale, Il Saggiatore, Milano aprile-giugno 2012, p.8

197 F.Fanon, Pelle nera maschere bianche, op. cit., p.194.

L'argomento sarà ripreso nel capitolo quinto a proposito dell'articolazione della coscienza del contadino e del modo in cui il capitalismo internazionale sfrutti proprio il rinnovarsi continuo dell'accumulazione originaria.

198 Ivi, pp.21-22

Fanon sta esaminando il problema del linguaggio del nero che, partito per la Francia, fa poi ritorno nelle Antille.

illumina e ne consolida gli aspetti che l'uomo di ragione e il colonizzatore vi vedono: rispettivamente, un oggetto medico e un uomo-animale.

Foucault conclude che “l'uomo moderno non comunica più con il pazzo: da una parte c'è l'uomo di ragione che affida la follia al medico, autorizzando un rapporto soltanto attraverso l'universalità astratta della malattia; dall'altra parte c'è l'uomo di follia che comunica con l'altro solo attraverso l'intermediario di una ragione altrettanto astratta, che è ordine, costrizione anonima del gruppo, esigenza di conformità. […] La costituzione della follia come malattia mentale, alla fine del XVIII secolo, redige il verbale di un dialogo interrotto. […] Il linguaggio della psichiatria, che è monologo della ragione sulla follia, si è potuto stabilire solo su un tale silenzio”199.

Sulla scorta di un meccanismo analogo, il monologo dell'uomo moderno nella colonia, come scrive Fanon, “disumanizza il colonizzato. A rigor di termini, lo animalizza. E, difatti, il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico. […] Il colono, quando vuole descrivere bene e trovare la parola giusta, si riferisce costantemente al bestiario”200.

Quello della colonia, come la mente quando la s-ragione viene consegnata all'apparato medico, diviene l'ambiente su cui si avverte la necessità storica e morale di realizzare una missione per l'intera umanità: così Foucault mostra come, con la liberazione dei folli dalle catene delle prigioni, da parte di Pinel e Tuke, si scopre un'inedita filantropia che, sulla base di presunti avanzamenti scientifici e umanitari, apre il campo alla scienza medica.

Le prime riforme psichiatriche vogliono separare i pazzi dai criminali e dai poveri, in quanto i primi necessitano di cura, che però in realtà è cura funzionale al loro inserimento nei circuiti della produzione, o, se inguaribili, di un'assistenza medica che si risolve nel ritiro nei luoghi ad essi esclusivamente destinati: si apre una coscienza della follia che la specifica scientificamente e ne riunisce le forme polimorfe sotto la cappa della malattia mentale.

Il sotteso interesse alla liberazione di una grande fonte di manodopera si realizza attraverso delle procedure che costituiscono la versione miniaturizzata di quanto avviene con la colonizzazione: qui “incombe indubbiamente alle grandi nazioni, come un obbligo morale, il dovere di colonizzare, d'impiegare, per il bene dell'umanità, la forza e gl'istrumenti vantaggiosi alla produzione da esse posseduti; altrimenti, mancando alla missione loro, incorrerebbero in una decadenza

199 M.Foucault, Prefazione alla Storia della follia, op. cit., p.50 200 F.Fanon, I dannati della terra, op. cit., p.9

morale”201.

La missione delle grandi nazioni è quella di condurre, guidare le popolazioni indigene in quanto esse si trovano in uno stato di infanzia.

Però, quando vengono costruite scuole per gli indigeni e si formano strutture volte a disciplinare la vita del colonizzato, il linguaggio comincia a svolgere una funzione ambigua che concorre al comporsi di una stratificazione all'interno della società coloniale, di una specie di razzismo interno che parte dal rifiuto della propria lingua anche nei rapporti tra nativi.

Il Nero è apprezzato in proporzione al suo grado di assimilazione, anche della lingua del padrone: “La borghesia delle Antille non usa il creolo, salvo che nei rapporti coi domestici. A scuola il ragazzo della Martinica impara a disprezzare il vernacolo”202.

Nelle Antille ci sono alcuni che imparano il francese, in quanto nell'accesso alla lingua del colonizzatore si vede l'accesso al diritto di cittadinanza e “colui che si esprime bene, che possiede la padronanza della lingua, è enormemente temuto; bisogna fare attenzione a costui, è un quasi-bianco”203.

Eppure, se questa è la situazione che caratterizza la comunicazione tra subalterni della stessa razza, il linguaggio che il colonizzatore instaura, sopra il vuoto di quella lingua natia che ha messo a tacere, già si vede che diventa “uno strumento di sottile, quotidiano assoggettamento”204, un discorso che produce i s-oggetti con cui

e di cui parla.

Per relazionarsi al negro, bisogna conoscerlo, bisogna, cioè, sapere che è un soggetto la cui psiche e le cui risposte emotive funzionano come quelle dei bambini, per cui “bisogna rivolgersi loro con gentilezza, parlargli del loro paese. Saper parlare, questo è il punto.[…] un bianco nel rivolgersi a un negro si comporta esattamente come un adulto con un monello e ricorre a una serie di piccole smancerie, mormora, gesticola, parla forte, ecc.”205.

La forma della comunicazione cristallizza il negro e costituisce su di lui il discorso vero della sua inferiorità; è prodotto direttamente un soggetto e il suo modo di percepire se stesso.

Di fatto, "Parlare francese storpiato con un negro significa metterlo a disagio, perché egli si sente ‘quello che parla francese storpiato’”206; e proprio mentre si dice

che non c'è alcuna volontà vessatoria, che non lo si è fatto apposta, si ammette che

201 R.Tritonj, Politica indigena africana, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano 1941, p.12 202 F.Fanon, Pelle nera maschere bianche, op. cit., p.17

203 Ivi, p.18

204 R.Beneduce, La potenza del falso. Mimesi e alienazione in F.Fanon, op. cit., p.40 205 F.Fanon, Pelle nera maschere bianche, op. cit., p.27

“è proprio questa assenza di intenzionalità, questa disinvoltura, questa indifferenza, questa facilità con la quale si fissa, si imprigiona, si primitivizza il nero a essere vessatoria […] Parlare significa esprimere questa idea: ‘Tu, negro, resta al tuo posto!”207, perché anche se hai imparato il francese resti in un una terra di nessuno,

dove sei diventato un nero che porta la maschera della lingua del bianco.

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