La prospettiva politica della decostruzione di Spivak incorpora anche un risvolto critico rispetto al progetto del collettivo dei Subaltern Studies di dare vita ad una contro-storia, usando le fonti trascurate dalla storiografia ufficiale, che recuperi le tracce dei subalterni.
Guha e i ricercatori del suo gruppo “ritengono che il loro obbiettivo sia quello di costruire una teoria della coscienza o della cultura”119, vorrebbero giungere ad una
115 Sul senso dello scarto tra cultura e civiltà, Terry Eagleton osserva come in realtà si tratti di due facce della stessa medaglia, per indicare in ogni caso come la vita sociale deve essere e non come è: il termine civiltà sostituisce quello di cultura quando questo sembra aver assunto una valenza imperialista, ma in realtà “quanto più la civiltà attuale appare predatrice e degradata, tanto più l'idea di cultura è costretta ad assumere un atteggiamento critico”.
T.Eagleton, L'idea di Cultura, Editori Riuniti, Roma 2001, p.17 116 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., p.39
117 Cfr: S.Amin, Eurocentrism, Monthly Review Press, New York, 1989, p.9 118 G.Ch.Spivak, Critica della ragione postcoloniale, op. cit., pp.36-37
119 G.Ch.Spivak, Can the subaltern speak?, in R.Guha – G.Ch.Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura di S.Mezzadra, ombre corte, Verona 2002, p.104
definizione di “coscienza di classe” delle masse contadine attraverso la considerazione dei cambiamenti funzionali dei sistemi dei segni tra i quali il più importante sarebbe il passaggio dal religioso al militante.
Tuttavia, questo recupero della memoria popolare e della scrittura entro una storiografia altra rischierebbe di creare un nuovo oggetto e di contribuire a sopprimere definitivamente l'espressione dell'agentività del subalterno: subalterno di cui Spivak vede la vera figura nella donna subalterna del Terzo Mondo, in quanto essa è stretta, e la sua voce dissolta, tra il dominio coloniale e quello della famiglia patriarcale.
Lo stesso “Orientalismo” di Said sarebbe in questo senso stato un testo fondamentale per mettere in luce come sia potuta avvenire la costruzione di un oggetto, per indagarlo e controllarlo, ma, a partire da questo tipo di tentativi di indagine, “lo studio del discorso coloniale […] è, tuttavia, fiorito in un giardino dove
il marginale può parlare ed essere parlato, anche interpretato”120.
Inoltre, come rileva Rey Chow, Spivak fa riferimento alla “marginalità” nell'accademia come ad un “nuovo Orientalismo”, col rischio che ne deriva di tendere a “riprodurre la categoria familiare dell'esotico nel discorso imperialista121.
Ma può davvero essere raccontata la storia di un silenzio, se nella narrazione si continua a prendere in prestito il linguaggio della ragione, il logos filosofico - e di quella storia, nel momento stesso in cui la si vuole mettere in discussione?
E può allora essere recuperato un linguaggio originario, proprio, del “marginale” ? Quest'ultimo punto apre una questione molto simile a quella falla in cui ha rischiato di incappare lo stesso Foucault, e che pure gli è valsa la critica accesa di Derrida, nel momento in cui ha voluto vedere nella follia, nella fase tra “Malattia mentale e psicologia” e la prima edizione di “Storia della follia”, un'essenza da liberare, la figura di un'alterità sfuggente che, una volta levato il velo della repressione, bisogna lasciare che parli da sé.
Proprio in quella “Prefazione alla Storia della follia”, che Foucault avrebbe poi modificato dopo la controversia con Derrida, si ritroverebbe quella distinzione tra il Medesimo e l'Altro che scivola nella ricerca di un fondamento essenziale, di una positività, una verità ontologica che accomuna una serie di esperienze del “fuori”; un fuori come esteriorità, scarto improvviso dalle strutture dell'ordine razionale
120 Il passo è una citazione tratta dal libro di G.Ch.Spivak, Outside in the Teaching Machine, Routledge, New York 1993, che si trova in R.Young, Introduzione al postcolonialismo, Meltemi, Roma 2005, p.15, corsivo aggiunto
121 R.Chow, Il sogno di Butterfly. Costellazioni postcoloniali, a cura di P.Cafelato, trad. di M.R.Dagostino, Meltemi, Roma 2004, p.121 nota 26; in proposito anche S.Suleri, The Rhetoric of English India, University of Chicago Press, Chicago 1992
dell'episteme, a partire da cui sarebbe possibile aprire una prospettiva critica; eppure solo come linea di fuga.
In questo senso Foucault aveva potuto vedere “l'assoluta divisione del sogno, che l'uomo non può impedirsi di interrogare nella sua propria verità […], ma che interroga solo al di là di un essenziale rifiuto che lo costituisce e lo respinge, nella derisione dell'onirismo”122; poi un “mito della follia essenziale”123, laddove “si dovrà
un giorno tentare uno studio della follia come struttura globale – della follia liberata e disalienata, restituita in un modo o nell'altro al suo linguaggio di origine”124; e
sulla stessa linea il filosofo francese individuava un altro punto, il luogo di una frattura costitutiva della storia, che è stato per la cultura occidentale il luogo di una scelta originaria, nella misura in cui ha istituito una linea di demarcazione tra il sé e l'Altro: “Nell'universalità della ratio occidentale c'è questa divisione che è l'Oriente: l'Oriente, pensato come l'origine, sognato come il punto vertiginoso da cui nascono le nostalgie e le promesse di ritorno, l'Oriente offerto alla ragione colonizzatrice dell'Occidente, ma indefinitamente inaccessibile perché resta sempre il limite: notte dell'inizio, in cui si è formato l'Occidente ma nella quale ha tracciato una linea divisoria, l'Oriente è per l'Occidente ciò che esso non è, anche se deve cercarvi ciò che è la sua originaria verità. Bisognerà fare una storia di questa grande divisione, lungo tutto il divenire occidentale, seguirlo nella sua continuità e nei suoi scambi, ma anche lasciarlo apparire nella sua tragica ieraticità”125.
Insomma si intrecciano qui due problematiche, che costituiscono i due progetti, secondo Derrida, assunti da Foucault in “Storia della follia”: la prima riguarda il rapporto tra storia, pensiero e scrittura (della storia stessa), per cui, se la storia è un concetto razionale, il punto è: come si può fare la storia di un punto di frattura, di un'origine che fa la storia?
Il secondo problema riguarda quello che sarebbe un presunto linguaggio da restituire, liberare: una lingua del marginale, che pone lo stesso problema della (ir-) recuperabilità della lingua del subalterno.
122 M.Foucault, Prefazione alla Storia della follia, op. cit., p.52
123 L'espressione è di Pierre Macherey, secondo cui la ricerca di una essenza profonda della follia persisterebbe anche nelle rettifiche apportate da Foucault all'opera del '62 rispetto a “Malattia mentale e psicologia”, nel senso che anche “dislocando l'idea di una verità psicologica della malattia mentale verso l'idea di una verità ontologica della follia, rimane intatto il presupposto di una natura dell'uomo, sebbene ora derivata da una evocazione poetica anziché da un sapere positivo”.
Il testo citato si trova in P.Macherey, Aux sources de 'L'Histoire de la folie': une rectification et ses limites”, citato in nota in M.Foucault, Maladie mentale et Psychologie, Presses Universitaires de France, Paris 1962; trad. it. Malattia mentale e psicologia, trad. di F. Polidori, Cortina, Milano 1997, p.XII-XIII nota 10
124 M.Foucault, Malattia mentale e psicologia, op. cit., p.87 125 M.Foucault, Prefazione alla Storia della follia, op. cit., pp.51-52