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Crisi economica e gestione dei flussi migratori

I. L’Europa del dopoguerra e le migrazioni internazionali

3. Crisi economica e gestione dei flussi migratori

Dalla metà degli anni Sessanta la scelta di stabilizzare i migranti già presenti e favorire i ricongiungimenti familiari, ponendo un freno alle nuove migrazioni, iniziò a farsi spazio nei paesi d’immigrazione. Lo spostamento verso posizioni ancora più restrittive per l’ingresso di nuovi migranti arrivò poi in concomitanza dello shock petrolifero del 1973, che comportò una generalizzata, drastica riduzione della produzione, alla quale seguì l’aumento della disoccupazione (Tab.1.5).

Tab.1.5 Tassi di disoccupazione in alcuni Paesi europei, 1971-1983 (a). Valori %

Stati 1971 1973 1975 1979 1983 Francia 2,6 2,6 4,1 5,9 8,3 Germania 0,7 1,0 4,0 3,3 8,2 Italia 5,3 6,2 5,8 7,5 9,8 Regno Unito 2,8 2,2 3,2 4,6 11,1 Spagna 1,9 2,7 4,5 9,3 18,0

Note: (a) Rispetto al complesso delle rispettive forze di lavoro Fonte: A. GOLINI e C. BONIFAZI, Tendenze

demografiche…, cit.

La crescita che si era realizzata nei paesi dell’Europa occidentale fino a quel momento era fondata sullo sviluppo di economie di scala, in un regime di piena occupazione: i tassi di disoccupazione tra il 1960 e 1972 erano inferiori al 3% in tutti i paesi, fatta eccezione per l’Irlanda e l’Italia, per i quali le percentuali erano leggermente superiori44. La possibilità di sostenere l’espansione dipendeva a quel

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tempo strettamente dalle opportunità di estendere l’utilizzo dei fattori di produzione, tra cui appunto il lavoro. Ma allorché sopraggiunse la crisi, alle economie nazionali fu assestato un duro colpo, capace di ribaltare il trend positivo registrato fino a quel momento, nonché di far crollare definitivamente l’assetto sulla quale poggiava l’espansione economica.

Fattori peculiari del decennio, come l’aumento dei tassi di disoccupazione e dell’inflazione e le crisi energetiche del 1973 e del 1979, furono alla base del rallentamento economico. Ma già prima che questi si manifestassero, alcune tendenze di lungo periodo avevano impresso nell’economia europea dei cambiamenti. Una tendenza al generale rialzo dei prezzi delle materie prime, delle risorse energetiche e del costo del lavoro si era mostrata sul finire del decennio precedente. Contemporaneamente anche gli elementi politici ed economici che avevano favorito la crescita fino a quel momento iniziavano ad indebolirsi. Il sistema di cambi fissi e di controllo dell’inflazione, grazie al quale i paesi si erano assicurati una crescita prospera e stabile iniziò infatti a venir meno45. Era una

dimostrazione di ciò quanto accadde in Gran Bretagna nel 1967: il governo laburista optò in quell’anno per la svalutazione monetaria, al fine di porre rimedio ai gravi squilibri presentati dalla bilancia dei pagamenti, derivanti da un aumento della domanda globale, non sostenuta da una crescita della produttività altrettanto rapida. Anche in Francia, pochi anni dopo (1969), il governo Pompidou imboccò la stessa strada britannica, per rilanciare la competitività dei prodotti nazionali, duramente compromessa dagli aumenti salariali che si verificarono tra il 1967 e il 1968.

In realtà per tutto il primo ventennio postbellico, l’inflazione e l’instabilità della bilancia dei pagamenti avevano rappresentato problemi ricorrenti nei paesi europei che meno erano riusciti a controllare le tendenze al rialzo dei salari e della domanda, come nel caso della Gran Bretagna e della Francia, o ancora dell’Italia, senza rappresentare comunque un vero e proprio ostacolo alla crescita. Ma fu solo nel 1973 dopo l’accantonamento definitivo degli accordi di Bretton Woods e il drastico rincaro del petrolio, che l’inflazione salì vertiginosamente in tutti gli stati europei e che le bilance dei pagamenti presentarono degli squilibri consistenti.

Ciò impose agli stati un ripensamento rispetto alle priorità e alle politiche economiche da seguire. Nonostante l’aumento della disoccupazione, il vecchio obiettivo della piena occupazione venne progressivamente abbandonato in tutti i paesi, per rivolgersi con maggiore impegno al contenimento dell’inflazione e alla stabilità della bilancia dei pagamenti. Senza entrare nel merito dell’azione sviluppata nei diversi stati per ovviare a questo problema, va però constatato che a differenza del periodo precedente i governi non riuscirono a garantire la ripresa immediata dalla fase economica recessiva iniziata nel 1973. In passato nemmeno i ritardi dell’azione governativa (nonostante il miglioramento degli strumenti utilizzati per l’interpretazione delle tendenze economiche), come nel caso francese fino all’adozione del piano Rueff, erano stati in grado di arrestare il processo

45Cfr. DEREK HOWARD ALDCROFT, L’economia europea dal 1914 a oggi, Bari, Laterza, 1981, pp. 285-320 e B. EICHENGREEN, La nascita dell’economia…, cit., pp. 171- 190.

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d’espansione economica in atto e ciò significava che qualcos’altro impediva all’economia di uscire dall’impasse.

Secondo quanto scritto da D.H. Aldcroft e da Eichengreen, fu il venire meno della straordinaria congiuntura che aveva segnato tutto il periodo precedente a limitare la ripresa economica e a far apparire come un’esperienza irripetibile l’eccezionale espansione conosciuta dall’Europa occidentale e mediterranea dalla fine del conflitto46. La convergenza di elementi come l’ampliamento delle

esportazioni, il recupero tecnologico e produttivo, i salari contenuti e gli investimenti fece da motore per la ripresa da tutte le turbolenze che avevano attraversato l’economia europea a partire dal dopoguerra, più di qualsiasi provvedimento di politica economica attuato.

Ma sul finire degli anni Sessanta la possibilità di recuperare sulla capacità produttiva e sulla tecnologia si erano quasi del tutto esaurite, così come la possibilità di frenare la pressione al rialzo dei salari. L’immissione degli immigrati nel mercato del lavoro non riusciva infatti a frenare la pressione salariale, poiché la posizione di non competizione non contribuiva al ribasso delle retribuzioni. Il rischio di una funzione destabilizzatrice in ambito sociale era invece forte, allorché il numero degli immigrati aumentava, senza che nessuna politica d’integrazione venisse approntata. L’indice di partecipazione degli immigrati alla forza lavoro nei principali stati europei alla fine degli anni Sessanta si attestava ormai a livelli molto alti (Graf.5.).

Graf.5 Immigrati nella forza lavoro dei principali paesi europei d'immigrazione alla fine degli anni Sessanta. Valori percentuali.

Fonte:S. CASTLES e G. KOSAK, Immigrazione e struttura…, cit. [mia elaborazione]

46D. H. ALDCROFT, L’economia europea…, cit., pp. 197-248 e B. EICHENGREEN, op. cit. 0 5 10 15 20 25 30 35 %

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Ancora nei primi anni del decennio, giacché il vecchio assetto economico non aveva ancora lasciato il posto alla nuova realtà e la crisi non era ancora esplosa, all’ulteriore aumento della produzione che si verificò tra il 1972 e il 1973 corrispose l’ingresso di molti lavoratori immigrati, tanto nella RFT che in Francia, nonostante sul flusso incidesse ormai il ricongiungimento delle famiglie. Immediatamente dopo questa fase espansiva vennero introdotte le misure restrittive. Allora, gli stranieri costituivano il 5% della popolazione tedesca e il 6,5% di quella francese.47 I provvedimenti ebbero gli effetti

desiderati negli anni immediatamente successivi al 1973. Nella RFT i saldi migratori divennero negativi, in Francia rimasero positivi, ma la loro consistenza calò vertiginosamente (Tab.6).

Tab.6 Saldo migratorio in Francia e RFT; 1970-1983. (Valori assoluti in migliaia)

Anno Francia RFT 1970 180 560 1971 143 453 1972 102 337 1973 106 387 1974 31 -9 1975 14 -198 1976 57 -72 1977 44 33 1978 19 116 1979 35 247 1980 44 312 1981 56 153 1982 37 -72 1983 16 -115

Fonte: GIORGIO GOMEL e SALVATORE REBECCHINI, Migrazioni in Europa: andamenti, prospettive, indicazioni di politica economia; nella collana, Temi di discussione del servizio studi, n.161, Banca d'Italia, 1992.

Il decennio si stava contraddistinguendo per la gravità delle sue crisi e una generale turbolenza interessava il mercato del lavoro e le relazioni industriali; ciò obbligava i governi ad affrontare la questione migratoria con più rigore, al fine di evitare di aggiungere ulteriori motivi di tensione tensioni sociali alla già precaria situazione che l’aumento della disoccupazione e le rivendicazioni salariali (sempre più stimolate dall’aumento dei prezzi) creavano. In un momento così difficile la svolta restrittiva era inevitabile, soprattutto per i paesi che contavano il maggior numero di ingressi e di

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presenze, anche perché già sul finire del decennio precedente, si era riscontrata la tendenza, durante le fasi economiche depressive ad un aumento della disoccupazione, soprattutto nella popolazione immigrata.

La tutela del lavoro nazionale appariva prioritaria e così, per tutti gli anni Settanta, i paesi d’immigrazione tentarono con vigore di opporsi all’arrivo di nuovi migranti, mettendo in campo anche misure per favorire il rientro di quanti già si erano stabilizzati sul territorio nazionale. Nel 1977 la Francia avviò un programma di incentivi finanziari per indurre la migrazione di ritorno, ma i risultati ottenuti furono molto scarsi, rispetto a quelli previsti (di 200 mila previsti, partirono l’anno successivo solo 45mila).48 Anche la RFT tentò nel 1982 e nel 1983 di incoraggiare il ritorno in patria degli

immigrati con incentivi finanziari, ma nessuno dei provvedimenti ebbe però un impatto significativo sulle tendenze dei movimenti migratori.

Accanto alla politica di incoraggiamento al rientro, si intensificarono le misure relative al controllo: furono introdotti visti per soggiorni superiori a tre mesi per i paesi non comunitari in Germania, così come condizioni d’ingresso sempre più severe, per i cittadini extracomunitari in Francia. Ma nonostante ciò, già pochi anni dopo il 1973 i numeri crebbero nuovamente, soprattutto nella Germania federale, superando nei primi anni Ottanta le cifre raggiunte all’inizio del decennio precedente (tabelle 11 e 12). Più elementi concorsero a mantenere vive le migrazioni.

Negli anni Settanta fu l’alta percentuale di familiari dei migranti già presenti sui territori nazionali a caratterizzare i flussi verso l’Europa occidentale: in Francia, tra 1975-1977, la loro quota sul totale si attestò al 64,5%, nello stesso periodo in Germania la percentuale fu del 60,6 %49.

Il dato risultava in linea con le scelte politiche che entrambi i paesi avevano fatto all’inizio del decennio. Le limitazioni riguardavano infatti le prime ammissioni di lavoratori, ma non si estendevano a quanti arrivavano per ricongiungersi con i propri familiari. Non mancarono però, anche in questo periodo, le immigrazioni di lavoratori, seppure la loro portata fosse nettamente inferiore a quella registrata in passato. Anche in questo caso, la manodopera che giungeva si inseriva nelle fasce marginali del mercato del lavoro per rispondere alla carenza di lavoratori nazionali rispetto alle posizioni lavorative più degradate, nonostante l’aumento della disoccupazione. La tendenza registrata in quel periodo in tutta l’Europa occidentale era infatti quella di preferire la disoccupazione all’impiego poco garantito, o mal remunerato o ancora pericoloso soprattutto tra i giovani, e di rimanere più a lungo in condizioni di non attività per tutti coloro i quali avevano accesso al sistema assistenziale che lo stato prevedeva in caso di perdita del lavoro.

Un’altra tendenza comune a tutti i paesi dell’Europa industrializzata si palesava con l’arrivo di una porzione significativa e in ascesa di cittadini extraeuropei, mentre erano in calo le migrazioni interne al continente. Sulla base dei dati di flusso, la quota dei migranti extra continentali diretti verso la RFT passò dal 37,5 al 50% tra il 1975 e il 1980. Un confronto sulla consistenza di popolazione straniera in

48Ivi, p. 126.

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Francia, in base ai dati censuari del 1975 e del 1982, conferma la stessa tendenza: la percentuale di africani passò dal 35 al 43%, mentre quella di cittadini comunitari scese dal 54 al 43%50. Il fenomeno

si manifestava in questi paesi, che già avevano approntato una regolamentazione alle migrazioni, con una portata relativa rispetto all’impatto maggiore che questo movimento di popolazione ebbe sugli impreparati stati mediterranei. Questi, mentre i tradizionali paesi d’immigrazione disciplinavano con maggiore rigore i flussi di migranti, dovettero affrontare un fenomeno del tutto nuovo. Nel momento in cui iniziarono a registrare saldi migratori positivi Spagna, Grecia, Portogallo e Italia non disponevano né degli strumenti di rilevazione, né della base giuridica di cui la Germania, la Francia e la Gran Bretagna si erano dotati prima e durante il periodo d’intensa immigrazione. L’avvento di un simile cambiamento in un momento in cui stavano mutando le basi della struttura economica in tutti i paesi e si modificava la composizione degli stessi flussi, rendeva la situazione ancora più complessa e problematica, aumentando la difficoltà d’interpretazione degli avvenimenti sia per i contemporanei, che per quanti si accingono oggi ad occuparsene.

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