VI. L’immigrazione straniera La clandestinità dell’ingresso e del lavoro
4. Roma e Milano, due realtà urbane a confronto
La Lombardia e il Lazio, mete privilegiate della vecchia immigrazione, rappresentarono anche per i migranti dei PVS le destinazioni più ambite. Qui, la popolazione straniera si concentrò quasi interamente nei grandi e avanzati centri urbani di Milano e Roma, per i quali la presenza d’immigrati poteva ritenersi la più antica e consolidata d’Italia. In entrambe le città, l’afflusso di cittadini provenienti dai PVS iniziò ad aumentare nel corso degli anni Settanta, mentre era in calo quello proveniente sia dal resto d’Italia che dai PSA. I dati di flusso dell’Anagrafe romana segnalavano il fenomeno chiaramente: le registrazioni dai paesi europei passarono tra il 1973 e il 1981 dal 52 al 36%, al contrario le registrazioni dal continente asiatico aumentarono nello stesso periodo dal 6 al 24% e quelle africane dal 15 al 18337. Nonostante ciò, la popolazione europea fu ancora la più consistente alla
fine del decennio.
I due centri non fecero eccezione rispetto alla situazione nazionale e anche lì non tardò a manifestarsi l’illegalità della presenza straniera. Tra il 1976 e 1978, il Censis stimò tra i 50-60 mila stranieri
335C
ENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., pp. 38-49 e Ministero Dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Disposizioni di massima sull’ingresso e soggiorno degli stranieri in Italia, Roma, 4 gennaio 1979. In archivio CSER, BA 17.10.I8.
336M. NATALE, Fonti e metodi…, cit., p. 192.
337ROSSANA ROSATI, L’immigrazione dall’estero a Roma nel decennio 1973-1982, in L’immigrazione straniera
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presenti a Milano, a fronte di una presenza ufficiale inferiore alle 40 mila unità in tutta la regione; pochi anni dopo, nel 1981, a Roma furono valutate tra le 73 e le 79 mila unità estere (per la regione tra le 77 e le 83 mila), mentre si aggirava intorno a 30 mila il numero dei censiti e a 57 mila quello con dei premessi di soggiorno in tutto il Lazio338. La presenza di irregolari poté attribuirsi quasi
esclusivamente alla componente formata dai cittadini dei PVS, per i quali la possibilità di entrare regolarmente come lavoratori in Italia era fortemente osteggiata dalla normativa in vigore. Diversa fu la situazione per i migranti provenienti dai PSA che, partendo da una posizione avvantaggiata, determinata dall’assenza di fattori costrittivi di tipo economico e da una maggiore tutela giuridica (ciò era valido soprattutto per i cittadini CEE), arrivarono in Italia in via del tutto regolare e qui godettero di condizioni retributive di evidente privilegio, legate all’elevato livello di professionalità posseduto. Nelle metropoli italiane erano concentrati il 70% degli impiegati privati e dei liberi professionisti e il 62% dei lavoratori domestici; ciò faceva emergere più che altrove le due facce dell’immigrazione339. Il
vantaggio giuridico e professionale dei cittadini dei PSA su quelli dei PVS si esplicò nelle modalità di coinvolgimento nel sistema economico. Il mercato del lavoro straniero presentava con maggiore evidenza un carattere fortemente dicotomico: la copertura dal punto di vista contrattuale e previdenziale fu quasi esclusivamente riservata alle professioni di alto livello, mentre in netta minoranza risultavano le professioni in cui ufficialmente venivano impiegati i lavoratori dei paesi del Terzo Mondo340. Nel 1978 fu supposto che nella città di Milano solo il 20% della manodopera
proveniente da PVS fosse tutelata e che in maggioranza si trattasse di addetti al settore domestico. La regolarità contrattuale risultò limitata per gli addetti alla ristorazione e al commercio, mentre del tutto irrisoria fu la percentuale della manodopera tutelata occupata nel settore secondario341. Il grosso del
fenomeno appariva sommerso e il coinvolgimento precario di lavoratori stranieri, perlopiù concentrati nel settore terziario, si mostrava esteso non solo nelle mansioni in cui pure esisteva una discreta componente legale, ma anche e soprattutto nelle attività meno frequentemente tutelate da contratti, prime tra tutte quelle del settore alberghiero, le occupazioni come personale di fatica e quelle come bassa manovalanza nell’edilizia. La forza lavoro del Terzo Mondo venne integrata, insomma, nel cosiddetto mercato del lavoro secondario, caratterizzato cioè da livelli di instabilità piuttosto elevati, retribuzioni generalmente basse e condizioni di lavoro gravose.
A Roma, ancora agli inizi degli anni Ottanta non fu rilevata la presenza di stranieri nell’industria, mentre a Milano, già pochi anni prima, furono noti casi di immigrati impiegati nel settore delle caldaierie e della metallurgia in genere e nel settore alimentare. Anche in questo caso però, il grosso del fenomeno sembrò rimanere sotterraneo, a causa delle reticenze dei datori di lavoro e dei lavoratori,
338Per le città di Milano e Roma le stime riportate sono state rispettivamente prese in CENSIS, I Lavoratori
stranieri…, cit., p. 46 e nel saggio di N. BERTOT, L’immigrazione straniera…, cit., p. 373. 339R. CAGIANO DE AZEVEDO, Breve analisi dei dati…, cit., p. 345.
340CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., p. 36. 341Ivi, p. 37.
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nonché per l’assenza dei sindacati nelle propaggini ultime delle attività produttive, come le piccole imprese o le imprese artigiane.
La possibilità di un coinvolgimento di manodopera clandestina nella produzione industriale venne intuita grazie alle indagini dell’Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia (IRER) e di Federmeccanica, che evidenziarono l’esistenza di una notevole entità di domanda di lavoro inevasa, soprattutto per le mansioni più gravose e insalubri del secondario. Inoltre, le prime avvisaglie di una dilatazione del processo di decentramento per settori come l’estrusione dell’alluminio, la micromeccanica, la metallurgia e le materie plastiche (i comparti più interessati dalla carenza di manodopera o da un veloce turn over) fecero sospettare al Censis che le unità fornitrici di precisi capitolati d’appalto per delle imprese committenti, reperissero parte della manodopera tra gli immigrati342. L’ipotesi di un coinvolgimento clandestino di lavoratori stranieri anche nel settore
secondario nell’hinterland milanese non trovò una base solida sulla quale appoggiarsi, ma non sembrò una congettura irragionevole, poiché un reclutamento illecito di forza lavoro operaia, al pari del “mercato delle braccia” di via Farini, sarebbe stato possibile, data la diffusione del problema dell’uso illegale di manodopera del Terzo Mondo. Ma il dubbio rimase e insieme ad esso l’unica vera certezza, ovvero che i lavoratori migranti dei PVS si concentrarono, in quel decennio, nei due più importanti centri urbani e nel settore terziario.
Il flusso migratorio di manodopera verso le due città si snodò seguendo due direttrici, una di diretta origine extra-comunitaria, l’altra attraverso approssimazioni successive. L’indagine svolta a Roma rivelò che per il 69% dei nati all’estero la capitale rappresentò il primo comune d’iscrizione in Italia, per il restante 31% fu una tappa successiva, raggiunta in seguito ad una prima iscrizione presso un altro comune italiano: nei due terzi dei casi l’emigrante giunse da un comune del Lazio, il restante terzo arrivò invece dalla Campania, dalla Lombardia e dalla Sicilia. Il flusso dall’estero avvenuto in forma diretta crebbe grazie alle sollecitazioni delle chiamate dei connazionali già presenti nei due centri e ciò avvenne, soprattutto, tra i migranti che percorsero distanze più lunghe, come nel caso dei filippini. Quello a tappe, invece, si svolse principalmente sulla scia del fenomeno dell’urbanesimo. Seguendo lo stesso principio che, già internamente e a livello internazionale, aveva mosso la popolazione italiana ed europea dalle zone rurali verso quelle cittadine l’emigrante dei PVS approdava nei centri urbani più importanti, con l’aspettativa di una migliore remunerazione. A differenza del fenomeno già noto per le migrazioni intereuropee e internazionali del periodo precedente agli anni Settanta, non fu lo sviluppo industriale ad attirare i nuovi migranti nelle metropoli, ma la terziarizzazione dell’economia343. Inoltre, in Italia, paese ormai ad un grado avanzato di sviluppo
342CENSIS, op. cit., pp. 41-42.
343Il chiarimento arriva grazie alle parole di Nora Federici, che a riguardo scrive: «I moderni flussi rurali-urbani hanno invece motivazioni complesse, che affondano le loro radici nella trasformazione produttiva e nell'evoluzione sociale che l'accompagna. Alla loro base ci sono difatti il processo di industrializzazione in un primo tempo e quello di terziarizzazione in un secondo tempo, processi che coincidono con due fasi successive e via via diverse dell'urbanizzazione.» N. FEDERICI, Movimenti migratori, aspetti generali, in
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industriale, era in atto da tempo la seconda fase dell’urbanizzazione, durante la quale si estese il numero delle città, di grande e media ampiezza, capaci di attirare dalla provincia la popolazione nazionale. La diffusione territoriale dell’urbanizzazione portò anche ad una dilatazione delle traiettorie dei flussi di cittadini stranieri verso altre regioni italiane in cui si trovavano grandi e medi centri urbani ‒ ma il fenomeno appartenne propriamente agli anni Ottanta e Novanta ‒, ma non fu questo l’unico motivo, come si vedrà nei capitoli successivi.
Alle diverse modalità d’arrivo dei cittadini del Terzo Mondo nelle metropoli, corrisposero delle differenze sul piano socio-professionale: per i migranti arrivati in seguito alla “chiamata” risultò più facile l’inserimento nel contesto urbano, mediato dalla comunità o dai legami che ne sollecitarono la partenza dal paese d’origine; i migranti giunti seguendo una scelta indipendente andarono incontro, invece, ad un contesto segnato da soluzioni professionali più arrangiate, dall’alta mobilità del lavoro, da tassi di clandestinità più elevati e connotati più marcati di marginalità economica e sociale344.
Grazie allo studio condotto sul territorio romano vennero colte delle ulteriori differenze tra le diverse nazionalità, questa volta in relazione all’estrazione sociale nel paese di provenienza: tra i filippini e gli egiziani risultarono livelli di studio elevati e/o esperienza lavorativa nel settore industriale; per la restante parte d’immigrati emersero livelli d’istruzione molto bassi o nulli e l’inesperienza lavorativa in settori diversi dall’agricoltura o dal terziario, in cui perlopiù svolsero mansioni in piccole imprese345.
Rispetto alla struttura demografica, sia a Roma che a Milano, in linea con quanto si verificò a livello nazionale, l’immigrato dal Terzo Mondo fu quello giovane e celibe/nubile, nondimeno la componente femminile fu più alta tra le cittadinanze filippina, etiope e capoverdiana e, al contrario, fu quasi del tutto assente nei flussi di lavoratori provenienti dal Nord Africa.
Tutti, indistintamente, vissero in condizioni di precarietà economica, alla quale conseguì l’emarginazione sul piano sociale. L’esclusione dal contesto sociale dello straniero proveniente dai PVS che si stabilì a Milano si realizzò in una vera e propria ghettizzazione in particolari zone della città: la zona di porta Venezia per gli eritrei (comunità più compatta e dunque meno sensibile all’emarginazione); la «nuova casbah» o la «la piccola Harlem» (tra corso Buenos Aires e la stazione centrale) per nordafricani, arabi e pakistani; in più, furono individuati alcuni punti d’avvio all’attività lavorativa dove la concentrazione di immigrati risultò notevole, come l’Ortomercato, lo scalo-merci Farini e le diverse stazioni ferroviarie346. Tanto nel centro lombardo quanto nella capitale, il problema
principale incontrato dagli stranieri ebbe a che fare con le condizioni abitative, di evidente disagio. La maggior parte di essi incappò nella riluttanza dei locatori a concedere i locali in affitto ai migranti, a causa delle poche garanzie economiche che quest’ultimi potevano fornire, ma anche per questioni di
http://www.treccani.it/enciclopedia/movimenti-migratori(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/. Consultato il 27 febbraio 2016, alle ore 16:45.
344Cfr. CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit. e N. BERTOT, L’immigrazione straniera…, cit., pp. 372-378. 345N. BERTOT, L’immigrazione straniera…, cit., p. 376.
346Sui quartieri in cui più evidente la popolazione straniera a Milano si veda CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., pp.34-35 e ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1971/1975, 13/016,9 parte II,
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costume. Nondimeno, qualora fossero riusciti a trovare un alloggio, i costi degli immobili nei grandi centri urbani risultavano comunque proibitivi per le disponibilità finanziarie dei singoli individui o di un solo nucleo familiare, cosicché le soluzioni abitative possibili furono: le grandi aggregazioni di uomini (per nazionalità o comunanza del lavoro) in singoli alloggi sovraffollati; il pernottamento in pensioni a basso costo e il ricorso a dormitori comunali o religiosi. Diversa fu la situazione per le collaboratrici domestiche, che coabitavano col datore di lavoro347.
La precarietà della posizione lavorativa della popolazione immigrata dal Terzo Mondo, per quanto apparisse più evidente e acquisisse maggiore risonanza nei due più importanti centri urbani d’Italia, apparve comunque diffusa anche in contesti territoriali completamente diversi. Il Friuli-Venezia Giulia e, come si noterà, anche la Sicilia ne furono la testimonianza.