IV. Il momento della transizione Il caso del Friuli-Venezia Giulia
5. La domanda di lavoro friulana incontra l’offerta jugoslava
Il Friuli-Venezia Giulia, trovandosi al confine orientale, visse inevitabilmente prima della maggior parte delle altre regioni italiane l’arrivo di migranti stranieri. Dopo una prima fase nella quale fu preponderante l’ingresso di rifugiati, iniziata dall’immediato dopoguerra e protrattasi fino ai primi anni Sessanta, già al volgere del decennio furono soprattutto lavoratori a oltrepassare il confine. Nella regione, che pure fino a pochi anni prima, e ancora a cavallo dei due decenni, aveva visto emigrare verso l’estero o verso l’area del triangolo industriale la propria popolazione, si riscontrarono carenze di manodopera, alle quali le ditte cercarono di sopperire richiamando forza lavoro dal vicino stato jugoslavo.
Il fatto si mostrava bizzarro alla luce della situazione occupazionale italiana, soprattutto meridionale, ma, ciononostante, molte imprese friulane del settore industriale lamentavano la scarsa disponibilità della manodopera nazionale ad accettare i lavori disponibili.
Nel 1971, nella richiesta inviata al Ministero dell’intero dall’impresa di costruzioni “Mari &Mazzaroli”, per ricevere i nulla osta per l’assunzione di 20 operai jugoslavi, la stessa segnalava che «nonostante le insistenti richieste di operai rivolte al locale Ufficio del lavoro [la ditta] non è riuscita a completare gli organici, in quanto non esiste nessuna disponibilità»210. Pochi giorni più tardi giungeva
presso lo stesso Ministero il parere favorevole a tale assunzione da parte della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trieste, che poneva così la questione: essendo affidata «alla suddetta impresa l’esecuzione dei lavori di scavo e reinterro per la messa in funzione del nuovo acquedotto e della metanizzazione della rete urbana, e data la situazione di carenza di manodopera per tali lavori, come è stato confermato dall’Ufficio del lavoro, si esprime parere favorevole all’accoglimento della relativa domanda, tanto più che trattasi di assunzioni a carattere temporaneo»211.
Altre imprese di costruzione manifestarono contemporaneamente la difficoltà di reperire manodopera nazionale da integrare negli organici212, e non era solo l’assenza di bassa manovalanza a rappresentare
un problema. Per la costruzione di una chiesa a Cave del Predil venne infatti richiesta l’assunzione di carpentieri, manovali specializzati e ferraioli. In questo caso fu addirittura il comitato provinciale della Democrazia Cristiana di Udine ad inviare al Ministero dell’interno una lettera, contenete l’esplicita richiesta di concedere celermente il nulla osta per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, poiché l’Ufficio provinciale del lavoro aveva rilasciato le autorizzazioni, ma la pratica si stava mostrando piuttosto lunga. Anche se la trafila burocratica prevista dalla normativa osteggiava la velocità della concessione dei visti, non sembrava fosse questo però il punto sul quale la lettera premeva. L’autore, il Dott. Giorgio Santuz, si soffermò su una questione che, a quanto pare, iniziava ad attirare l’attenzione
210ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44, 1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori
frontalieri, b. 298, fasc. 13504(4).
211Ibidem.
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delle istituzioni: l’aumento della disoccupazione nazionale e il rifiuto di alcune posizioni. Scriveva a riguardo: «ci si potrà obiettare che c’è disoccupazione in Italia, ma lassù non va nessuno a lavorare a causa dei disagi e della brevità della stagione utile al lavoro edilizio»213.
Quest’ultimo frammento di testo, se guardato alla luce di quello già citato in precedenza e dei molti altri ancora presenti tra i documenti ministeriali, rivela alcuni dettagli di non poco conto. La temporaneità dell’occupazione nell’edilizia, come in altri settori, 214 sembra rappresentare un
argomento valido per la concessione dei visti agli stranieri e allo stesso tempo un problema rispetto alla possibilità di reperire manodopera sul territorio nazionale. Il primo dei due aspetti risulta essenziale per comprendere quale atteggiamento la Pubblica amministrazione stesse assumendo di fronte alla necessità di richiamare forza lavoro dall’estero, accordando la propria preferenza alla provvisorietà della presenza straniera (come accadde nella RFT). Il secondo indica, invece, uno dei motivi del rifiuto posto dai lavoratori nazionali alle mansioni proposte. Ma quest’ultimo fatto appare strano se si considera la propensione alla pendolarità mostrata dal migrante meridionale, disposto a recarsi stagionalmente all’estero ancora in quegli anni; e se si tiene in considerazione che l’industria delle costruzioni ancora a cavallo dei due decenni rappresentava la principale porta d’accesso, per quanto precaria, per l’inserimento dei lavoratori agricoli nell’economia settentrionale. La questione risulta ancora più singolare se si pensa che in contemporanea, sempre nel Friuli-Venezia Giulia, vennero avanzate richieste per l’impiego di personale più stabile nell’industria mineraria e metallurgica e nei settori ausiliari del secondario215.
La ditta “AMMI” nel 1970 avviò la procedura di richiesta di nulla osta per 80 operai jugoslavi da impiegare nella miniera di Rabil (Cave del Predil) per lavorazioni nel sottosuolo. La stessa impresa, in una corrispondenza successiva, spiegava l’urgenza di ricevere una risposta affermativa, altrimenti l’intero ciclo produttivo si sarebbe arrestato. Il problema era sempre il reperimento di lavoratori locali in sostituzione di quelli che nel corso degli anni avevano abbandonato la miniera. Per lo stesso motivo venivano avanzate istanze di assunzione di lavoratori slavi dalle acciaierie Weissenfels e dalla ditta O.R.E.M. (che si occupava della demolizione di navi). Le aziende ricercavano particolarmente manovalanza generica, ma non mancavano i saldatori e i “bruciaferro” nelle liste dei nomi presentate al Ministero.
La causa risiedeva principalmente nella progressiva liberazione di alcune posizioni da parte dei vecchi lavoratori, che avevano abbandonato la miniera non solo per motivi di anzianità, ma anche per la durezza di certi impieghi a loro soliti. In particolare, da quanto emergeva dai rapporti delle ditte, erano
213 ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44, 1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori
frontalieri, b. 298, fasc. 13504(4).
214 Antonio Ventura, titolare della ditta “Manutenzione Stabilimenti Industriali”, scriveva nella lettera inviata al Ministero dell’Interno per l’ottenimento dei nulla osta per l’assunzione di 21 manovali generici jugoslavi: «si chiarifica che l’assunzione di detti operai è subordinata ai lavori improvvisi (apertura per pulizia serbatoi, caldaie, arrivo di navi) ed è di breve durata (da uno a dieci giorni) e quindi viene fugato il pericolo che i manovali abbiano da risiedere in loco per lunghi periodi di tempo». ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli
correnti dal ’44, 1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori frontalieri, b. 298, fasc. 13504(4).
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stati gli uomini nella fascia d’età forte ad allontanarsi dalle occupazioni riguardanti lavori nel sottosuolo per trovarne altri meno degradanti. Il fatto si presentava in linea con la realtà del mercato del lavoro italiano del tempo. Infatti, per quanto problemi occupazionali si stessero manifestando con una certa rilevanza nell’economia nazionale, questi riguardavano quasi esclusivamente le forze di lavoro marginali e i cittadini meridionali. Centrale sembrava dunque essere il rifiuto specifico di alcune posizioni.
La Camera di commercio di Trieste, nella nota di consenso all’assunzione di 21 manovali jugoslavi presso la ditta di manutenzione e pulizia di stabilimenti industriali del Sig. Antonio Ventura, che operava anche nel campo «di carico, scarico e accatastamento di materiali, della pulitura di caldaie e serbatoi, di fognature e cloache, nonché di carri ferroviari e carri di bestiame»216, adduceva come
motivazione della difficoltà di reperire manodopera la particolare gravosità dei lavori offerti. Ma la ritrosia mostrata dalla popolazione italiana ad accettare le occupazioni più pesanti veniva riscontrata da più parti217, e anche il Ministero del lavoro rintracciava in questo motivo la causa della
indisponibilità nazionale. Scrisse infatti il suddetto Ministero in un documento inviato nel maggio del 1971 al Ministero degli affari esteri:
la ricerca di manodopera nazionale disposta ad accettare un’occupazione nella regione Friuli- Venezia Giulia, malgrado gli sforzi compiuti e l’ampia pubblicità data alle offerte di lavoro pervenute, ha dato esito negativo. La riluttanza dei lavoratori ad occupare i posti offerti è dovuta al fatto che gran parte delle offerte d’impiego riguardano lavori pesanti e faticosi, che si svolgono non di rado nel sottosuolo.218
Ma ancora una volta era la situazione di precarietà che caratterizzava il Mezzogiorno in quegli anni e che continuava a far proseguire i flussi migratori a rendere poco chiara la mancata disponibilità di lavoratori nazionali per queste posizioni. Altre erano probabilmente le cause soggiacenti a questo rifiuto generalizzato.
Ognuna delle imprese provò ad indicare quali motivazioni stessero impedendo l’incontro tra la domanda friulana e l’offerta di lavoro nazionale. La ditta Weissenfels, ad esempio, giustificava il fenomeno in questi termini:
i nostri stabilimenti sono ubicati in zona montana (a circa m. 850 s.l.m.), dove per oltre sei mesi all’anno c’è la neve e conseguentemente clima rigido ˗ difficilmente quindi lavoratori
216ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44, 1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori
frontalieri, b. 298, fasc. 13504(4).
217Ad esempio la Questura di Trieste, scrivendo al Ministero dell’Interno, esprimeva parere favorevole per l’assunzione di 18 cittadini jugoslavi presso la ditta “Eugenio Cavazzoni”, concessionaria della cernita delle immondizie, avallandone le ragioni. La ditta motivava tali assunzioni, secondo quanto riportato nel documento della Questura, con «l’impossibilità di reperire manodopera in campo nazionale in considerazione del carattere di particolare repulsività del lavoro da svolgere». ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44, 1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori frontalieri, b. 298, fasc. 13504(4).
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provenienti da zone temperate si adattano. […] La nostra azienda ha saturato con il personale in forza tutte le possibilità ricettive, sia proprie che di terzi, esistenti nella zona e quindi non è possibile […] procurare ad altri lavoratori le indispensabili abitazioni sia per famiglie che per singoli operai. […] I nostri stabilimenti si trovano a circa 3 km dal confine italo-jugoslavo e nell’aera di circa 20 km da questo si trovano parecchi paesi jugoslavi […] dai quali è estremamente agevole fare giornalmente confluire e defluire con corriere jugoslavo il personale necessario, […], non si viene così a creare per noi il gravissimo problema degli alloggi.219
La difficoltà di adattamento al clima, fattore certamente valido, non poteva da solo giustificare la mancata mobilità di manodopera dalle regioni a “clima temperato” (palese era il riferimento ai lavoratori meridionali); più importante appariva invece il problema degli alloggi. Tutte le aziende indicate e anche la Pubblica amministrazione riconoscevano nell’insufficienza di abitazioni la principale causa del rifiuto e una simile constatazione risultava più che plausibile, considerato che la spesa statale per gli alloggi era stata minima e che già in altri contesti questa scelta si era dimostrata non priva di conseguenze. L’Italia proprio in quegli anni sperimentava infatti un’intensa agitazione sociale e operaia nell’area centro-settentrionale, che in parte era stata alimentata dalla precarietà della condizione abitativa alla quale i migranti meridionali erano costretti da tempo e che non erano più disposti a tollerare.
Gli organi amministrativi dello Stato si dimostravano perfettamente consapevoli del carattere paradossale di quanto si stava verificando in Friuli-Venezia Giulia, dal momento che ancora tanti italiani si dirigevano all’estero a cercare un’occupazione; altresì riconoscevano nella questione degli alloggi il principale ostacolo allo spostamento dei flussi dei disoccupati e dei lavoratori precari verso quell’area220. A tal proposito l’Ufficio centrale dei problemi delle zone di confine, che conosceva bene
i limiti presentati dal territorio friulano, auspicava l’intervento statale per sopperire alle inefficienze abitative. Lo stesso Ufficio, scriveva in una nota riservata inviata al Ministero degli affari esteri, a quello del lavoro e alla Presidenza del consiglio dei ministri:
Il fenomeno (dell’immigrazione) trova la sua principale origine nella reale indisponibilità “in loco” di manodopera italiana, sia a causa di non sempre allettanti salari offerti in taluni settori lavorativi, sia perché il tuttora incompleto sviluppo industriale della Regione non consente l’occupazione di interi nuclei familiari che possano così far fronte, con i comuni guadagni, all’alto costo degli alloggi. […] Non dovrebbe mancare, pertanto, da parte degli Organi statali
219ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44, 1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori
frontalieri, b. 298, fasc. 13504(4).
220 In una nota dell’Ufficio centrale per i problemi delle zone di confine (Ministero dell’Interno) la questione veniva così posta: «ogni ulteriore attività di promozione industriale attuata localmente non potrà che accentuare il fenomeno della richiesta di manodopera jugoslava, maggiormente propensa ad accettare più modeste condizioni di lavoro, retributive e ambientali, per cui occorre porre in essere tempestive e concrete misure indirizzate a favorire il flusso verso le Province di cui trattasi, di manodopera nazionale reclutata nelle altre Province, ovvero procurata col ritorno in patria dei lavoratori italiani della zona attualmente all’estero». ACS,
Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1967/1970, 13/016,7 parte III(5), Stranieri in Italia, b.326, fascicolo 13396/96, 9 novembre del 1970.
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e regionali competenti la contestuale predisposizione di adeguati interventi, specialmente attraverso la costruzione di alloggi di tipo popolare, onde realizzare condizioni di ambiente tali da favorire l’auspicato afflusso di lavoratori italiani e consentire lo stabile insediamento dei gruppi familiari immigrati, controbilanciando così, sul piano del locale assetto etnico, i segnalati incrementi numerici del gruppo sloveno.221
Nonostante la situazione descritta in questo inciso sembri chiudere definitivamente la partita, spiegando perché al momento in cui si è generata una determinata domanda non è pervenuta alcuna risposta affermativa dai lavoratori nazionali, le argomentazioni non sembrano ancora del tutto convincenti. Poiché ciò che sappiamo rispetto ai migranti è che l’impossibilità di trasferire la famiglia in linea di massima non aveva rappresentato un elemento condizionante rispetto alla partenza, ma anzi un incentivo a programmare il proprio percorso migratorio secondo un meccanismo di stagionalità. Anche la miseria del salario non sembra una giustificazione del tutto persuasiva, dal momento che la situazione reddituale dei meridionali, migranti e non, dipendeva strettamente dalla diversificazione delle fonti di reddito, tutte relativamente misere. Infine, il fatto che i nuovi flussi che in quegli anni partivano dal Mezzogiorno erano composti prevalentemente da giovani con aspettative e ambizioni più alte rispetto al passato, non escludeva che non ci fosse più nessuno disposto a vivere in condizioni di disagio pur di lavorare, quando al Sud ancora tanta miseria accompagnava l’innalzamento degli standard di vita. Naturalmente non tutti coloro che ancora si trovavano nelle campagne meridionali in condizioni di totale marginalità economica e sociale progettavano di spostarsi, ma che proprio nessuno fosse disposto a spostarsi risulta molto strano.
Un altro elemento già evidenziato nel capitolo precedente, ma che non compare tra le carte ministeriali, può spiegare definitivamente la mancata risposta dei lavoratori nazionali alla richiesta friulana: il distacco dei lavoratori meridionali dall’apparato burocratico preposto al coordinamento della forza lavoro. Com’è stato chiarito, il Ministero del lavoro e gli Uffici provinciali di collocamento non riuscirono mai a controllare i flussi di lavoratori meridionali; gli spostamenti venivano indirizzati invece dalle “catene di richiamo”, fondate su rapporti di parentela e di compaesanità. Il Friuli-Venezia Giulia, durante tutta la fase di espansione dell’emigrazione, non era diventata una destinazione per quanti partivano dal Mezzogiorno (era anzi un luogo d’emigrazione), mancava perciò di quelle reti autonome capaci di garantire al migrante non solo l’inserimento nel contesto economico locale, ma anche un’agevolazione rispetto all’alloggio e all’inserimento sociale.
L’area friulana, del tutto estranea al migrante meridionale, non lo era invece per quello jugoslavo, che grazie alla vicinanza geografica e alla comunità di connazionali già presenti si trovava nettamente avvantaggiato rispetto alle possibilità di venire a conoscenza delle occupazioni disponibili, come era anche favorito nella capacità di spostarsi come pendolare, evitando il problema dell’alloggio. Ma gli organi del Ministero dell’interno, come traspare dalle ultime righe dell’ultimo frammento citato,
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inevitabilmente si muovevano ancora nell’ottica di mantenere l’ordine pubblico e proprio in relazione a questo si prodigava perché venissero intraprese iniziative di natura economica, volte a scongiurare la crescita della componente slava sul territorio nazionale. In più occasioni il Ministero dell’interno assieme al Ministero degli affari esteri chiesero espressamente a quello del lavoro (direttamente competente in materia) di dare conto delle proprie valutazioni e di avviare progetti che permettessero di porre un limite all’ingresso di lavoratori stranieri, reindirizzando la forza lavoro nazionale222. Ma
(da quanto emerge dai documenti a disposizione), la stretta cooperazione tra i primi due ministeri non sembrava riproporsi con il terzo, dal quale pervenivano poche risposte.