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I. L’Europa del dopoguerra e le migrazioni internazionali

4. Nuovi paesi d’immigrazione

Restituire il quadro particolare delle esperienze migratorie degli stati euro-mediterranei risulta difficile, soprattutto in relazione ai primi anni, durante i quali solo lentamente si prese coscienza del cambiamento di posizione nel contesto delle migrazioni internazionali. La carenza di fonti statistiche e di studi dettagliati del primo periodo si è, infatti, inevitabilmente posta come ostacolo alla comprensione rigorosa del fenomeno. Non potendo intraprendere in questa sede uno studio dettagliato di queste esperienze, si tenterà attraverso i pochi elementi reperiti di riassumere brevemente le tendenze degli anni Settanta e di comprendere quali fattori risultarono determinanti nel modificare la direzione dei flussi.

Il decennio si distinse come un periodo di svolta per tutti paesi europei. L’impianto economico e politico che aveva sostenuto la crescita in tutto il ventennio precedente era ovunque in trasformazione. Gli stati europei che tradizionalmente erano stati destinazione di immigrati, in conseguenza delle modificate condizioni economiche e dell’aumento delle tensioni sociali, indirizzavano in senso restrittivo la politica relativa all’ingresso e al soggiorno di lavoratori stranieri. Contemporaneamente, i paesi d’emigrazione, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l’Italia, iniziarono a registrare saldi migratori positivi.

L’estensione dei flussi migratori internazionali verso i paesi dell’Europa mediterranea non fu immediatamente consistente: l’inversione del segno dei saldi migratori dipese più dalla netta

50GIORGIO GOMEL e SALVATORE REBECCHINI, Migrazioni in Europa: andamenti, prospettive, indicazioni di

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diminuzione dei flussi in uscita che dall’aumento di quelli in entrata. La Grecia, ad esempio, dal 1971 cominciò a manifestare un calo nelle partenze e nel 1974 il volume degli espatri era diminuito dell’84,4%. Negli altri paesi la situazione si presentava simile. Gli espatri diminuirono costantemente sia in Spagna che in Portogallo. In tutti e tre i casi, sullo sfondo della nuova tendenza si trovavano le mutate condizioni economiche interne, migliori rispetto al passato, e le limitazioni poste all’immigrazione nei principali paesi europei di destinazione. La diminuzione drastica dei flussi verso gli altri stati del continente caratterizzò, infatti, la vicenda migratoria dei paesi mediterranei in questo periodo.

Sia in Grecia che in Portogallo, al ridimensionamento delle migrazioni intereuropee si contrappose l’aumento dei flussi transcontinentali, ma la loro consistenza fu molto ridotta rispetto a quelli dei decenni precedenti. Per la Spagna molto importante risultò l’apporto fornito dai rimpatri all’inversione del saldo migratorio (si dispone in questo caso dei dati relativi al bilancio espatri-rimpatri)51. Nello

stesso periodo, i tre paesi iniziarono a registrare la presenza e l’arrivo di un numero crescente di lavoratori stranieri sul territorio nazionale. In Grecia, i permessi di soggiorno rilasciati per motivi di lavoro passarono da 6.982 del 1973 a 20.706 nel 1978. In Spagna, secondo le stime ufficiali, il numero di immigrati regolarmente residenti si attestò nel 1977 intorno alle 162.000 unità, con concentrazioni maggiori nelle aree industriali di Barcellona e Madrid. Il Portogallo contò per gli stessi anni circa 44 mila lavoratori stranieri ufficiali.

Per quanto riguarda la composizione dei flussi, ufficialmente, nessuna nazionalità risultava preponderante. Tuttavia, osservando i dati disponibili relativi ai permessi di lavoro rilasciati dalla Grecia e dalla Spagna nel corso degli anni Settanta, si assisteva ad una diminuzione o stabilità della presenza di cittadini di altri paesi europei, in contrasto con la crescita dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia.

In linea con quanto già si stava verificando negli stati dell’Europa occidentale, anche in questi paesi venne registrata la tendenza alla crescita dell’immigrazione clandestina. Lo studio condotto dalla Direzione Generale della Sicurezza spagnola sulla popolazione straniera regolarmente residente, affermava l’impossibilità di effettuare un calcolo preciso sulla popolazione immigrata, a causa della presenza di una folta porzione di clandestini tra i migranti. Lo studio fondava la certezza di quell’affermazione su una ricerca effettuata nell’area di Barcellona: le 60.000 presenze di nazionalità marocchina rilevate si contrapponevano al dato ufficiale di sole 570 unità residenti. Nello stesso periodo, per la Grecia e il Portogallo una stima, riportata da Claudio Calvaruso, valutava un numero di clandestini che si aggirava rispettivamente tra le 50-100 mila e le 10-20 mila unità.

Rispetto alla posizione professionale, le informazioni disponibili sulla Grecia e sulla Spagna indicano che la manodopera straniera regolare e clandestina veniva impiegata in settori di lavoro che non

51Per tutti i dati relativi ai flussi migratori di questo paragrafo si fa riferimento al testo di C. CALVARUSO, I

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richiedevano alcuna qualifica e che venivano abbandonati dalla forza lavoro locale. In particolare, in Grecia nella pesca e nella collaborazione domestica, in Spagna nel settore dell’edilizia.

La trasformazione intervenuta dipese, come già negli altri stati europei, dalla crescita sostenuta. Iniziata negli anni precedenti, l’espansione delle economie periferiche fu fondata sugli stessi capisaldi delle economie vicine, malgrado il ritardo. L’apertura del mercato, la riserva locale di manodopera a basso costo, ma anche le possibilità offerte dagli ampi margini di recupero permisero, soprattutto nella penisola iberica, di registrare indici di crescita elevati, nonostante le scelte in materia di politica economica non fossero del tutto in linea con quelle prese negli altri paesi europei. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’adesione all’ Efta del Portogallo, il Programma di stabilizzazione e la riforma del commercio della Spagna e la negoziazione di un accordo di associazione che liberalizzava il commercio con la CEE della Grecia, estendevano alla periferia europea i benefici che l’economia di mercato faceva già da tempo registrare ai paesi del blocco centrale, in termini di sviluppo economico e industriale52.

Ai principi dei primi anni Settanta, come nel resto d’Europa, il tasso di disoccupazione in Spagna e in Portogallo era basso, inferiore ai 3 punti percentuali. Dopo la crisi del 1973 la disoccupazione iniziò a crescere. Nello stesso periodo principiarono i flussi in entrata di lavoratori stranieri. Il fatto, in questo caso, sembra cozzare con le esigenze del mercato del lavoro. Lo stretto legame tra l’avvio di canali migratori e le esigenze delle economie nazionali, che risultava evidente per la Francia e la Germania, vacilla alla luce dei dati ufficiali sull’occupazione nazionale dei due paesi iberici.

Infatti, pensare questi nuovi flussi negli stessi termini, con i quali si sono lette le esperienze migratorie europee fino alla svolta restrittiva, appare inappropriato: la decadenza del vecchio sistema produttivo, la crisi economica e i cambiamenti nella composizione dei flussi delineano un quadro nuovo, in cui si mantengono alcune caratteristiche del passato e se ne profilano delle nuove, in cui non sempre è facile orientarsi. Da ciò deriva la necessità di analizzare quali furono le condizioni economiche specifiche che prepararono il terreno su cui poi prosperò l’afflusso di cittadini stranieri dagli anni Ottanta in poi. Per il momento, la questione rimarrà aperta. La breve digressione sullo stato delle migrazioni in Spagna, Portogallo e Grecia, ha, in realtà, il solo scopo di chiarire l’estensione del fenomeno e il contesto generale in cui si colloca l’esperienza italiana.

Riflessioni conclusive

Alla luce di quanto scritto è possibile giungere ad alcune considerazioni generali sulle migrazioni europee del secondo Novecento. Queste si caratterizzarono, anzitutto, come migrazioni da paesi economicamente poco avanzati verso gli stati più industrializzati del continente.

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Le aree di partenza, come l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, il Marocco, la Turchia etc., si diversificavano per molti aspetti, tuttavia, erano accomunati dall’aumento naturale della popolazione e da un basso reddito pro capite, distribuito in modo disuguale. Alla forte pressione demografica e al livello di reddito molto basso si univa inoltre un tasso di disoccupazione elevato. In tutti questi paesi la rivoluzione industriale capitalistica aveva, infatti, sconvolto i sistemi tradizionali di produzione, provocando l’abbandono delle vecchie occupazioni: fu soprattutto il settore primario a perdere lavoratori. Il nuovo sistema produttivo, ancora in costruzione, non era però in grado di assorbire tutta la forza lavoro liberata dall’agricoltura e perciò la disoccupazione cresceva.

Ma gli elementi appena indicati, ovvero la disoccupazione, la povertà e il sovrappopolamento, avrebbero rappresentato solo degli stimoli “potenziali” all’emigrazione, se dall’altra parte del confine non ci fosse stato un mercato del lavoro pronto ad accogliere la manodopera liberata dal processo di ristrutturazione e nel quale era possibile individuare un miglioramento delle condizioni economiche. L’impulso alla partenza arrivò dunque dagli stati dell’Europa occidentale, economicamente avanzati. In paesi come la Francia o la RFT, inizialmente (negli anni Cinquanta), fu nel settore primario che si crearono delle opportunità occupazionali, soprattutto stagionali, per la manodopera straniera, a causa della forte carenza di forza lavoro locale disponibile, riscontrata in seguito allo spostamento dei lavoratori nazionali dall’agricoltura all’industria. Dagli anni Sessanta, invece, furono la mobilità verticale all’interno del settore secondario e il progressivo passaggio al terziario a liberare spazi lavorativi nelle posizioni inferiori del processo di produzione.

L’abbandono delle occupazioni meno qualificate e retribuite avrebbe rappresentato un problema grave per la produzione e per i profitti delle imprese, qualora la sostituzione con la manodopera immigrata non si fosse verificata: i salari sarebbero aumentati velocemente al gradino più basso, aumentando i costi di produzione e riducendo di conseguenza i profitti53. Fare affidamento su una forza lavoro

pressoché illimitata e poco tutelata, come quella immigrata, era, dunque, conveniente e, forse, indispensabile per gli imprenditori. Ma anche i governi si mostrarono favorevoli all’apertura del mercato del lavoro nazionale nei confronti dei lavoratori stranieri, attivando in alcuni casi dei veri e propri sistemi di reclutamento. L’azione governativa era guidata principalmente dalla consapevolezza che l’integrazione di forza lavoro dall’estero sarebbe stata complementare e non sostitutiva rispetto a quella locale; inoltre, essa si sarebbe tradotta in uno svantaggio in termini salariali solo per i pochi lavoratori nazionali che occupavano le stesse posizioni disponibili per i migranti. In più, l’arrivo di lavoratori stranieri avrebbe permesso di rallentare la crescita delle retribuzioni nelle posizioni più elevate, mantenendo stabile uno dei fattori su cui la crescita si fondava.54

53S. CASTLES e G. KOSAK, Immigrazione e struttura…, cit., p. 385.

54Uno studio condotto da Jones e Smith in Gran Bretagna, ha mostrato come l’impatto dell’assunzione di manodopera straniera sui salari non sia omogeneo, ed infatti in molte delle occupazioni in cui erano concentrati cittadini del New Commonwealth, tra il ’61 e il ’66, si era registrato un aumento salariale superiore alla media. Da ciò i due studiosi hanno dedotto l’impossibilità di calcolare gli effetti dell’immigrazione e l’impatto generale sui salari. Gli stessi non hanno però escluso la possibilità di condurre un simile calcolo sui singoli casi per dedurre le tendenze generali. Lo studio è riportato in S. CASTLES e G. KOSAK, Immigrazione e struttura…, cit..

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È possibile asserire, a questo punto, che l’elemento dinamico che determinò il volume dei flussi migratori, almeno fino agli Settanta, fu il mercato del lavoro.

Passando, invece, in rassegna la condizione professionale e sociale del lavoratore migrante nei paesi d’arrivo, si è riscontrata una situazione prevalente: la maggior parte della forza lavoro immigrata era impiegata in un lavoro dipendente, quasi sempre collocato al gradino più basso della scala socio- professionale. Nel 1968 il 92,3% degli stranieri attivi in Francia percepiva un salario, mentre il tasso di lavoratori salariati sul totale della popolazione attiva era del 75%55. Circa il 70% della manodopera

immigrata era impiegata nei settori dell’edilizia e dell’industria. Nella RFT la percentuale negli stessi settori raggiungeva l’80%.

Diversi erano i fattori che contribuivano a relegare gli immigrati nelle mansioni inferiori, che richiedevano una scarsa o nessuna qualifica. Innanzitutto c’era l’effettiva mancanza di preparazione ad affrontare lavori più complessi. La forza lavoro immigrata proveniva soprattutto da zone rurali o scarsamente industrializzate e non aveva mai lavorato in imprese moderne. Il livello d’istruzione era solitamente molto basso o inesistente; e anche se in possesso di una qualificazione, questa risultava insufficiente per le mansioni non generiche dei paesi più avanzati56.

L’altro elemento non trascurabile, che manteneva in condizione subordinata gli immigrati, dipendeva direttamente dal progetto migratorio del migrante. L’aspettativa iniziale del lavoratore era quella di emigrare solo temporaneamente nei paesi che gli garantivano un’occupazione e una retribuzione maggiore di quella a cui avrebbero potuto aspirare nel paese d’origine. L’effetto dell’intenzione di tornare in patria, per reinvestire i risparmi che sarebbero stati messi da parte, si traduceva nella noncuranza nei confronti dell’apprendimento della lingua o dell’integrazione e nella disponibilità ad accettare orari di lavoro eccessivi, senza alcuna tutela, purché dessero un guadagno aggiuntivo. Solo secondariamente, dopo lunghi periodi di permanenza nei paesi ospitanti, tanti sceglievano di stabilirsi definitivamente, facendo arrivare anche i propri familiari57.

Da ultimo ci sono le scelte politiche e imprenditoriali, forse più importanti per la loro incidenza sulla posizione dell’immigrato nella stratificazione del lavoro. Queste, almeno fino alla prima metà degli anni Sessanta, si intrecciarono, favorendo l’arrivo e l’impiego di manodopera immigrata in funzione dell’espansione dell’economia e della produzione. L’apertura degli stati nei confronti dell’ingresso di lavoratori stranieri si distinse nella forma in cui venne attuata nei diversi paesi, a seconda dei bisogni economici e demografici che questi presentavano. La Francia optò sin da subito per lo stanziamento permanente di una quota numerosa di lavoratori immigrati, favorendo anche l’arrivo dei familiari, per ovviare alle strutturali carenze demografiche. La RFT decise invece di regolare i flussi in modo tale da garantire una presenza temporanea degli immigrati sul suolo nazionale. Il sistema applicato prevedeva una rotazione continua della manodopera, che allo stesso tempo favoriva la mobilità e l’elasticità nel mercato del lavoro e scongiurava per lo stato i costi della tutela e dell’integrazione. Questo tipo di

55Ivi, p. 70. 56Ivi, pp. 80-92. 57Ibidem

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gestione ebbe un successo relativo, se si considera che dalla metà degli anni Sessanta anche la RFT iniziò a muoversi nella direzione dell’integrazione, aprendo le porte ai familiari dei molti lavoratori che, attraverso il rinnovo del permesso di soggiorno e di lavoro, si erano ormai stabiliti permanentemente nello stato.

Ad ogni modo, il lavoratore migrante rappresentò per gli stati dell’Europa occidentale una risorsa, dal momento che senza di esso sarebbe stata più incerta l’espansione economica. Ma l’ampiezza del flusso migratorio dei lavoratori comportò notevoli difficoltà per la gestione politica del fenomeno. I governi dei paesi europei d’immigrazione, intenti a regolare la vita economica e politica dei rispettivi stati, non sempre riuscirono a imprimere ai flussi la forma più confacente alle esigenze dell’una e dell’altra. Gli strumenti di cui si dotarono Francia e Germania per regolamentare l’arrivo di lavoratori stranieri, ad esempio, si mostrarono alla lunga inefficaci rispetto ai bisogni espressi dal mercato del lavoro e, di conseguenza, inappropriati rispetto alla volontà statale di inserire l’utilizzo di manodopera migrante nella programmazione politica dell’economica.

Inoltre, la lunga presenza ininterrotta di molti lavoratori immigrati e delle loro famiglie fece in modo che il l’immigrazione riguardasse sempre più da vicino le società dei diversi stati, obbligando gli stessi a prendere coscienza della necessità di una regolazione dei flussi che non si facesse sopraffare dalle sole utilità economiche. Le posizioni assunte dai principali paesi d’immigrazione, benché differenti in origine, si andarono, così, sempre più allineando in favore dell’integrazione di quanti già si trovavano sui territori nazionali. Progressivamente, i governi di Gran Bretagna, Francia e Germania maturarono normative più rigorose sull’ingresso e il soggiorno di cittadini stranieri, volte a scoraggiare l’arrivo di nuovi migranti. Ciò avvenne soprattutto in seguito al mutato clima economico continentale.

La svolta restrittiva dei tradizionali paesi d’arrivo europei coincise con un evento quasi inaspettato: la registrazione di saldi migratori positivi negli stati dell’Europa mediterranea. La Spagna, la Grecia o anche l’Italia erano stati fino ad allora tra i maggiori paesi esportatori di manodopera. Rispetto all’immediato dopoguerra tali stati avevano lentamente visto migliorare la loro situazione economica e fu questo elemento a contribuire efficacemente ad una progressiva diminuzione dei flussi migratori in uscita. Ma al principio degli anni Settanta, mentre si contraeva l’emigrazione, si assistette all’arrivo di lavoratori stranieri, provenienti, in misura sempre più consistente, da paesi extraeuropei.

I flussi da questi ultimi stati iniziarono a caratterizzare proprio in quel periodo le migrazioni internazionali in Europa, manifestandosi in primo luogo nelle mete classiche delle migrazioni continentali. Ma alla crescita della componente extracontinentale fu posto un freno immediato dai paesi dell’Europa occidentale. I nuovi migranti ripiegarono dunque sui paesi euro-mediterranei, meno preparati ad opporsi al loro arrivo. Il fatto era del tutto inconsueto, poiché questi stati non stavano vivendo un periodo d’espansione economica e non presentavano carenze strutturali di manodopera. Infatti, come nel resto del continente, la crisi travolse anche in Italia, in Spagna e in Grecia i sistemi economici, facendo aumentare la disoccupazione. Nonostante ciò durante tutto il decennio e ancora in quelli successivi la presenza di manodopera straniera continuò ad aumentare, riuscendo a trovare nel

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mercato del lavoro dei margini in cui inserirsi. Risulta dunque difficile comprendere immediatamente le ragioni che portarono questi stati a diventare paesi d’immigrazione. Tanto più che rispetto al fenomeno, presentandosi come del tutto nuovo, non venne prodotta prontamente una vasta documentazione.

Ciononostante, è possibile rivolgersi, almeno per quel che riguarda la penisola italiana, alle poche fonti disponibili per tentare di ricostruire il quadro della vicenda e, scendendo più a fondo nelle dinamiche economiche e politiche interne (nel tentativo di comprendere come queste si intrecciarono con il nuovo flusso migratorio extra-europeo), appare altresì possibile cogliere gli elementi che determinarono la trasformazione dell’Italia in paese d’immigrazione.

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