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L’immigrazione in Italia dall’Unificazione agli anni Settanta

IV. Il momento della transizione Il caso del Friuli-Venezia Giulia

1. L’immigrazione in Italia dall’Unificazione agli anni Settanta

Durante il secolo intercorso tra l’Unificazione e gli anni Sessanta del Novecento la consistenza della presenza straniera conobbe un percorso altalenante nei numeri ma costante nella provenienza dei

176Luca Einaudi (2007) ricostruisce l’evoluzione della presenza straniera dall’Unità agli anni Duemila e ne

illustra le caratteristiche principali avvalendosi dei dati censuari, pur muovendosi nella consapevolezza dei limiti della fonte stessa, legati sia alla diversità dei criteri di rilevamento adottati nel tempo, che ad una quota di presenze non registrate. Non in tutte le rilevazioni censuarie sono stati raccolti i dati relativi agli stranieri presenti saltuariamente e talvolta gli stranieri residenti e quelli temporanei non sono stati distinti in categorie separate. Nonostante ciò il testo di Einaudi rappresenta una fonte importante per fare chiarezza sugli aspetti generali dell’immigrazione in Italia. In L. EINAUDI, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 6.

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migranti, con una tendenza generale al ribasso in proporzione all’aumento della popolazione italiana. Nel 1861, le 88.639 unità registrate rappresentavano lo 0,4% della popolazione italiana; da allora la percentuale oscillò tra lo 0,1 e lo 0,3% fino agli anni Settanta, decennio durante il quale si stabilì una nuova tendenza177. Le variazioni quantitative seguirono strettamente i cicli di alleanze politiche e

finanziare che lo stato italiano allacciò attorno a sé, ciò fu particolarmente vero fino allo scoppio della Grande Guerra, che in tutta l’Europa pose un freno all’integrazione economica.

Il suggerimento di individuare il 1914 come uno spartiacque anche nella storia dell’immigrazione in Italia arriva da Luca Einaudi e, effettivamente, ripartendo in due macro periodi l’analisi della presenza straniera in Italia è possibile non solo individuare le continuità e i cambiamenti riguardanti la quantità e la qualità della stessa, ma anche tracciare un quadro dell’evoluzione normativa e dell’atteggiamento statale nei confronti dei cittadini stranieri al mutare del contesto storico e delle forze politiche in scena nelle diverse fasi.

Nel primo cinquantennio del neonato Regno d’Italia la crescita economica del paese dovette appoggiarsi ai capitali e agli imprenditori stranieri per importare nuove tecnologie e avviare nuove attività economiche. Immediatamente dopo l’Unificazione, fu maggiore la rilevanza economica dei francesi e degli inglesi; nei decenni successivi si aggiunsero capitali e imprenditori tedeschi e belgi a sostenere la crescita. Assieme ai capitali, agli imprenditori e alle tecnologie arrivarono anche negozianti e maestranze altamente qualificate178. Ciò incise sia sull’elevata consistenza numerica di

queste nazionalità sul territorio, sia sull’aspetto qualitativo dell’immigrazione del periodo considerato. Nondimeno, la vicinanza geografica e culturale furono elementi determinanti; per disegnare la composizione della presenza straniera e, infatti, per tutto il cinquantennio considerato, l’87% degli immigrati giunse da altri paesi europei.

I tedeschi raggiunsero alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento le 10 mila presenze, mentre i francesi, nonostante la diminuzione avvenuta durante l’ultimo ventennio del XIX secolo, si attestarono come primo gruppo nazionale nel 1911, con 15 mila presenze; gli inglesi, infine, passarono dalle 4 mila unità circa del 1871 alle 6 mila unità poco prima dello scoppio del conflitto mondiale, toccando un picco di 8 mila nel 1901179. Altre nazionalità furono presenti in Italia sin dalla sua unificazione e con

collettività numericamente rilevanti, tanto quanto le comunità nazionali appena sopra menzionate; si trattava degli austriaci e degli svizzeri: i primi furono la componente più folta fino al 1871 con circa 18 mila presenze, che calarono progressivamente fino alle 11 mila unità nel 1911; stabile, intorno alle 11 mila, fu invece la presenza svizzera180. In numero nettamente inferiore, al di sotto delle 2 mila unità,

risultavano i russi, gli spagnoli e i greci. Africani e asiatici non superarono per tutto il periodo le poche centinaia181.

177Ivi, p. 405. I dati sono presi dalle tabelle riportate nell’appendice statistica. 178Ivi, pp. 12-13.

179Ivi, p.406. Per confrontare i dati si veda la Tabella A3, in cui è attuata la suddivisione per nazionalità e per anno di censimento della presenza straniera tra il 1871 e il 1961.

180Ivi, p. 7. 181Ibidem.

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Rispetto alla condizione socio-professionale degli immigrati, deducibile dai dati censuari del 1901, risultava molto bassa la quantità di immigrati addetti sia al settore agricolo che industriale182: il primo

settore impiegava principalmente manodopera nazionale; il secondo era ancora poco sviluppato e le poche industrie erano concentrate in ristrette aree geografiche. Lo scarto tra lo sviluppo industriale italiano e quello francese e tedesco fu il motivo della differenziazione dell’impiego dei lavoratori stranieri: nei due stati esteri, al contrario dell’Italia, gli immigrati erano occupati principalmente nei primi due settori dell’economia.

Il tipo di straniero più frequente nell’Italia dei primi del Novecento non fu il “lavoratore”, ma il rentier (“benestante o pensionato”), spesso seguito dalla famiglia e tipicamente con dimora occasionale. Lo straniero tipico si concentrava in Liguria, a Roma e in Toscana se non svolgeva alcuna attività lavorativa, soprattutto se tedesco o inglese. Tra coloro che invece lavoravano, le professioni più frequenti per ogni singola nazionalità e regione erano: commercianti e domestici tra gli svizzeri in Lombardia; operai e domestici tra gli austriaci in Veneto e Lombardia e in misura minore in Emilia; marinai e istitutrici tra i tedeschi in Liguria, Lombardia, Lazio o Campania; liberi professionisti erano i britannici, mentre religiosi, operai e commercianti i francesi a Roma, in Piemonte e Toscana; gli spagnoli erano soprattutto marinai di passaggio. Le professioni più praticate in assoluto erano quelle da impiegati privati e domestici, seguiti da gente di mare, operai industriali, commercianti, professioni religiose e istitutrici o maestre183. La minoranza attiva non si trovava in fondo alla scala socio-

professionale, come accadeva a molti dei migranti diretti verso la Francia e la Germania nello stesso periodo, ma era invece impiegata in professioni perlopiù intermedie.

Per ciò che concerne l’atteggiamento dello Stato nei confronti dei cittadini stranieri, questo fu improntato generalmente su una politica del laisser-faire. Nel 1865 e nel 1869 nel Regno d’Italia, rispettivamente con delle disposizioni del Codice civile e con la legge sull’ordine pubblico, venne definito lo status giuridico dello straniero, riconoscendogli pari diritti civili rispetto al cittadino italiano e assoggettandolo a forme di sorveglianza analoghe. Esistevano già allora documenti simili agli odierni fogli di riconoscimento, lasciapassare e permessi di soggiorno, ereditati dal dominio napoleonico, ma il loro rilascio e il loro utilizzo non rientravano ancora in una normativa unitaria. In ogni caso, il sistema pensato negli anni Sessanta dell’Ottocento lasciava in mano alla Pubblica sicurezza la facoltà di respingere presso i confini gli stranieri privi di documento di identificazione valido e senza presunte fonti di sussistenza. Per quanti si trovavano già in Italia l’espulsione seguiva la condanna penale o, nel caso in cui lo straniero fosse stato riconosciuto come pericoloso per l’ordine pubblico, avveniva sotto forma di sanzione amministrativa. Il controllo previsto dalla normativa non veniva applicato con minuzia e indistintamente, ma alla sorveglianza erano particolarmente soggetti i nomadi, i girovaghi, i senza dimora, i senza lavoro, ma anche tutti coloro che potevano essere

182Ivi, p. 10. Dati riportati nella tabella 1.1, relativa alla distribuzione per settore degli stranieri attivi sul mercato del lavoro.

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considerati politicamente scomodi e pericolosi, in quanto potenzialmente sovversivi, come nel caso dei rifugiati russi e ungheresi184.

Le misure amministrative di preparazione all’entrata in guerra accelerarono la radicale modernizzazione degli strumenti di controllo e sorveglianza degli stranieri. Nel 1914 la Direzione generale di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno creò lo schedario centrale degli stranieri sospettati di spionaggio; l’anno successivo venne trasformato nella più ampia “Anagrafe centrale degli stranieri”, trascurata dopo la fine della guerra, ma riattivata nel 1929185.

Il conflitto fu anche l’occasione per eliminare gran parte dell’influenza economica residua dei tedeschi e degli austriaci: progressivamente si assistette alla nazionalizzazione o italianizzazione del controllo societario delle imprese operanti in Italia, in particolare tedesche. Già da tempo il peso economico e finanziario dell’élite straniera si stava riducendo, come sintomo di un miglioramento delle condizioni economiche italiane, frutto dell’avvio dell’industrializzazione, che era fortemente aiutata dalle rimesse inviate dagli emigranti. Le società straniere risultavano ancora rilevanti solo laddove minore era lo spirito d’impresa e l’industrializzazione186.

Il periodo tra le due guerre comportò un forte rafforzamento delle norme di polizia, del controllo del territorio e della diffidenza nei confronti degli stranieri. All’inizio della Prima guerra mondiale, in Italia, come nel resto d’Europa, la grande maggioranza delle colonie straniere scomparve.

Nel 1921 la popolazione straniera censita risultò, comunque, accresciuta rispetto al 1911: era passata da circa 80 a 110 mila presenze, lo 0,3% della popolazione presente in Italia ai confini dell’epoca. L’aumento dipese esclusivamente dall’annessione della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia, che ospitavano 58 mila stranieri tra austriaci, jugoslavi e cechi. Nel resto dell’Italia il numero degli stranieri si ridusse invece di un terzo, più marcatamente in Piemonte e Lombardia, soprattutto calò la presenza di cittadini francesi e tedeschi187. Nel corso degli anni Venti la popolazione straniera aumentò

ulteriormente (in parte con l’arrivo dei profughi dall’Europa orientale), raggiungendo le 138 mila unità nel 1931, valore che non avrebbe più toccato fino agli anni Settanta.

La legislazione fascista, sviluppata tra gli anni Venti e Trenta, nella prospettiva della costruzione di uno Stato totalitario, colpì inevitabilmente anche gli stranieri. Nel 1926 con il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza furono creati gli uffici provinciali della polizia politica, con il compito di garantire l’ordine pubblico e di controllare sovversivi e stranieri. Nel 1929 venne creato l’Ufficio centrale per la registrazione degli stranieri e dal 1930 ne furono raccolte sistematicamente le informazioni in forma statistica. Scrive Einaudi:

Nel 1931, con le nuove leggi di pubblica sicurezza, venivano introdotti l’obbligo del visto per l’ingresso degli stranieri in Italia, l’obbligo di notificare alla polizia l’arrivo e la domiciliazione

184Ivi, pp. 20-28. 185Ivi, p. 29. 186Ivi, pp. 15-16. 187Ivi, p. 31.

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di qualsiasi straniero entro 72 ore dal passaggio della frontiera, oltre a qualsiasi cambiamento del domicilio, e l’obbligatorietà del permesso di soggiorno. Tale documento indicava identità, nazionalità, luogo di residenza, durata della residenza, impiego e situazione patrimoniale. Il Testo unico del 1931 in realtà non prevedeva un vero e proprio permesso di soggiorno, ma piuttosto un obbligo per lo straniero a «dare contezza di sé» alle autorità di pubblica sicurezza entro tre giorni dall’arrivo in Italia. Solo il regolamento di esecuzione del 1942 introdusse tale obbligo con una misura regolamentare e non legislativa. 188

La Seconda guerra mondiale, come già la Prima, causò una riduzione della presenza straniera: il censimento del 1951 registrò 129.757 unità immigrate, di cui solo 47 mila risultavano stabili sul territorio. I tedeschi rappresentavano allora il gruppo più numeroso, sebbene in calo del 33% rispetto al 1936, ma emergeva improvvisamente al secondo posto la presenza di 13.680 statunitensi189.

L’incremento di quest’ultimi fu dovuto in primo luogo all’occupazione, che si lasciò dietro non poche basi militari, che aumentarono negli anni della Guerra Fredda.

Gli stranieri degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, stando a quanto scrive Einaudi, erano poco coinvolti nell’economia, ancora meno di quanto non lo fossero nel periodo liberale e infatti, nel 1961, risultavano occupate solo 20.209 persone190. Fu invece nel corso del decennio successivo che

l’immigrazione iniziò a manifestare un carattere più marcatamente economico e a differenziarsi in quanto a luoghi di provenienza.

In definitiva, la presenza straniera fino agli Sessanta del Novecento non ebbe dimensioni e caratteristiche tali da spingere l’Italia a preoccuparsi di codificare la figura dell’immigrato, al di là della sua definizione giuridica dal punto di vista della pubblica sicurezza. Ancora meno, lo Stato ebbe modo di pensare alla possibilità futura di un’immigrazione di lavoratori, possibilità che era stata invece contemplata dalla Germania e dalla Francia già prima del boom economico. Del resto, la penisola si presentò nel panorama delle migrazioni internazionali tra Ottocento e Novecento e per tutto il ventennio postbellico, come uno dei principali paesi fornitori di manodopera, dunque come paese d’emigrazione.

Ma proprio a cavallo tra anni Sessanta e Settanta la Pubblica amministrazione iniziò a percepire che qualcosa nella presenza straniera in Italia stava cambiando e il confine orientale faceva da specchio ad una realtà che da lì a poco avrebbe investito l’Italia intera.

188Ivi, p. 32.

189Ivi, p. 406. Dati estratti dalla Tabella A3. 190Ivi, p. 44.

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