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Dalla campagna alla città, l’emigrazione e la crescita dell’occupazione industriale

II. La costruzione del mercato del lavoro italiano

1. Dalla campagna alla città, l’emigrazione e la crescita dell’occupazione industriale

Nell’immediato Secondo dopoguerra, l’Italia si trovò a raccattare i pezzi di un apparato industriale meno ampio e articolato di quello dei paesi dell’Europa occidentale, prevalentemente concentrato nel Triangolo industriale. Il sistema produttivo non aveva riportato danni irreparabili: i settori più colpiti erano stati quello della siderurgia, della meccanica e della marina mercantile, mentre gli altri settori avevano perso solo tra il 4-5% della loro capacità produttiva. Le infrastrutture avevano invece subito un duro colpo, ma in presenza di adeguati finanziamenti da reindirizzare in modo appropriato la ricostruzione non avrebbe richiesto troppo tempo62. Nell’immediato, però, era proprio l’indisponibilità

di risorse da investire in un progetto così ampio a rappresentare un ostacolo alla ripresa, e solo il reperimento dei fondi necessari avrebbe permesso l’espansione economica che avrebbe condotto alla rinascita il paese.

62Il problema della ricostruzione si impose in Italia come nel resto d’Europa: la distruzione, benché vasta, risultava distribuita in maniera ineguale all’interno di ogni stato, cosicché ognuno di essi dovette impegnarsi a riassestare le strutture danneggiate durante il conflitto. Solo per mezzo di una cooperazione sembrava aprirsi la possibilità di una ripresa rapida A. GRAZIANI, Lo sviluppo dell’economia…, cit., p. 19 e B. EICHENGREEN, La

nascita dell’economia…, cit., pp.44-45.

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% 1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 Tasso d'occupazione Tasso di disoccupazione Tasso di attività

Note: (a) Il tasso di occupazione è dato dal rapporto tra gli occupati e la popolazione di 15 anni e più, moltiplicato per 100. (b) Il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra le persone in cerca di occupazione e le forze di lavoro, moltiplicato per 100. (c) Il tasso di attività è dato dal rapporto tra le persone appartenenti alle forze di lavoro e la popolazione di 15 anni e più, moltiplicato per 100. Le forze di lavoro comprendono le persone occupate e quelle disoccupate. Fonte: ISTAT, serie storiche, Popolazione residente di 15 anni e più per

condizione professionale e sesso - Anni 1959-2011; consultata sul sito http://seriestoriche.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1%5Bid_pagina%5D=76&cHash=4bfe71c8f8d8dbb ea538a85dfc11b137, in data 25 marzo 2016.

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Al pari di quanto accadde nei paesi dell’Europa occidentale, chi si trovava allora ai vertici della politica italiana comprendeva bene che ravvivare l’economia significava in primo luogo accantonare definitivamente l’arretratezza economica che caratterizzava l’Italia e che ciò sarebbe stato possibile solo per mezzo di un’efficiente politica di ristrutturazione industriale. Ma il paese, essendo povero di materie prime e di un’adeguata tecnologia, avrebbe potuto sviluppare il settore secondario solo attraverso le importazioni di entrambe, e tale presupposto era piuttosto difficile da concretizzare senza creare ulteriori squilibri nella bilancia dei pagamenti. Le esportazioni italiane (soprattutto del comparto tessile), infatti, non riuscivano nell’immediato dopoguerra a controbilanciare la massa di importazioni indispensabili per la ripresa. Inoltre, al pari degli altri paesi europei le riserve valutarie si erano esaurite durante il conflitto, determinando una situazione di deficit e rendendo particolarmente fragile la posizione italiana in campo valutario63.

In gioco c’era, in sostanza, il rilancio di un paese che non solo doveva ripristinare quanto il conflitto aveva distrutto, ma che doveva anche porre rimedio ad un’inflazione galoppante, agli squilibri della bilancia dei pagamenti e ai problemi strutturali dell’economia nazionale: una struttura produttiva antiquata, una profonda frattura economica e sociale tra l’area settentrionale e meridionale e la disoccupazione64. L’occasione per uscire definitivamente dalla crisi postbellica e di avviare la

modernizzazione del paese attraverso lo sviluppo dell’industria arrivò nel 1947, allorché gli Stati Uniti si offrirono di sopperire alle carenze valutarie degli stati europei, imponendo come contropartita l’adesione al sistema di libero mercato65. L’Italia, come del resto gli stati vicini, aderì prontamente

all’ERP, consapevole che solo grazie al supporto di fondi esteri avrebbe avviato l’industrializzazione. Ma il terreno da recuperare per inserirsi nel novero delle potenze industriali, nella prospettiva di ridurre il divario con gli Stati Uniti e per raggiungere presto i livelli delle vicine Francia e Germania, era però esteso.

Fino agli eventi bellici nell’industria italiana la spinta verso la creazione di strutture produttive più moderne fu circoscritta a pochi settori, come quello automobilistico, dei prodotti petroliferi e delle fibre sintetiche. Ma ancora all’indomani del conflitto la funzione quest’ultimi risultava pionieristica anziché trainante. Anche rispetto alla capacità di assorbire manodopera nazionale tali settori si mostravano ancora marginali, a causa del loro confinamento in aree ristrette e di un mercato nazionale troppo piccolo per permetterne la crescita. Negli anni Quaranta, infatti, era ancora la diffusione di piccole industrie artigiane, tecnologicamente arretrate e poco dinamiche, a caratterizzare il settore secondario e a rivestire una certa importanza per l’occupazione operaia (si trattava principalmente dell’industria tessile ed alimentare), benché non mancassero esempi di imprese con un numero elevato di addetti (sempre nel settore tessile). Perciò, nell’ottica di una rapida modernizzazione venne presa la

63 B. EICHENGREEN, La nascita dell’economia…, cit.

64Alcuni dei problemi citati come l’inflazione e gli squilibri della bilancia dei pagamenti furono un’eredità lasciata dal periodo bellico; gli altri, invece, accompagnarono lo sviluppo italiano sin dall’Unificazione. In A. GRAZIANI, Lo sviluppo dell’economia…, cit., pp. 18-22.

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decisione di puntare soprattutto sul riassestamento dell’industria di base e delle imprese che già mostravano un potenziale d’innovazione, le uniche che di fatto potevano porsi in una prospettiva di competizione nel nascente mercato internazionale. I vantaggi di una crescita attuata attraverso lo sviluppo dell’industria per le esportazioni erano indiscutibili. L’Italia non solo avrebbe potuto mantenere in equilibrio i conti con l’estero in futuro, ma avrebbe in parte risolto i problemi occupazionali, grazie alla possibilità di conseguire più facilmente economie di scala (questo serviva inoltre ad abbattere i costi di produzione e ciò avrebbe avvantaggiato i prodotti sul mercato, rendendo i prezzi più competitivi). Secondo questa prospettiva, gli anni della ricostruzione e quelli successivi furono pertanto quelli in cui lo Stato si impegnò a stabilizzare la moneta, a liberalizzare il mercato e ad investire direttamente sull’espansione del settore industriale66.

L’operazione condotta per sostenere l’eccezionale piano di ripresa e modernizzazione (oltre alla rigorosa politica monetaria messa in campo per stabilizzare cambio e potere d’acquisto della lira) fu principalmente quella di indirizzare i fondi provenienti dall’adesione all’ERP e dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) per risanare l’industria esistente, in modo tale da permettere l’ingrandimento e il rinnovamento degli impianti, con il diretto intervento dell’Iri e di Mediobanca nell’economia nazionale. In particolare, gli interventi statali riguardarono i settori siderurgico, chimico ed energetico, i quali fornirono un solido appoggio (attraverso la produzione di beni strumentali) al prosperare dell’industria leggera privata di beni di consumo. L’intervento pubblico in questa direzione risultò tuttavia limitato alle aree in cui già prima della guerra l’industria era fiorita. Altrove, soprattutto nel Meridione, si tentò invece di far ripartire l’economia per mezzo della ristrutturazione dell’arretrato sistema agricolo nazionale e investendo in un ampio piano di costruzione di opere pubbliche, che avrebbero costituito la base per una futura industrializzazione del Mezzogiorno. Per perseguire tale obiettivo, nel 1950 venne approvata la riforma fondiaria e fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno67.

Il piano di riforme previsto per il rilancio dell’attività agricola, per come venne strutturato, aspirava alla creazione di una rete di piccole aziende contadine. Il trasferimento coattivo di terreni ai contadini e gli incentivi loro offerti affinché ne prendessero possesso, miravano a creare una estesa base occupazionale nel settore primario, pur muovendosi nella prospettiva di ridurre l’eccesiva pressione della popolazione sulla terra. Al Sud, dove la situazione risultava ancora più delicata e la pressione sulla terra era più forte, la riforma fondiaria fu integrata dall’azione della Cassa per il Mezzogiorno,

66Come la Francia e la Germania aderì all’Oece, firmò gli accordi di Bretton Woods e pochi anni dopo iniziò il processo di integrazione economica europea con l’istituzione della Ceca prima e della Cee dopo. A. GRAZIANI,

Lo sviluppo dell’economia…, cit., p. 27.

67Per i modi in cui vennero gestiti i fondi dell’ERP e della Banca Mondiale e per le iniziative di sviluppo e il ruolo giocato dagli Enti statali autonomi, come organismi funzionali alla crescita nell’Italia repubblicana si vedano i saggi di FABRIZIO BARCA, Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano e LEANDRA D’ANTONE,

«Straordinarietà» e Stato ordinario, in Storia del capitalismo italiano, a cura di F. BARCA, Milano, Donzelli, 2010, pp. 4-107 e 579-617. Per la questione delle iniziative statali per il rilancio del settore agricolo si veda A. GRAZIANI, op. cit., pp. 43-55. Mentre per l’abbandono delle campagne e la differenza tra classe contadina e bracciantile tra Nord e Sud si veda il saggio di ENRICO PUGLIESE, Gli squilibri del mercato del lavoro, in Storia

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che avrebbe offerto supporto per i miglioramenti fondiari e per indirizzare gli agricoltori nella gestione delle aziende. Per tutto il primo decennio di vita, i fondi della Cassa furono infatti indirizzati in maniera cospicua verso l’agricoltura, mentre un’altra importante parte venne impiegata nel potenziamento delle infrastrutture pubbliche (strade, scuole, ospedali). Il successo di questa strategia fu però relativo. Tanto al Nord quanto al Sud la risposta agli stimoli avviati per ridurre la pressione sulla terra fu eccessiva e in definitiva i progetti per l’ammodernamento del sistema agricolo ottennero l’effetto opposto a quello desiderato. Iniziò un progressivo e consistente esodo dalla campagna verso la città. Spinti fuori dall’avanzamento di un sistema di produzione intensivo o, come al Sud, dal fallimento della ridistribuzione delle terre, tra gli anni Cinquanta e Settanta, milioni di lavoratori agricoli emigrarono verso i dinamici poli industrializzati dell’Italia settentrionale e dell’Europa. Del resto, di fronte a una ristrutturazione agricola che aveva mostrato non pochi difetti nel meccanismo di redistribuzione e nella riqualificazione dei terreni (e che sostanzialmente si risolse in un mancato miglioramento del reddito della popolazione agricola), il richiamo esercitato dagli altri settori non poteva non portare ad un simile esito68.

L’impegno statale e il basso costo del lavoro (garantito dall’elasticità di un mercato che poteva contare su una immensa riserva di manodopera proveniente delle campagne), uniti alla debolezza sindacale del periodo e all’aumento della domanda internazionale di beni, avevano infatti favorito la rapida crescita del settore industriale. La continua espansione che proseguì ininterrottamente fino ai primi anni Sessanta aumentò costantemente la quantità di lavoro richiesta per sostenere i ritmi della produzione, sicché l’Italia nord-occidentale divenne un punto di confluenza per chi abbandonava la periferia agricola o le attività artigianali in cerca di una retribuzione sicura e più elevata rispetto agli standard nazionali. Furono le industrie manifatturiere, e in particolare quella meccanica e chimica (ma anche l’abbigliamento), a beneficiare della positiva congiuntura economica che si verificò tra il 1958 e il 1963 e ad attirare lavoratori. Ma il comparto manifatturiero, nonostante l’accelerata espansione nel triangolo industriale, non era in grado di assorbire da solo tutta la manodopera liberata dal settore agricolo, poiché le piccole e medie imprese iniziarono i quel periodo a perdere lavoratori. Si verificò, infatti, nell’industria manifatturiera un aumento degli addetti nei settori rappresentativi dei gruppi oligopolistici pubblici e privati (chimica e meccanica): tra il 1951 e il 1963 la percentuale di occupati salì dal 33 al 39%, per poi raggiungere il 44% nel 1972. Nelle piccole e medie imprese degli altri settori, invece, si assistette, negli stessi periodi, ad un calo dal 55 al 47%, e poi ancora al 42%69.

68Paul Ginsborg, ad esempio, attribuisce tra le cause dell’insuccesso del piano di riforma dell’agricoltura, soprattutto al Mezzogiorno, l’assegnazione di lotti non troppo estesi e spesso aridi o difficilmente sfruttabili, grazie agli espedienti trovati dai vecchi latifondisti soggetti alle espropriazioni. Ma anche alla concentrazione degli interventi di riqualificazione nelle zone costiere, che inevitabilmente portarono all’abbandono delle zone interne. Infine, per quanto riguarda soprattutto il Centro e il Nord, fu l’instaurarsi di un’agricoltura e dell’allevamento di tipo intensivo a far espellere molta manodopera dal settore. P. GINSBORG, Storia dell’Italia

Repubblicana dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 2006 (1989), pp. 160-187.

69I dati relativi alla distribuzione nel settore manifatturiero sono stati rielaborati sui dati Istat da Adriano Giannola in ADRIANO GIANNOLA, L’evoluzione della politica economia e industriale, in (a cura di) F. BARBAGALLO, Storia dell’Italia…, cit., p. 415.

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Il progressivo declino delle piccole imprese, faceva dunque da contrappeso agli ottimi risultati della grande industria, e fu solo grazie ai settori più tradizionali e arretrati che paradossalmente fu contenuta la crescita della disoccupazione, allorché venne liberata molta manodopera dal settore primario. Settori quali quello delle costruzioni, della pubblica amministrazione e dei servizi, contribuirono infatti largamente ad evitare il peggioramento degli indici. Tra il 1951 e il 1963 l’industria manifatturiera mostrò un aumento percentuale degli addetti del 26,9%, mentre fu del 34,6% la crescita dei dipendenti nella pubblica amministrazione e dell’86% nell’edilizia70.

Nei primi anni Cinquanta, in realtà, furono proprio i settori meno dinamici a spingere fuori dall’agricoltura una quota sempre maggiore di braccianti e contadini. Il settore delle costruzioni, ad esempio, fu quello principe in quanto a capacità di attrarre manodopera dall’agricoltura (soprattutto nel Mezzogiorno), durante quel decennio e ancora negli anni Sessanta. In quel periodo la grossa mole di investimenti pubblici e privati per la costruzione, riparazione o estensione delle infrastrutture e il contemporaneo fenomeno di inurbamento fornirono un’ottima base sulla quale far prosperare l’edilizia. Ma questa, per la fatica alla quale la manovalanza era sottoposta o per la temporaneità dell’occupazione che offriva rappresentava un spazio occupazionale precario per quanti abbandonavano i campi. Invero, il settore costituì più un canale che non uno sbocco definitivo: per tanti migranti giunti nelle realtà industriali del Nord si trattò di una tappa intermedia prima di accedere alla fabbrica, dove l’occupazione era più stabile e meglio retribuita. Allo stesso modo, altri lavori (come bassa manovalanza in tutti e tre i settori dell’economia) si prestarono a fare da ponte per il travaso della manodopera dall’agricoltura alla grande fabbrica71. Nell’indagine svolta a Torino nel

1964, Goffredo Fofi illustrò il fenomeno chiaramente: gli immigrati venivano impiegati

in occupazioni che non richiedevano qualifiche particolari e che costituiscono il sottobosco dell’economia cittadina, quali l’edilizia, certi settori artigianali, certe piccole fabbriche, ancora a mezza via tra l’impresa artigianale e l’industria, tra l’officina e la fabbrica e tutti quei settori che richiedevano manovalanza generica (lavori stradali e altri dello stesso ordine). Attraverso questi filoni l’immigrato diventava “torinese”, ed era in grado di affrontare i primi mesi, i più duri. Poi raggiunto quel minimo di esperienza e di conoscenza necessarie, s’avventura o ad altri settori e ad altre imprese72.

In questo stato di cose, la nuova forma che la struttura occupazionale stava acquisendo non poteva ritenersi per nulla stabile, data la precarietà della posizione di una fetta non trascurabile degli occupati.

70 Ibidem.

71Sul ruolo dell’edilizia e dei servizi come spugne temporanee della manodopera espulsa dalle campagne negli anni Cinquanta e Sessanta si vedano i saggi di A. GIANNOLA, L’evoluzione della politica…, cit. e di GIOVANNI BRUNO, Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975), nei Vol. 3 e 2 di (a cura di) F. BARBAGALLO, Storia dell’Italia…, cit.

72GOFFREDO FOFI, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1975 [1964], pp. 119-120; in AMALIA SIGNORELLI, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in F. BARBAGALLO, Storia

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In una simile situazione il mercato del lavoro risultava eccessivamente esposto ai rischi connessi ad un declino delle possibilità occupazionali nell’industria.

Ma giunti al 1963, nonostante queste incertezze, la situazione del mercato del lavoro appariva florida. Secondo i dati ufficiali in quell’anno venne toccato il picco minimo della disoccupazione (intorno al 3%), ed anche l’occupazione e il tasso d’attività si mostravano in salute. Ma altre fragilità e tante ambiguità si celavano dietro agli ottimi risultati raggiunti. Innanzitutto, senza la consistente emigrazione gli indici non avrebbero potuto mostrarsi così positivi, ed infatti il tasso minimo di disoccupazione venne raggiunto nello stesso anno in cui la quota di espatriati giunse all’apice73. Tale

fatto, però, rendeva il mercato del lavoro ancora di più esposto ai rischi di una crisi del settore industriale, in questo caso quello degli altri paesi europei, che all’epoca ricevevano la maggior parte dei migranti italiani in qualità di operai. Secondariamente, già dai primissimi anni Sessanta gli altri due tassi descriventi la situazione della forza lavoro iniziarono a peggiorare (gli indici d’occupazione e d’attività tra il 1960 e il 1963 diminuirono rispettivamente di 2 e 3 punti percentuali) e in pratica fu solo grazie al calo della popolazione attiva che fu possibile mantenere l’illusione di uno stato di salute del mercato del lavoro nazionale, poiché l’abbassamento del tasso d’attività impediva di fatto al tasso di disoccupazione di crescere in maniera proporzionale alla diminuzione del numero di occupati. La debolezza che caratterizzava la buona performance esibita dai dati ufficiali non tardò ad emergere. Dacché cominciarono ad avvertirsi segni di tensione nel sistema economico, il quadro dell’occupazione italiana iniziò a modificarsi ulteriormente e a mostrare, seppure in modo lieve, ancora più elementi di incertezza e di decadenza, che divennero invece manifesti dalla metà degli anni Settanta, trovando così una conferma anche nei dati ufficiali. Fino a quel punto, seppure presenti, i fattori d’instabilità si nascosero tra cambiamenti intervenuti nel sistema economico nei primi anni del decennio ˗ anch’essi ancora lievi e camuffati dalle ottime prestazioni.

Accenni importanti di modificazione del sistema ci furono allorché tra il 1960 e 1963 si verificò una spinta inflazionistica, determinata dall’espansione della domanda globale74. Quest’ultima si verificò

negli anni del boom economico, come conseguenza diretta dell’aumento dei redditi degli occupati nel settore industriale e in quello pubblico, nonché dell’incremento delle rendite fondiarie soprattutto per i proprietari di terra nei pressi dei maggiori centri urbani La crescita repentina della domanda di lavoro nell’industria dell’Italia settentrionale aveva, infatti, consentito ai lavoratori di acquisire maggiore forza sul piano contrattuale e, benché le relazioni industriali non fossero ancora pienamente istituzionalizzate (ovvero non esisteva ancora uno statuto nazionale di riferimento che regolasse i rapporti di lavoro tramite i sindacati), le contrattazioni a livello aziendale avevano garantito agli operai livelli salariali più alti75. Allo stesso tempo, l’abbozzo di una politica di rilancio industriale nel

73Nel 1962 gli espatriati furono 366 mila e il saldo era negativo, di 138 mila unità. I dati sono riportati in tabella nel capitolo V, sono quelli Istat corretti da Marcello Natale.

74Su questo punto concordano tutti gli autori citati finora.

75Il tasso di sindacalizzazione complessivo fino al 1968 nell’Italia nord-occidentale non raggiungeva il 25%, nel settore industriale si attestava al 20. Addirittura tra il 1964 e 1968 il numero di iscritti ai due principali sindacati

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Mezzogiorno, pur non raggiungendo i risultati sperati relativi all’occupazione, aveva innescato anche in quell’area una fase di crescita della domanda, alla quale seguì un miglioramento delle condizioni del settore industriale che produceva per il mercato interno.

Tutto ciò portava l’Italia a misurarsi con una condizione di benessere che andava generalizzandosi, mai conosciuta prima di allora, e che però, attraverso il diffuso aumento dei consumi, metteva in discussione la stabilità della bilancia dei pagamenti. In più la contemporanea crescita dei salari iniziava a creare disagi all’interno del mondo industriale, facendo aumentare i costi di produzione. Una parte degli imprenditori risposero ad una simile situazione seguendo la via più semplice, ovvero scaricando l’aumento del costo del lavoro sul prezzo dei prodotti. Ma una simile alternativa risultò percorribile solo per le aziende che producevano prevalentemente o esclusivamente per il mercato interno, favorite dalla contemporanea crescita della domanda nazionale. Quella stessa linea risultava del tutto impraticabile per le imprese che producevano invece per l’esportazione: aumentando il prezzo, in presenza di un cambio stabile, la merce avrebbe infatti perso competitività sui mercati internazionali, aggravando la situazione della bilancia commerciale.

Quanto stava avvenendo mal si sposava con le linee della politica economica stabilite all’indomani del

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