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I lavoratori jugoslavi nel Friuli Venezia Giulia negli anni Settanta

IV. Il momento della transizione Il caso del Friuli-Venezia Giulia

7. I lavoratori jugoslavi nel Friuli Venezia Giulia negli anni Settanta

Già dalla seconda metà degli anni Sessanta, come illustrato in precedenza, alcuni comparti del settore industriale iniziarono a presentare carenza di manodopera: di particolare rilievo risultava il bisogno di manovalanza nell’industria mineraria, nel settore metallurgico (più specificatamente siderurgico), come personale di fatica nelle imprese di manutenzione degli stabilimenti industriali, nelle imprese di costruzione, ma anche nel tessile (in particolare manodopera femminile per il cotonificio triestino). In questi stessi settori venne anche riscontrata la tendenza alla regolarizzazione contrattuale di una parte dei lavoratori stranieri. Secondo quanto scritto da Fabio Neri, studioso che fu tra i primi ad interessarsi al fenomeno nell’area triveneta, le grandi imprese, soprattutto edili, sembravano meno disposte ad avvalersi del lavoro nero degli immigrati, mentre i proprietari delle piccole imprese, risultavano disponibili a correre il rischio di assunzioni irregolari, poiché il guadagno economico era abbastanza vantaggioso rispetto al rischio di essere scoperti234. Dalla metà degli anni Settanta, anche per altri tipi

di lavoro si iniziò a notare la presenza stabile e regolare di lavoratori jugoslavi, in alcune piccole imprese nel settore della sedia, come personale domestico, come autisti e camionisti e nel settore alberghiero. Ma, sostanzialmente, fu l’irregolarità della prestazione lavorativa a contraddistinguere la presenza della manodopera slava nel Friuli-Venezia Giulia.

234F. NERI, I lavoratori stranieri nel Friuli-Venezia Giulia, in L’immigrazione straniera in Italia, «Studi emigrazione», n. 71, XX (settembre 1983), pp. 351-356.

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L’arrivo di lavoratori stranieri nella regione, soprattutto jugoslavi, in effetti non fu fermato dall’amministrazione statale e già nei primi anni Ottanta alcuni studiosi, tra cui, appunto, il su citato Fabio Neri, dedicarono particolare attenzione alla zona friulana e giuliana, nel tentativo di definire le connotazioni che l’immigrazione straniera aveva assunto nel corso del decennio precedente. La sua indagine confermava nella sostanza quanto già intuito all’inizio del decennio precedente dalla Pubblica amministrazione, ovvero che il mercato del lavoro straniero dell’area triveneta constava di tipi diversi di manodopera, una ufficiale e una clandestina. Nel 1969 e presumibilmente anche nel 1971, dei circa 7 mila jugoslavi regolarmente presenti, solo la metà era in possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro235; ma secondo il Ministero degli affari esteri erano circa 20 mila i

lavoratori slavi presenti nella regione nello stesso periodo236. Nel 1981, invece, gli stranieri residenti e

temporaneamente presenti erano 10.661237. Poco più di un terzo dei 4.979 residenti provenivano

dall’Africa, dall’Asia e dalla Jugoslavia (960 unità) e in totale i lavoratori erano solo 1.438238. Fabio

Neri, asserì che in quell’anno la reale consistenza della popolazione straniera presente per motivi lavorativi, tra legali e illegali, si aggirava, invece, tra le 7.500 e le 9.000 unità, a seconda della stagione dell’anno a cui si faceva riferimento ‒ durante il periodo estivo venivano registrati i picchi massimi239.

L’indagine, avvenuta realizzando 412 interviste a lavoratori jugoslavi e altre 142 a datori di lavoro e responsabili di organismi pubblici e non, direttamente interessati al fenomeno in vario modo, nelle province di Udine, Trieste, Gorizia e Pordenone (in quest’ultimo caso il fenomeno è limitato e la manodopera straniera è concentrata principalmente nel settore dell’industria conciaria), scovò dunque l’esistenza di un fenomeno molto più ampio di quello presentato nelle fonti ufficiali. Ma, proprio rispetto alla grandezza della componente slava, stupisce il fatto che, nonostante i numeri già molto alti degli anni Sessanta e Settanta, questa, ancora nel 1981, si fosse stabilizzata sul territorio solo in misura ridotta.

Il fatto andava ricondotto probabilmente a tutta una serie di elementi che caratterizzarono il lavoro degli jugoslavi nel Friuli-Venezia Giulia. Innanzitutto la precarietà e l’irregolarità della posizione lavorativa della maggior parte dei lavoratori. Questi due fattori conferivano all’immigrazione dal vicino stato alcuni tratti già manifestati in altre realtà nazionali e internazionali dai lavoratori emigrati da contesti poco sviluppati e con redditi molto bassi, ovvero la temporaneità della permanenza nel territorio d’arrivo per la maggior parte dei lavoratori e l’elevata mobilità e alternanza settoriale delle unità lavorative (protese a sfruttare qualsiasi occasione di lavoro). Secondariamente le condizioni

235ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1967/1970, inv.13/016,7 parte III(5),

Stranieri in Italia, b.326, fasc. 15383/1.

236ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1971/1975, 13/016,9 parte I, Lavoratori

frontalieri, b. 297, fasc. 13504.

237Tabella 4 in ISTAT, XII censimento generale della popolazione, Vol. II, Tomo 3 Italia, parte seconda.

238F. NERI, L’offerta di manodopera straniera in Italia: il caso del Friuli Venezia Giulia, in «Economia italiana», n. 3, (ottobre 1982), p. 460.

239Ibidem. Il Censis stima invece il coinvolgimento di circa 18-20 mila lavoratori stranieri nel 1977 in Friuli Venezia Giulia e di circa 13-16 mila in Veneto, il dato è stato però calcolato in base al numero dei posti lavoro liberi, occupati illegalmente dalla manodopera straniera, in CENSIS, I Lavoratori stranieri in Italia, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello stato, 1979, pp. 59-60.

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extra-lavorative: la maggior parte degli stranieri non visse, infatti, nei pressi del luogo di lavoro o in Italia in generale. Il pendolarismo interessò soprattutto i cittadini delle aree più prossime al confine (ex zona B), ma, al contrario di ogni logica deduzione, anche chi giunse dalle zone più remote della Jugoslavia, preferì pernottare al di là del confine, per via dei costi inferiori.

Il pendolarismo della forza lavoro slava era inoltre stato sempre fortemente avallato dalle autorità italiane. Già con gli accordi di Udine del 1962 (tra Italia e Jugoslavia), si era tentato di evitare lo stanziamento di stranieri sul territorio nazionale, attraverso la concessione di un «lasciapassare speciale» per entrambe le nazionalità (della validità di un anno e rinnovabile), che permetteva un passaggio facilitato della frontiera per un numero illimitato di volte ‒ vennero però concessi con parsimonia240. E ancora negli anni Settanta, la Pubblica amministrazione, pur riconoscendo la

necessità di manodopera presentata da alcuni settori, si mostrava ostile alla presenza stabile della forza lavoro slava nella regione: «un assunzione di lavoratori jugoslavi dovrebbe prendersi in considerazione solo nel caso che il loro insediamento in territorio italiano possa essere evitato»241,

sosteneva il Ministero dell’interno. Furono perciò organizzati servizi di autocorriere tra i due stati, per evitare lo stanziamento dei lavoratori. In più, ad ostacolare la stabilizzazione della presenza jugoslava c’era il grande problema della carenza di alloggi disponibili. Infatti, tra i lavoratori che sceglievano di vivere sul territorio italiano erano prevalenti le sistemazioni più precarie: l’abitazione normalmente variava tra le pensioni di infimo ordine e le baracche.

Tutti questi elementi ricordano molto la situazione vissuta dai primi migranti italiani del dopoguerra all’estero e in Italia. Le due vicende sono, anzi, talmente affini che sembra quasi tratteggiarsi un profilo unico che contraddistingue le prime fasi degli spostamenti di popolazione avvenuti in Europa, almeno nel primo quarantennio postbellico.

Ma ritornando all’immigrazione nel Friuli-Venezia Giulia, è possibile comprende anche i tempi e i modi della sua diffusione, grazie allo studio effettuato da Neri. La popolazione dei lavoratori immigrati, conteggiata dallo, si concentrava nel 1981 prevalentemente nelle tre province orientali della regione ed era così distribuita: 3500 circa nella provincia di Trieste, 1000/1500 e 3000/3500 rispettivamente nelle province di Gorizia e Udine, infine, 100/150 in quella di Pordenone. Gli stranieri rappresentavano il 4% dei lavoratori del triestino e più del 2,5% di quelli delle restanti aree provinciali242, ma il loro coinvolgimento nell’economia locale, seppur precario, non rientrava

esclusivamente all’interno di una strategia imprenditoriale intenzionata a sfruttare la convenienza economica dell’immigrato. Traeva origine, invece, dalla commistione di alcuni fattori propri del contesto friulano con elementi caratteristici dell’intera società italiana della seconda metà degli anni Settanta, tra quest’ultimi: il profondo cambiamento sociale innescato dal mutamento del tenore di vita tra i lavoratori nazionali e l’attribuzione di connotati etnici ad alcune posizioni lavorative.

240Anche per questa informazione la documentazione del Gabinetto del Ministero dell’Interno risulta abbondante. 241ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1967/1970, 13/016,7 parte III(5), Stranieri

in Italia, b.326, fascicolo 13396/96.

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Tra gli elementi propriamente regionali, spiccano i cambiamenti economici intervenuti in seguito al terremoto del 1976. L’intera area visse allora un periodo di ripresa economica243: il terremoto ridiede

slancio al settore edile e permise alle aziende friulane di rinnovare gli impianti e di aumentare la capacità produttiva, per rispondere alla crescente domanda di beni collegata alla ristrutturazione. Aumentò, così, la richiesta di manodopera nei comparti industriali della meccanica, del legno e del mobilio, mentre altrove in Italia la disoccupazione cresceva.

Le aziende della fascia centrale della pianura friulana richiamarono la forza lavoro locale dal settore agricolo ed edile, per i quali rimase, invece, inevasa la domanda di lavoro244. La fabbrica, in sostanza,

fu preferita all’edilizia, settore nel quale gli italiani rimasero solo per ricoprire le posizioni più qualificate. Ciò accadde soprattutto nel pordenonese (l’industria locale assorbì circa la metà dei lavoratori della provincia)245. Nelle altre tre province, invece, diventò preponderante l’occupazione

della forza lavoro locale nel settore terziario: il 76% nel triestino e il 55% nei territori sia di Gorizia che di Udine. Mentre l’agricoltura impegnava ormai, sul finire del decennio, solo l’8,2% del totale dei lavoratori dell’intera regione246.

Dal campione intervistato da Fabio Neri risultò, non a caso, che il terremoto del 1976, ampliando le possibilità occupazionali nel settore edile accelerò l’arrivo di lavoratori dalla Jugoslavia: circa il 51,7% dichiarò di essere giunto nel Friuli-Venezia Giulia dopo il terremoto, il 34% tra il 1970 e 1976, il 14,3% da oltre un decennio247.

A favorire l’arrivo di emigranti fu anche la struttura demografica regionale, che si contraddistinse rispetto al resto d’Italia, in particolare nelle province di Trieste e Gorizia, per il precoce invecchiamento della popolazione, già in atto da più di un decennio: quest’ultima crebbe solo del 1,4% tra il 1971 e il 1981, con una percentuale molto elevata di ultrasessantenni (il 18%) rispetto alla media nazionale(13,5%) ‒ il fatto rallentò non poco il ricambio generazionale nella popolazione attiva248.

Infine, fu la posizione geografica a segnare le sorti migratorie dell’area. Nelle immediate vicinanze (in Jugoslavia) esisteva, infatti, un bacino di manodopera disoccupata, pronta a passare la frontiera in cerca di una maggiore remunerazione ed in vista della possibilità di accedere ad un mercato di beni di consumo più ampio e qualificato di quello disponibile nel paese d’origine. Ma l’emigrazione slava verso l’Italia non fu un fenomeno circoscritto agli abitanti della Slovenia e della Croazia, che in vero rappresentarono solo il 22% dei lavoratori intervistati nella seconda metà degli anni Settanta: giunsero in tanti anche dalla Serbia (63%) e dalla Bosnia (14%). Inoltre, sempre secondo la stessa indagine, la maggioranza quasi assoluta dei lavoratori serbi proveniva da due soli comuni vicini alla Romania,

243La disoccupazione sul totale della popolazione si attestava al 2,7% nel 1981. In F.NERI, L’offerta di

manodopera…, cit., p.457.

244F. NERI, I lavoratori stranieri…, cit., p. 355.

245F. NERI, L’offerta di manodopera…, cit., pp. 457-459. L’occupazione nel settore secondario era del 37% nella provincia di Udine e del 23% in quelle di Gorizia e Trieste.

246Ibidem. 247Ivi, p. 464. 248Ivi, p. 457.

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Posarevac e Veliko Gradiske249 fatto, questo, che confermava quell’ipotesi interpretativa che

riconobbe, e riconosce ancora oggi, alla catena migratoria un ruolo di primo piano nello sviluppo dei movimenti di popolazione250.

Tornando al coinvolgimento di manodopera nell’economia regionale, Trieste fu la prima (già dagli anni Sessanta), tra le province, ad essere interessata dal fenomeno della presenza consistente di lavoratori stranieri, concentrati principalmente nel capoluogo. Nella realtà cittadina i migranti vennero impiegati nel settore domestico, nei servizi (commercio, ristorazione e alberghi e facchinaggio, in quest’ultimo venivano impiegati anche indiani, pakistani e africani); e nel secondario, soprattutto nell’edilizia. Nei comparti manifatturieri la presenza straniera fu modesta: si contarono alla fine degli anni Settanta 30 dipendenti alla Gallinotti e altre unità irregolarmente impiegate nell’industria alimentare degli insaccati251.

Durante il decennio considerato l’immigrazione dei lavoratori slavi si estese poi alla provincia di Gorizia e nella Valle del Natisone. In linea di massima si riproposero le stesse caratteristiche già riscontrate per Trieste, ma alcune particolarità ne distinguevano le occupazioni: il personale di fatica era impiegato negli agriturismi per turisti; una percentuale minima di slavi era coinvolta nell’industria metalmeccanica decentrata, che si estendeva ad est di Cividale, e nella produzione della sedia in piccole aziende familiari, che svolgevano parte del lavoro a domicilio; altri occupavano invece la posizione di autotrasportatori252.

Sempre nello stesso periodo, si notò la crescita del numero dei lavoratori stranieri nella provincia di Udine, riconducibile all’espansione del settore edile seguita al terremoto, sebbene già il settore minerario avesse attirato in forma instabile manodopera alla fine degli anni Sessanta. Non mancarono altri casi in cui venne avvertito il coinvolgimento di manodopera straniera: nelle acciaierie, nel settore turistico durante la stagione invernale (soprattutto giovani studenti tedeschi e slavi); e, si attestò la presenza, seppure ancora di piccole dimensioni, di manodopera slava nei comparti della metalmeccanica (fonderie, laminatoi, aziende produttrici di radiatori e macchine agricole), che da poco avevano avviato un decentramento produttivo nella zona a nord di Udine. Infine, un ampio utilizzo di manodopera jugoslava fiorì nella zona del litorale adriatico e delle località turistiche del Veneto, soprattutto nel settore dei servizi, in particolare in quello alberghiero e della ristorazione253.

In linea con la costatazione della presenza straniera piuttosto recente nella maggior parte dell’area considerata, la struttura demografica dei lavoratori vedeva, nei primi anni Ottanta, la prevalenza di giovani maschi, e solo nella provincia di Trieste l’indice della presenza femminile tra gli occupati risultò più che doppia rispetto a quella delle altre zone (circa il 33%). Sempre nel territorio di Trieste gli immigrati compresi tra i 15 e i 35 anni rappresentavano solo il 45% circa del totale, mentre in

249F. NERI, I lavoratori stranieri…, cit., p. 354.

250Cfr. E. RAYNERI, La catena migratoria, il ruolo dell’emigrazione nel mercato del lavoro di arrivo e di esodo, Bologna, Il Mulino, 1979.

251CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., pp. 46-60. 252Ibidem.

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quello d Gorizia il 79%; il 64% e il 100% rispettivamente nelle province di Udine e Pordenone. La differenza dipese non solo dalla più antica tradizione migratoria triestina, ma anche dalla realtà urbana del capoluogo, che offrì maggiori possibilità d’impiego nel terziario alle compagne dei migranti: si riscontrò, infatti, un tasso di convivenze con coniuge del 53%; a Udine solo del 16,6% e simile a quest’ultima fu la situazione a Gorizia. Non di rado il problema principale in queste ultime aree fu legato alla carenza di alloggi254.

Infine, sarebbe interessante conoscere il reddito percepito dagli immigrati, ma poiché i risultati delle indagini considerate non concordarono sulle cifre precise, l’unica certezza sembrò essere il percepimento di una retribuzione inferiore a quella dei lavoratori italiani occupanti le stesse posizioni (soprattutto per i lavoratori clandestini) e l’invio di una parte del guadagno nel paese d’origine.

Riflessioni conclusive

In definitiva, mentre ancora i flussi migratori dal Mezzogiorno non avevano intrapreso la via del declino (soprattutto internamente), dal confine orientale venne richiamata manodopera da adibire nel settore secondario, nelle mansioni più faticose, che progressivamente venivano abbandonate dai lavoratori locali. La vicenda, già agli occhi della Pubblica amministrazione, non era determinata soltanto da una carenza di lavoratori nazionali disponibili ad occupare quelle posizioni, perlopiù precarie; ma dipendeva anche da una serie di elementi che caratterizzavano il contesto lavorativo regionale (ma anche nazionale), come ad esempio la carenza di alloggi. Gli amministratori della cosa pubblica, anche se non espressamente, si mostravano consapevoli del fatto che al Sud si sarebbe di certo trovata la manodopera disponibile a riempire gli spazi lasciati vuoti dai lavoratori friulani; e perciò meditavano delle strategie ‒ volte soprattutto a risolvere i problemi abitativi ‒ per incanalare il flusso di migranti meridionali verso la regione.

In effetti, come è stato messo in evidenza nel terzo capitolo, non era la precarietà o la fatica a far desistere il migrante del Mezzogiorno dall’accettare un’occupazione come quelle disponibili nel Friuli-Venezia Giulia. Esso sapeva perfettamente, alla luce dell’esperienza accumulata anche solo attraverso i racconti degli altri migranti, che quella situazione sarebbe stata solo transitoria, poiché rappresentava il canale abituale per accedere a posizioni meglio strutturate. Forse, dato il miglioramento delle condizioni di vita nella propria terra, i migranti erano effettivamente poco disponibili ad accettare di alloggiare in luoghi degradati alla fine degli anni Sessanta, ma non era di certo solo questo ad impedire una diramazione del percorso canonico (verso le mete classiche del Piemonte e della Lombardia); la formazione di bracci diretti verso una regione nuova, in cui era possibile trovare un lavoro.

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Concorse probabilmente al mancato incontro tra la domanda di lavoro friulana e l’offerta meridionale l’assenza di compaesani o familiari in quell’area, poiché, come appurato, la catena di richiamo era, in realtà, il modo più efficace per stabilire un contatto tra le zone in cui si verificava la carenza di manodopera e quelle in cui invece questa era in eccesso. Difatti, fu proprio questo stesso meccanismo a favorire l’arrivo di manodopera dal vicino stato slavo, dal quale già da tempo giungevano lavoratori. La vicinanza geografica e i rapporti che legavano la regione italiana al vicino stato, seppure estremamente complicati e non sempre buoni (era questo un retaggio del periodo fascista)255, avevano

infatti determinato un movimento continuo al confine in entrambe le direzioni e ciò aveva contribuito a intrecciare delle reti relazionali e lavorative tra i cittadini delle due aree.

Pesavano dunque profondamente sulla situazione che si stava verificando l’inefficienza del sistema di collocamento nazionale e l’incapacità della Pubblica amministrazione di organizzare e indirizzare i flussi di lavoratori meridionali. Allo stesso modo, l’impreparazione statale nel regolamentare l’ingresso di manodopera straniera, face in modo che, attraverso le lungaggini del sistema burocratico e la sostanziale ostilità all’arrivo degli jugoslavi, si sviluppasse un movimento clandestino di forza lavoro. Tanto le stime compiute in quel periodo, che quelle posteriori, mostravano infatti una profonda distanza tra il numero di permessi di soggiorno rilasciati per motivi di lavoro e il numero di lavoratori slavi ipoteticamente presenti.

In sostanza, l’arrivo di forza lavoro straniera sfuggiva quasi completamente al controllo statale e anche grazie a ciò fu possibile continuare a richiamare nel corso degli anni Settanta lavoratori dallo stato vicino. Ma, la precarietà dei lavori, unita al costo elevato del pernottamento nel territorio italiano e alla mancanza effettiva di alloggi (il problema non venne risolto), rese molto difficile lo stanziamento di questi migranti. Tra il censimento del 1970 e quello del 1980 non fu infatti riscontrato un aumento consistente della presenza jugoslava, nonostante già da tempo fosse stata accertata la loro partecipazione al mercato del lavoro regionale. Come già accadde per la manodopera italiana all’estero, anche questa forza lavoro organizzò il proprio soggiorno all’estero in modo temporaneo, ovvero praticando sia un pendolarismo giornaliero, che stagionale; oppure scegliendo di tornare in patria definitivamente dopo un periodo di lavoro in Italia.

Per concludere, l’incrocio tra flussi in uscita e flussi in entrata, al quale si assistette sul finire degli anni Sessanta, rappresentò il primo passo della transizione della Penisola a paese d’immigrazione. Le statistiche stilate negli anni successivi, come si vedrà nel prossimo capitolo, dimostrano infatti che, proprio a partire da questo periodo, ha inizio un cambiamento significativo, tanto nella quantità di stranieri presenti, che nella tipologia di migrante che giunge in Italia: gli arrivi riguardarono soprattutto cittadini dai paesi in via di sviluppo dal principio degli anni Settanta in poi.

255 Per avere un quadro chiaro della situazione al confine orientale si veda il saggio di ANNA MARIA VINCI,

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Parte seconda

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