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VI. L’immigrazione straniera La clandestinità dell’ingresso e del lavoro

5. La Sicilia e il Mazarese

In Sicilia, come in altre realtà italiane, la presenza di lavoratori stranieri, clandestini e non, iniziò ad aumentare nel corso degli anni Settanta.

La regione, che in quegli anni si contraddistingueva per l’arretratezza del sistema economico e per l’esodo di molti dei suoi abitanti, mostrava delle peculiarità rispetto allo sviluppo del fenomeno migratorio del resto d’Italia. Tra le altre regioni meridionali, che pure presentavano condizioni economiche simili e una storia d’emigrazione affine, risultò essere la prima a conoscere un’intensa immigrazione di lavoratori stranieri, probabilmente legata alla geografia del Mediterraneo, nel quale occupa una posizione centrale.

La funzione di porta d’accesso all’Italia e all’Europa, per quanti partivano dall’Africa, rivestì certamente un ruolo importante nel determinare l’arrivo dei primi migranti che, invece di proseguire il loro viaggio verso le mete più tradizionali dell’Europa centrale, si fermavano sull’isola. A trattenerli fu la prospettiva di un lavoro, in quello stesso sistema economico che invece spingeva fuori dai confini regionali e nazionali buona parte della propria forza lavoro. A partire dal 1968 iniziò a registrarsi la presenza di lavoratori nord-africani, mentre ancora i saldi migratori siciliani risultavano negativi348. Si

intrecciarono funzionalmente, fino a determinare la situazione paradossale appena descritta, la forza d’attrazione esercitata dall’estero sugli emigranti siciliani e la spinta di espulsione che nei paesi del

347Per la condizione abitativa degli stranieri dei PVS delle due città e per i quartieri in cui era più evidente la popolazione straniera a Milano si veda CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., pp.34-35; ACS, Ministero

dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1971/1975, 13/016,9 parte II, Stranieri, b.425, fasc. 15120/6 e

il saggio N. BERTOT, L’immigrazione straniera…, cit., pp. 377-378.

348Per approfondimenti sui saldi migratori della Sicilia e le migrazioni di ritorno, tra gli anni Sessanta e Settanta, si rimanda al saggio di MARIA SCUDERI e GIROLAMO SINERI, Sviluppo economico e movimenti di forza lavoro: i

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Nord-Africa agiva sui lavoratori. L’emigrazione dall’isola lasciò vacanti molti posti di lavoro nel settore primario, nei quali subentrarono quelli che sfuggivano da condizioni di miseria ancora più grave.

Tra il 1968 e il 1972 l’immigrazione, in particolare quella tunisina, conobbe un primo periodo d’espansione: erano circa 70 i tunisini che settimanalmente arrivavano in Sicilia. Il loro ingresso era ai limiti delle legalità, il visto turistico nascondeva non di rado il reale motivo d’arrivo, il lavoro. La precarietà delle prestazioni lavorative si tradusse nella instabilità della presenza africana sul territorio, che abbastanza prossimo alle sponde della madrepatria permetteva al migrante di ripetere stagionalmente la traversata del Mediterraneo. Contribuirono a determinare la temporaneità della presenza di forza lavoro maghrebina anche i tipi di impiego in cui inizialmente il migrante veniva occupato: la pesca e l’agricoltura349.

Dal 1972 il clima di tolleranza che aveva caratterizzato questa prima fase svanì. Le proteste dei disoccupati e dei sindacati siciliani determinarono un inasprimento dei controlli alla frontiera (principalmente arrivavano al porto di Trapani) e su quanti già si trovavano sul territorio isolano. Ebbe inizio una breve fase di contrazione dei flussi, che durò invero molto poco, se già dallo stesso anno la carenza di manodopera nel settore della pesca fece avanzare alla Associazione Liberi Armatori della pesca di Mazara, di concerto con le autorità della Marina di Trapani, la richiesta al Ministero della Marina Mercantile per la concessione di un nulla osta per l’imbarco di marittimi tunisini. Fu permesso ai natanti italiani di prendere a bordo “bassa forza” straniera, ma la precarietà delle condizioni degli immigrati, rispetto alla possibilità di accedere ad un permesso di soggiorno stabile attraverso questo tipo d’occupazione, determinò il ripristino delle modalità occupazionali già in precedenza sperimentate, ovvero il ritorno all’assoluta clandestinità di buona parte dei lavoratori stranieri350.

Il divario tra domanda e offerta di lavoro, che il settore della pesca e dell’agricoltura non smisero di presentare allorché si era optato per una restrizione degli ingressi, agì in modo tale da rinvigorire, tra il 1972 e il 1975, l’arrivo di manodopera dalla sponda sud del Mediterraneo. Fu in questo periodo che si saldarono gli assi principali dello sviluppo del fenomeno, che si estendevano su di un’area che da Palermo giungeva a Mazara del Vallo e che da Marsala percorreva tutta la costa sud dell’isola fino a Modica, senza soluzione di continuità.

Nel 1975 i controlli furono nuovamente intensificati. Il picco di arrivi dall’Africa raggiunto durante quell’anno si scontrò con il rientro di molti emigranti siciliani. Si diffuse presto il malcontento e la situazione esplose in alcuni episodi di xenofobia, in particolare in seguito al mitragliamento subito da un motopeschereccio mazarese da parte di una motovedetta tunisina, a causa del quale perse la vita uno dei marittimi italiani351. La tensione si protrasse fino alla metà del 1976, quando in occasione del

rinnovo dell’accordo di pesca italo-tunisino si calmarono gli animi e le migrazioni dalla sponda sud

349CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., pp. 81-85. 350Ibidem.

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ripresero a crescere. Per quell’anno il Censis contava 5000 marittimi tunisini solo nella provincia di Trapani: ufficialmente il totale degli stranieri residenti in Sicilia nel 1976 era di 5112352.

Tra i residenti, il 59% non esercitava alcuna attività. Il 18% era costituito da studenti, sportivi, religiosi, missionari, artisti e personale diplomatico Nato. La percentuale restante era formata invece dai lavoratori in senso stretto. Il personale domestico rappresentava da solo il 9,5% del totale degli immigrati ufficiali, seguito dagli impiegati privati (6%), dagli operai (3,5%) e da una piccolo gruppo (3,7%) comprendente i liberi professionisti, i medici, i giornalisti, gli infermieri, i commercianti, gli artigiani e i coltivatori agricoli353. Sebbene il numero ufficiale non rispecchiasse la realtà della

consistenza straniera, fu sintomatico, però, di una partecipazione dei lavoratori immigrati ad una gamma più ampia di occupazioni, non esclusivamente legate al settore primario. Il mercato del lavoro isolano aveva aperto nuove possibilità per nuove nazionalità.

Già nel 1976 accanto alla fetta più cospicua di migranti, rappresentata dai tunisini, si trovavano stranieri provenienti dall’Etiopia, da Capo Verde, dalla Somalia, dalle Filippine; e non mancavano i marocchini, gli algerini ed anche i pakistani354. Come per il resto d’Italia, le prima quattro nuove

nazionalità menzionate erano quasi totalmente assorbite nel settore della collaborazione domestica, che anche in Sicilia risultava essere quello con il maggior numero di regolarizzazioni.

La dilatazione delle possibilità lavorative coincise con l’estensione del fenomeno nel resto della regione. Pochi anni dopo si riscontrava la presenza di lavoratori stranieri in quasi tutta l’area del territorio siciliano. La densità maggiore di popolazione straniera venne riscontrata nell’area dei vigneti (zona di Marsala e altri comuni sparsi), sulla quale incideva soprattutto l’alta percentuale di stagionali. Alta era anche la concentrazione nei pressi della Base Nato della Sigonella, ma questa riguardava prevalentemente il personale della base. Rispetto alle realtà meno estese territorialmente i valori massimi furono toccati a Mazara del Vallo e a Canicattì (rispettivamente il 46 e il 41 per mille). Le aree metropolitane di Palermo e Catania, nonché gli altri capoluoghi di provincia, fatta eccezione per Agrigento, si attestarono ad un livello più basso, con valori compresi tra 1 e 5; tutte le restanti aree non superarono l’uno355. La distribuzione delle diverse tipologie di lavoratori fu strettamente legata alla

zona in cui la manodopera veniva richiesta: gli addetti ai servizi (soprattutto i collaboratori domestici) si concentrarono nei grandi e medi centri cittadini e nelle aree turistiche; gli addetti alla pesca e all’agricoltura nelle zone provinciali.

Alla velocità di propagazione spaziale non corrispose un ampliamento aggiuntivo delle opportunità lavorative. Da uno studio condotto nei primi anni Ottanta dal Centro Regionale Immigrati Stranieri (CRIS.)356, i braccianti, i pescatori, i manovali, i venditori ambulanti, gli uomini di fatica e i

352Ivi, p. 88.

353Ibidem. 354Ivi, pp. 91-92.

355VINCENZO GUARRASI, Prime valutazioni sulla presenza di lavoratori stranieri in Sicilia, in L’immigrazione

straniera in Italia, «Studi Emigrazione», n. 71, XX (settembre 1983), p. 360.

356I risultati dello studio sono riportati in diversi saggi in L’immigrazione straniera in Italia, «Studi Emigrazione», n. 71, XX (settembre 1983).

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collaboratori domestici risultarono ancora essere i mestieri preponderanti tra gli immigrati, soprattutto tra quelli provenienti dai paesi in via di sviluppo, nonostante tra loro fosse cresciuta verso la fine degli anni Settanta la percentuale di quelli in possesso di un titolo di studio357.

La gamma ristretta dei settori accessibili alla manodopera straniera mostrava, al suo interno, una sproporzione ulteriore tra le occupazioni: l’agricoltura, la pesca e l’edilizia assorbivano, regolarmente e non, la maggioranza dei lavoratori migranti. Tutti e tre i settori impiegavano prevalentemente cittadini tunisini. Il caso di Mazara del Vallo ne rappresentava l’emblema.

Il comune di Mazara, fu tra i primi a sperimentare l’utilizzo della manodopera nord-africana per colmare i vuoti che l’emigrazione e il rifiuto delle posizioni di “bassa forza” crearono nel settore della pesca. Benché, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, i tunisini presenti, particolarmente concentrati nel comune, fossero ancora in maggioranza giovani (tra i 20 e i 40 anni), instabili e clandestini, già si riscontrava la presenza di nuclei familiari e donne impiegate nel settore dei servizi358.

La presenza straniera si aggirava nel 1983 tra le 3000-3500 unità (nelle quali erano compresi anche un numero esiguo di marocchini, algerini ed egiziani), delle quali solo 800 risultavano residenti. I tunisini arrivavano nell’80% dei casi da due città: Mahdia e Lachebba.

Circa la metà dei presenti era occupata nel settore della pesca, sia come marittimi che per le attività di terra collaterali, seguivano in ordine di rilevanza numerica l’edilizia e l’agricoltura359.

Nel 1976 un marittimo tunisino che lavorava su un peschereccio mazarese arrivava a percepire uno stipendio che si aggirava intorno alle 400 mila lire, al costo, però, di uscite in mare di 8-10 giorni consecutivi, lavorando circa 20 ore al giorno. Pare che queste stesse condizioni abbiano spinto la manodopera locale, per il quale l’unico vantaggio rispetto alla manodopera straniera era la regolarità della situazione contributiva, ad abbandonare il settore in cerca di migliori opportunità. Solo per una percentuale minima dei migranti, che si aggirava intorno al 15% degli impiegati nel settore, la pesca rappresentava un’occupazione fissa e in questi casi il migrante tendeva a stabilizzarsi con la famiglia in Sicilia. Mentre per il 50%, il lavoro sui pescherecci veniva effettuato per cicli, che andavano dai 4 mesi ai 7-8 anni; molto alta era la mobilità intersettoriale a cicli alterni, in base alle necessità espresse dai tre settori d’occupazione principali360.

Nel comparto agricolo si presentava una situazione simile a quella della pesca. L’anzianità degli occupati locali nel settore richiamava molta manodopera straniera in maniera stagionale: il Censis ne stimava 10 mila (nelle stagioni di picco massimo) nel 1976, ma l’attendibilità della valutazione era compromessa irrimediabilmente dalla situazione di clandestinità in cui versava la maggioranza dei lavoratori, che non permetteva una stima affidabile.

357CENSIS, I Lavoratori stranieri…, cit., p. 92.

358Le informazioni relative alla struttura demografica sono riportate nei saggi di FRANCO VACCINA, Alcuni

aspetti dell’immigrazione tunisina a Mazara del Vallo; e di SERGIO VIZZINI, Su taluni aspetti demografici ed economici dell’immigrazione araba a Mazara del Vallo, entrambe in L’immigrazione straniera in Italia, «Studi

Emigrazione», n. 71, XX (settembre 1983). 359F. VACCINA, Alcuni aspetti…, cit., pp. 322-325. 360CENSIS, op. cit., p. 98.

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In conclusione, la precarietà e temporaneità della presenza straniera, soprattutto nord-africana, risultava essere un fenomeno altamente diffuso. Il senso di provvisorietà, che spingeva il migrante a mantenere vivo il rapporto con la madrepatria, fece in modo che al massiccio inserimento nelle attività lavorative, negli anni Settanta, non corrispondesse un eguale inserimento nel tessuto sociale e culturale del luogo d’arrivo. Fatta eccezione per i pochi casi concentrati nel Mazarese e di realtà ancora più piccole in altri centri, nel quale la più lunga tradizione d’immigrazione aveva portato ad una prima integrazione sociale, nelle restanti aree isolane il fenomeno si trovava ancora nei primi anni Ottanta al primo stadio dello sviluppo del flusso immigratorio. Ma la possibilità di occupazione richiamava costantemente quote di migranti, che durante il decennio successivo trovarono una maggiore stabilità.

Riflessioni conclusive

Il flusso proveniente dai paesi meno sviluppati, che iniziò a crescere dagli anni Settanta, modificò progressivamente il profilo della popolazione straniera presente in Italia. L’immigrazione assunse da quel decennio connotati più marcatamente economici, ma la clandestinità del fenomeno non permise agli organi ufficiali dello Stato di registrare il cambiamento in maniera rigorosa. Il nuovo scenario che si aprì per l’Italia allorquando dai PVS non giunsero più solo i rifugiati, ma una massa di lavoratori in cerca di migliori prospettive di vita, richiamava alla mente i flussi di manodopera dal Sud al Nord dell’Europa del ventennio precedente: gli stranieri extraeuropei si inserirono nelle vecchie reti tracciate da quella migrazione (con le stesse ambizioni), ma muovendosi questa volta in entrambe le direzioni, spesso irregolarmente.

L’esistenza di un canale in buona parte clandestino per l’ingresso al territorio e al mercato del lavoro, distinse il caso italiano da quello francese e tedesco. In questi paesi, che introdussero proprio nei primi anni Settanta delle restrizioni agli ingressi legali, l’afflusso di clandestini crebbe, ma i sistemi avanzati di controllo dell’immigrazione, che i due stati avevano sviluppato durante tutto il periodo precedente, diedero loro la possibilità di contenere i numeri rispetto all’impreparata Italia. Non si escludeva che, proprio a causa della più ferrea disciplina imposta dai due paesi dell’Europa occidentale, una parte dei flussi si fosse dirottata verso l’Italia, dove ancora la capacità di gestione del fenomeno era scarsa e l’immigrato aveva maggiori possibilità di rimanere indisturbato sul territorio.

Gli studi effettuati a livello locale, da enti parastatali e da diversi studiosi, permisero di stabilire le principali caratteristiche della nuova immigrazione: il lavoro straniero sembrava riguardare prevalentemente le occupazioni nel terziario, ma a livello regionale si scorgeva il coinvolgimento anche negli altri due settori dell’economia. L’esistenza di una componente immigrata anche nei settori primario e secondario (che soprattutto il caso friulano affrontato nel quarto capitolo ha messo in

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evidenza) ricordava ancora una volta il movimento migratorio dall’ Europa meridionale verso quella occidentale, benché ciò stesse avvenendo in Italia in dimensioni piuttosto ridotte e in un contesto storico diverso, apparentemente in contrasto con la situazione economica e la disoccupazione crescente che seguirono alle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979. Le logiche deduzioni alle quali si sarebbe potuto giungere, fermandosi solo allo strato superficiale della struttura economica e del mercato del lavoro del periodo ‒ quelle di una sostituzione della manodopera nazionale con quella straniera ‒, venivano smentite dall’indisponibilità della manodopera nazionale a ricoprire le mansioni che stavano al fondo della scala socio-professionale. Un altro tassello sembrò, inoltre, spiegare il richiamo esercitato dall’economia italiana sui lavoratori migranti: questo venne individuato nell’avanzata del decentramento produttivo, ancora ai suoi albori negli anni Settanta. I due elementi responsabili della crescita del coinvolgimento della manodopera straniera scaturirono da dinamiche interne alla struttura economica e dunque questa poteva spiegare perché l’Italia avesse modificato la sua posizione all’interno del contesto migratorio internazionale.

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