III. L’Italia tra emigrazione esterna ed interna La diminuzione dei flussi
1. I limiti della politica per l’emigrazione e le risorse dei migranti
1.2 La libera circolazione Cee e il fallimento delle migrazioni assistite
Una particolare attenzione va posta sullo sviluppo della disciplina riguardante lo spostamento di manodopera nella Cee. Già nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea, firmato a Roma nel 1957, era contenuto il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità. Secondo l’art. 48, par. 2, ciò avrebbe comportato «l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro»135. Più nello specifico, in tema di assunzione al lavoro, la par. 3 del
medesimo articolo configurava per i cittadini comunitari il diritto di «rispondere a offerte di lavoro effettive»136. Quest’ultimo punto lasciava però ampio spazio alle interpretazioni e poteva essere inteso
negli ordinamenti nazionali come un limite alle iscrizioni nelle liste di collocamento ai soli casi delle offerte di lavoro concrete ‒già espresse dai datori di lavoro. Altresì, la preminenza del principio di non-discriminazione anteponeva la possibilità d’iscrizione alle liste anche in assenza di posizioni lavorative rese disponibili.
Ogni dubbio di natura giuridica sugli articoli relativi alla libera circolazione di manodopera venne poi sciolto dal regolamento 1612/68137, che completava l’attuazione delle norme del Trattato del 1957.
L’art. 1 del suddetto atto enunciava che ad ogni cittadino di uno stato membro era garantito «il diritto di accedere ad un’attività subordinata e di esercitarla sul territorio di un altro stato membro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali di detto Stato»138. L’art. 3 precisava anche che qualora vigesse
nell’ordinamento giuridico nazionale dei singoli stati Cee un sistema di restrizione agli ingressi e di subordinazione dei lavoratori stranieri rispetto a quelli nazionali, questo non venisse applicato ai cittadini comunitari, per i quali valeva invece la totale equiparazione al lavoratore nazionale in materia di diritto al lavoro. In definitiva, decadeva per i cittadini comunitari il requisito di residenza per
135G. GAJA, La normativa comunitaria sull’accesso al lavoro, in G. GAJA, I lavoratori stranieri…, cit., p.123. 136Ibidem.
137Il regolamento è pubblicato in «Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee», 19 ottobre 1968, n. L. 257; in G. GAJA, La normativa comunitaria…, cit., p. 124.
86
l’iscrizione alle liste di collocamento139 e veniva riconosciuta, a quanti avrebbero effettuato
l’iscrizione, l’assistenza da parte degli uffici del lavoro al pari del cittadino del paese ospitante. L’affermazione della libertà d’accesso al lavoro per i cittadini Cee, per non rischiare di essere vanificata, venne affiancata dalla normativa concernente la liberalizzazione dell’ingresso e del soggiorno dei cittadini comunitari. Ai cittadini degli stati membri venivano poste quasi esclusivamente limitazioni all’ingresso e al soggiorno «giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica»140. Altre limitazioni riguardavano le possibili occupazioni alle quali accedere. Era
preclusa ai cittadini dei paesi comunitari nello stato ospitante la carriera nella Pubblica sicurezza e nella Pubblica amministrazione. In quest’ultimo caso due sentenze della Corte di giustizia del 1974 e del 1980, per evitare confusione e una restrizione eccessiva alla libera circolazione, puntarono ad armonizzare il concetto di Pubblica amministrazione tra i paesi Cee, limitando l’accesso alle posizioni lavorative in cui effettivamente le funzioni svolte avevano a che fare con la sovranità dello stato, ovvero quei posti che implicavano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e quelle mansioni che avevano come oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche141.
In sostanza, da quando nel 1957 venne avviato il processo di liberalizzazione dello spostamento di manodopera in ambito comunitario, per l’Italia non risultò più necessario firmare accordi bilaterali con i paesi Cee. Ma la libertà dei lavoratori di agire in autonomia divenne concreta solo a partire dalla fine degli anni Sessanta; dunque, mentre già il flusso verso l’estero di italiani iniziava a declinare. Prima, era un diverso procedimento a consentire lo spostamento di manodopera in ambito comunitario. Gli artt. 15-17 del regolamento del 1957 avevano stabilito un meccanismo di compensazione tra domanda e offerta di lavoro tra i diversi stati. Il sistema organizzato nei suindicati articoli prevedeva che i servizi nazionali di collocamento di ciascuno stato diramassero tra loro le domande di lavoro non soddisfacibili con la sola manodopera nazionale e le liste dei lavoratori i quali si erano dichiarati disponibili ad accettare un’occupazione in un altro paese. Lo stesso meccanismo previsto in sostanza con gli accordi bilaterali precedenti e anche successivi.
Ancora negli anni Sessanta, infatti, l’Italia dovette garantire ai suoi migranti la possibilità di emigrare fuori dalla Cee con la stipulazione di nuovi accordi, ad esempio: con la Svizzera, con il Canada e con l’Australia.
Formalmente, in tutti gli accordi siglati, il ruolo dello Stato italiano era quello di assistere l’emigrazione della manodopera, principalmente incanalando i lavoratori nazionali nel circuito legale di incontro tra domanda e offerta di lavoro pattuito con lo stato estero, per mezzo del sistema di collocamento nazionale. Ma, come ha spiegato Amalia Signorelli e come in parte è già stato messo in evidenza trattando dei flussi diretti verso i paesi dell’Europa occidentale, l’emigrazione assistita non riuscì mai a raggiungere il successo sperato, nonostante sulla carta garantisse al lavoratore migrante
139Ivi, pp. 125-126.
140Art. 48 del Trattato CEE riportato in Ivi, p 127. 141Ivi, p. 141.
87
una serie cospicua di vantaggi, quali la certezza dell’occupazione sul luogo d’arrivo, il godimento pieno dei diritti, la priorità d’assunzione ecc. Le migrazioni dall’Italia avvennero infatti spesso al di fuori di ogni sistema organizzato di controllo e reclutamento.
Alla base dell’insuccesso delle strategie statali per l’emigrazione assistita stavano di certo la lentezza delle procedure burocratiche e la rigidità dello scaglionamento nel tempo delle richieste d’assunzione, che mal si prestavano a rispondere ai bisogni economici immediati dei paesi d’immigrazione. Per questo motivo, in quegli stati con cui si erano conclusi accordi, in diversi casi, le autorità preposte alla regolazione dei flussi consentirono spesso che l’immissione della manodopera italiana (e non solo) nel mercato del lavoro nazionale avvenisse irregolarmente o clandestinamente e che in sostanza fosse l’iniziativa privata, tanto del datore di lavoro che del migrante, a definire la consistenza e i tempi dell’immigrazione. Come spiega la De Clementi: «tale era […] la voracità degli imprenditori che nessun intoppo [di natura burocratica] riusciva a fermarli. Sempre in Francia [i datori di lavoro] presero a fomentare l’immigrazione clandestina, e in Belgio, a fronte della sospensione delle partenze decretata [nei primi anni Cinquanta] dal governo italiano a seguito dell’ennesima sciagura mineraria mortale, aggirarono l’ostacolo facendo ricorso al reperimento individuale»142.
Secondo il Cnel (organismo pubblico con funzioni consultive per il Governo), che già all’epoca aveva studiato da vicino la questione, era però anche un altro il motivo del fallimento dell’emigrazione assistita: era un sostanziale «distacco dell’emigrato dalla gestione del collocamento e dalla politica dell’occupazione» a determinare la quasi totale spontaneità dei flussi migratori143. L’autonomia dello
spostamento era infatti un fenomeno che non riguardava solo l’emigrazione verso l’estero. Anche internamente si era tentata la gestione statale dei flussi, ponendo come punto di contatto tra domanda e offerta di lavoro gli Uffici provinciali del lavoro; e anche in questo caso, però, il progetto si era rivelato fallimentare. Il problema, sempre secondo quanto affermato nel rapporto Cnel, andava «individuato nel fatto che gli uffici del lavoro, di collocamento e reclutamento non offrono loro [ai lavoratori migranti] garanzie e servizi adeguati e rapidi (informazioni sulla possibilità e tipi di impiego, contratto e condizioni di lavoro, disbrigo delle pratiche, indennità, certificati ecc.)»144. Era dunque la
cattiva organizzazione del sistema di collocamento nazionale la causa del fallimento dell’emigrazione controllata.
Ma questa giustificazione è risultata altrettanto incompleta per diversi studiosi che si sono interessati al problema successivamente. Amalia Signorelli ad esempio, d’accordo solo in parte con quanto appena affermato, ha ricondotto il distacco della manodopera nazionale (soprattutto meridionale) dai canali istituzionali anche ad altri fattori (di natura giuridica ed economica), che segnarono i primi anni delle migrazioni nazionali ed internazionali e che compromisero il futuro della gestione politica del fenomeno.
142A. DE CLEMENTI, L’assalto al cielo…, cit., p. 219.
143A. SIGNORELLI, Movimenti di popolazione…, cit., pp. 610-614. 144Ivi, p. 612.
88 Secondo la studiosa:
esclusi dai benefici della legalità e della stabilità, gli immigrati meridionali elaborarono modelli di migrazione che tentavano di massimizzare per loro stessi i vantaggi dell’illegalità e della precarietà, come la rinuncia ad essere tutelati in cambio della monetizzazione del salario indiretto, […], l’organizzazione del turnover e delle partenze- rientri multipli […] e così via. Naturalmente, correlato ideologico di questa pratica dell’emigrazione fu l’aumento dell’estraneità e della diffidenza degli immigrati verso strutture pubbliche e il rafforzamento di quelle reti di relazioni private […].145
Sostanzialmente, per spiegare il fenomeno, la Signorelli ha ricollegato tutti quegli elementi caratteristici dell’immigrazione meridionale dei primi tempi, come: l’occupazione in posizioni precarie nell’edilizia e nel terziario, l’illegalità della presenza nelle città settentrionali prima dell’abrogazione della legge fascista sull’urbanesimo, la volontà di massimizzare i guadagni e i risparmi, la particolare capacità di ottimizzare il lavoro organizzando una forma molto complessa di pendolarismo. Dunque, per essa, il distacco dai canali ufficiali era anche figlio di quell’insieme di elementi che ostacolavano la stabilizzazione e l’integrazione del migrante, di cui si discuterà più accuratamente nei paragrafi successivi.
Questa tesi ha trovato appoggio sullo studio condotto fin dai primi anni Sessanta da Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino (1964). In questo testo, l’autore, oltre a fornire numerose informazioni sulla condizione precaria dei migranti meridionali, accennava ai problemi riguardanti il rapporto che quest’ultimi intessevano col sistema di collocamento nazionale. L’indagine, attraverso l’analisi dei dati relativi alle registrazioni presso l’Ufficio del lavoro, faceva emergere un’insolita divergenza: da un lato i migranti settentrionali risultavano in larga parte iscritti nelle liste di collocamento, dall’altra i lavoratori meridionali erano quasi totalmente assenti. Quest’ultimi, ha scritto Fofi, venivano «avviati al lavoro altrimenti, attraverso le loro conoscenze, le loro catene particolari»146.
In definitiva, veniva posto l’accento sull’esistenza di un vero e proprio sistema di collocamento alternativo a quello istituzionale, grazie al quale il movimento migratorio verso l’estero e il nord Italia riuscì ad ingrandirsi. Si trattava di reti di contatto tra gli stessi migranti, strutturate su due legami essenziali: la parentela e la compaesanità147.
Franco Ramella, in un suo saggio dedicato proprio all’argomento, ha raccontato attraverso le storie dei migranti i meccanismi interni al sistema delle «catene di richiamo» che sostituirono presto ‒ allorché i primi arrivati riuscirono a trovare una certa stabilità ‒ non solo i reclutamenti ufficiali, ma anche le altre trame non istituzionali intrecciate intorno ai sindacati, alle associazioni dei migranti, alle opere cattoliche o anche ai canali di reclutamento illegali.
145Ivi, p. 626.
146Ivi, p. 625. 147Ivi, p. 613.
89
Le storie di Domenico, Pasquale, Salvatore o Antonio, tutte ambientate nella Torino degli anni Sessanta, appaiono infatti esplicative del funzionamento di questo circuito148.Tutti loro scelsero la
meta da raggiungere affidandosi alle parole e alle promesse di parenti, amici e concittadini, che già da tempo si erano trasferiti in città. Partirono, soli o in compagnia di qualche altro giovane con le stesse aspettative, sapendo che al loro arrivo avrebbero trovato ospitalità o comunque pensioni o abitazioni per loro accessibili economicamente; e che poi, una volta lì, non sarebbe stato difficile trovare un’occupazione. Ma l’importanza di queste reti come strutture di modellamento dei processi migratori andavano ben oltre la fase di partenza e di arrivo nel luogo di destinazione. La loro funzione si rivelava efficace soprattutto nella mediazione offerta al migrante per l’inserimento vero e proprio nella società ospitante e nel mercato del lavoro.
I contatti con i quali i quattro uomini erano giunti in città avevano provveduto infatti ad inserire in nuovi arrivati in un mondo relazionale già predefinito e spesso connotato etnicamente; e fu sfruttando questo circuito di conoscenze che i giovani ebbero accesso a quasi la totalità dei lavori precari dei primi periodi ed anche alla definitiva occupazione nella grande fabbrica. Loro stessi si fecero poi prosecutori del medesimo schema d’inserimento, consentendo ai flussi di mantenersi vivi all’infuori di ogni piano di reclutamento.
La Signorelli parla di questo dispositivo come sorretto da forme di solidarietà e di reciprocità a carattere sia orizzontale che verticale, spiegando come le prime si manifestassero in presenza di una parità culturale e sociale tra chi si era già stabilito e chi veniva richiamato, mentre le seconde quando l’estrazione sociale del “chiamante” era superiore a quella del nuovo immigrato. Entrambe le strutture ressero l’emigrazione interna poiché, accanto alle classi inferiori, aveva preso parte al processo di inurbamento anche la borghesia rurale. All’estero, invece, le catene di richiamo si verificarono solo nella forma orizzontale, dal momento che il ceto medio non partecipò a questo spostamento149.
In conclusione l’attività politica per l’emigrazione servì soprattutto a garantire lo sviluppo di un diritto internazionale favorevole allo spostamento di manodopera italiana verso i paesi più sviluppati del mondo occidentale. Nondimeno, sul piano pratico, le istituzioni pubbliche fallirono il tentativo di organizzare i flussi, che nella sostanza proseguirono grazie alle reti alternative che i migranti avevano intrecciato.
Queste si rivelarono essere le principali forme di contatto tra il mercato del lavoro estero e settentrionale e la manodopera in fuga dalle campagne, sia durante il periodo di massima espansione dei flussi che durante la fase discendente. Ma proprio questo aspetto, come vedremo nel capitolo seguente, si rivelò determinante nel rallentare l’azione della Pubblica amministrazione una volta messa a confronto con l’arrivo di lavoratori dall’estero.
148FRANCO RAMELLA, Immigrazione e traiettorie sociali in città: Salvatore e gli altri negli anni Sessanta, in F. RAMELLA e ANGIOLINA ARRU (a cura di), L’Italia delle migrazioni interne: donne, uomini, mobilità in età
moderna e contemporanea, Roma, Donzelli, 2003.
90
Dunque, nonostante tutte le incertezze presenti sul piano politico, la grossa migrazione verso l’estero e verso i poli industrializzati della penisola ebbe luogo. I due flussi però, come già anticipato, si distinsero per molti aspetti e furono accomunati da molti altri. Di seguito si cercherà di evidenziare le caratteristiche principali di ognuno e si racconterà come e perché entrambi gli spostamenti di popolazione iniziarono a diminuire sul finire degli anni Sessanta.