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Verso un nuovo sistema economico

II. La costruzione del mercato del lavoro italiano

4. Verso un nuovo sistema economico

Gli anni Sessanta si chiusero all’insegna di forti turbolenze che attraversarono la società e l’occupazione industriale. Tra il 1968 e 1973, la disoccupazione si manteneva entro la soglia già toccata alla fine della crisi congiunturale del 1963, mentre ancora proseguiva quella tendenza alla marginalizzazione della componente femminile e giovanile imboccata al momento della ristrutturazione interna alla fabbrica. Accanto a questo elemento di continuità, a minacciare l’ordine stabilito e a far apparire questo periodo come l’esordio di quella transizione ad una società e ad un’economia nuove, che si compirà solo negli anni Ottanta, affioravano altri fattori di tensione.

In Italia l’occupazione nell’industria aumentò tra il 1967 e il 1971 del 2,9%, mentre quella manifatturiera del triangolo industriale salì, da sola, del 6,4% ˗ ma tale aumento, come si è già appurato, riguardò solo la manodopera maschile nella fascia d’età centrale ˗100. Allo stesso modo

continuò a crescere il livello di produttività dei fattori di produzione, anche se più lentamente che in passato, sia in quell’area specifica che a livello nazionale, innescando un nuovo periodo di crescita. La battuta d’arresto del 1963-1965 sembrava ormai riassorbita e relegata alla condizione di una mera parentesi di uno sviluppo che in realtà era da ritenersi continuo e costante. Troppi erano però gli elementi che invece facevano apparire quella breve crisi come prefigurante un punto di rottura che

99A. GRAZIANI e E.PUGLIESE, Investimenti e…, cit., p. 200. Scrivevano Vincenzo Cosentino e Roberto

Fanfani nel loro studio sull’aspetto dello sviluppo dell’agricoltura nel Mezzogiorno: «non risultano casi estremi quelli di persone che simultaneamente si configurano come lavoratori in diversi settori oltre che conduttori della propria azienda (quindi probabili datori di lavoro) e allo stesso tempo percettori di pensioni. La loro attribuzione ad una determinata categoria statistica, la stessa appartenenza ad un determinato settore di attività (agricoltura, costruzioni, commercio, ecc.) risulta molto incerta e comunque dipendente dalla stagione che si prende in considerazione».

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avrebbe apportato una svolta nell’economia nazionale, e che però ancora tardava a manifestarsi. Le scelte politiche e imprenditoriali prese per superare l’impasse di quel tempo e le modificazioni che intanto si stavano verificando nel mondo operaio e nella società, tracciavano un sentiero tutto nuovo che conduceva a risultati più che mai lontani da quella che era stata l’Italia postbellica, sulla quale il vecchio modello di sviluppo venne impiantato.

L’accentuarsi del conflitto industriale era il sintomo di questa frattura, particolarmente evidente nelle regioni Nord-occidentali. Anche se tale conflittualità non fu una prerogativa italiana, poiché interessò indistintamente tutti i paesi del mondo industrializzato, sulla penisola ebbe un’intensità e una durata maggiori101. Questa radicalità traeva origine dalla mescolanza di una serie di caratteri in parte

strettamente legati al mondo industriale e in parte discendenti da problemi strutturali che caratterizzarono la società italiana durante tutta la fase di inurbamento.

Sul primo versante, paradossalmente, fu proprio la selettività imposta dalla ristrutturazione a rappresentare un’arma a doppio taglio per gli imprenditori, che in essa avevano invece rintracciato la soluzione per attuare la crescita della produttività risparmiando sul costo del lavoro: restringendo il cerchio della forza lavoro impiegabile, fu consentito al gruppo operaio di acquisire una maggiore forza contrattuale. La classe operaia, strutturatasi soprattutto nei maggiori centri dell’Italia settentrionale negli anni del boom economico e irrobustita dalla forza di mercato dei lavoratori ˗ grazie al repentino aumento della domanda verificatosi a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta ˗, già nei primi anni Sessanta era riuscita a migliorare la propria condizione retributiva a scapito del profitto. Ma la mancanza di un forte sindacato e la momentanea instabilità economica mitigarono le prime avvisaglie di un capovolgimento dei rapporti di forza tra la classe imprenditoriale e dei lavoratori. Verso la fine del decennio la posizione degli operai si era invece ulteriormente rafforzata e, sostenuta da un contesto di per sé pronto ad esplodere, non attese molto prima di incanalarsi in un movimento di protesta, che si scandì con un alto grado di virulenza soprattutto nelle grandi città industriali. L’autunno del 1969 segnò l’apice e insieme l’avvio di un più ampio periodo di conflittualità e di rivendicazioni, che perdurarono per tutta la prima parte del decennio successivo.

Il movimento che si organizzò in quegli anni non aveva come solo obiettivo quello di aumentare i redditi dei lavoratori. I sentimenti e l’ideologia dal quale prendeva le mosse erano molto più articolati e nascevano da tutta una serie di insoddisfazioni non riguardanti solo il rallentamento degli aumenti salariali che seguì la crisi. Il nuovo ritmo del lavoro al quale i lavoratori erano sottoposti, come anche l’esclusione dal potere organizzativo in fabbrica e la più generale emarginazione vissuta da un’ampia fascia di operai fuori di essa (si trattava della massa di migranti meridionali) animavano i sentimenti della classe operaia, ai quali si aggiungevano i sostegni ideologici del mondo intellettuale, corroborati

101Lo scarto tra l’Italia e gli altri paesi industriali era piuttosto evidente, per la prima i giorni di sciopero per 100.000 occupati nel periodo 1968-1973 furono 113.901, al secondo posto si posizionavano gli Stati Uniti con circa 57 mila giorni, seguiti dalla Gran Bretagna con meno di 50 mila, mentre negli altri stati industrializzati non veniva superata la quota di 20 mila. Ancora tra il 1974 e il 1979 l’Italia si posizionava al primo posto, con circa 80 mila giorni di sciopero, mentre nessuno degli altri paesi giungeva a più di 50 mila giorni. I dati si trovano in C. TRIGILIA, Dinamismo privato…, cit., p. 717.

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dalla risonanza delle agitazioni che allora scuotevano il mondo studentesco. In definitiva, ciò a cui il movimento mirava era un miglioramento generale delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori. Lo scarso livello di istituzionalizzazione delle relazioni industriali e di sindacalizzazione che avevano segnato tutti gli anni Cinquanta e buona parte degli anni Sessanta, rendevano l’agitazione praticamente autonoma rispetto ad ogni forma di controllo, e ciò spiega chiaramente i motivi per i quali la lotta si protrasse tanto a lungo anziché riassorbirsi immediatamente. Inoltre, gli stessi sindacati una volta compresa la potenza della riscossa operaia, anziché mitigare l’azione rivendicativa, la cavalcarono e proprio agganciandosi ad essa riuscirono ad ottenere il riconoscimento come importante controparte tra i principali attori della gestione economica nazionale, ovvero lo Stato e gli imprenditori102. A quel

punto i fronti sul quale l’azione per i diritti dei lavoratori si svolse divennero due: da un lato il movimento operaio autonomo continuava la lotta (fatta di scioperi e di altre forme di protesta) per l’ottenimento di cambiamenti normativi riguardanti le prestazioni lavorative; dall’altro i sindacati pressavano le istituzioni affinché si arrivasse all’attuazione di un ampio piano di riforme relative alla condizione sociale dei lavoratori di tutte le categorie103.

Era il periodo dei governi di centro-sinistra. Questi, che già avevano fallito il piano di riforme dibattuto durante il periodo precedente (il periodo della “programmazione”), si trovarono costretti, per evitare di deludere ulteriormente l’elettorato socialista e quello cattolico ‒ sempre più vicini dal punto di vista delle rivendicazioni, grazie anche alla stretta alleanza che univa nel frattempo i sindacati che li rappresentavano ‒, a cedere alle pressioni che giungevano dai lavoratori e dai loro rappresentanti. Sul fronte istituzionale la vittoria sindacale fu suggellata con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, che impegnava i datori di lavoro al rispetto dell’intero apparato di regole in esso contenute, relative sia ai diritti dei lavoratori che all’azione sindacale. Non meno importanti furono la riforma del sistema pensionistico del 1969 e tutta la serie di norme varate tra il 1968 e 1972 in materia di trattamento speciale di disoccupazione o riguardanti la cassa integrazione straordinaria; infine anche l’accordo, tutto rivolto alla difesa dei salari dalla crescente inflazione, che nel 1975 sancì l’unificazione per tutte le categorie di lavoratori del punto di contingenza nel meccanismo previsto dalla scala mobile, che indicizzava le retribuzioni ai prezzi dei beni104. In generale, il maggiore

impegno richiesto allo Stato in ambito previdenziale ottenne importanti risultati, dei quali nel corso degli anni Settanta poté beneficiare tutta la popolazione, grazie alle diverse forme di tutela del reddito e di prestazioni sociali (sia per effetto della cassa integrazione e della scala mobile, nonché per l’elargizione delle pensioni di vecchiaia e d’invalidità), che garantirono un certo grado di benessere anche nelle fasi di crisi più intensa che interessarono il decennio. D’altra parte l’aumento della spesa

102Per approfondire gli aspetti relativi ai fattori che originarono “l’autunno caldo” si rimanda al saggio C. TRIGILIA, Dinamismo privato…, cit., pp.713-777; per approfondire invece i modi e i tempi in cui si scandì

l’azione sindacale nell’Italia repubblicana si rimanda al saggio IDA REGALIA e MARINO REGINI, Sindacato e

relazioni industriali, in F. BARBAGALLO, Storia dell’Italia…, cit., pp. 779-836; e MICHELE SALVATI, Occasioni

mancate. Economia e politica in Italia dagli anni ’60 a oggi, Bari, Laterza, 2000, pp. 37-41.

103A. GRAZIANI, Lo sviluppo dell’economia…, cit., p. 91. 104C. TRIGILIA, Dinamismo privato…, cit., pp. 732-736.

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sociale, verificandosi in assenza di un aumento considerevole delle entrate fiscali, si tradusse in un crescente deficit della bilancia statale che negli anni successivi diventò un serio problema per lo Stato e le istituzioni.

Il ciclo di lotte ebbe nondimeno un impatto immediato anche sul versante più specificamente relativo alle prestazioni di lavoro nel comparto industriale: le pattuizioni alle quali si giunse fecero aumentare considerevolmente i salari, ridurre le ore di lavoro per addetto (di circa il 12% tra il 1968 e 1974) e posero un freno alla mobilità del lavoro (vennero infatti posti maggiori vincoli al licenziamento). Nel complesso questi elementi aggravavano la situazione del settore, determinando un abbassamento delle quote di profitto. Ancora una volta l’industria si trovò a dover scongiurare gli effetti di una pesante ondata di aumenti salariali senza poter scaricare sul prezzo dei prodotti gli aumentati costi di produzione; almeno fino al 1973, quando lo shock petrolifero portò al crollo definitivo del sistema internazionale dei cambi fissi e lo Stato dichiarò la moneta fluttuante.

Fu in questo periodo che iniziò a profilarsi una nuova ristrutturazione, della quale allora si ebbe solo il sentore e che avvenne, stavolta, all’insegna di una progressiva riconversione tecnologica interna, accompagnata dallo scorporo di intere fasi e reparti della lavorazione. La grande industria italiana si apprestava a modificare il suo volto e il suo ruolo di spugna nel mercato del lavoro nazionale. Intanto su altri fronti si percepivano i segni di una transizione verso una nuova Italia.

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