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Investimenti e mercato del lavoro nel Mezzogiorno

II. La costruzione del mercato del lavoro italiano

3. Investimenti e mercato del lavoro nel Mezzogiorno

La performance dell’economia meridionale nel periodo intercorso tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta ebbe una natura ambivalente. Da una parte si ridusse la distanza con la zona centro- settentrionale della penisola in quanto a redditi, investimenti nel settore industriale e valore aggiunto dell’industria manifatturiera. Per altro verso il divario rimase invariato nella capacità d’occupazione e nella forte dipendenza dall’assistenzialismo statale. All’ ondata di investimenti che si verificò in seguito al cambio di indirizzo della politica economica statale, non corrispose infatti un altrettanto soddisfacente aumento dell’occupazione di forza lavoro locale, né un miglioramento della bilancia dei pagamenti regionale, che anzi peggiorò88.

Augusto Graziani, ripercorrendo i risultati ottenuti dal processo d’industrializzazione nel Mezzogiorno, tentò di fornire un chiarimento di quanto accadeva. Secondo lo studioso l’opportunità di rilanciare definitivamente l’economia meridionale non fu perduta a causa dell’insufficienza degli investimenti realizzati. La spiegazione risiedeva invece nella direzione che i capitali presero e negli effetti che scaturirono da tale scelta, ripercuotendosi sulla struttura generale dell’economia. Gli investimenti crebbero infatti considerevolmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, passando dal 15,7% del 1951 al 43,9% del 1973 del totale di quelli effettuati a livello nazionale89.

Ad impiegare risorse nella creazione di un settore industriale moderno al Sud furono soprattutto le imprese a partecipazione statale, anche se non mancarono all’appello i privati (soprattutto sul finire degli anni Sessanta). L’imponente mole di finanziamenti destinati al Mezzogiorno, incise profondamente sulle trasformazioni dell’assetto industriale di quest’area. Infatti, se ancora negli anni Cinquanta la piccola impresa tradizionale per la produzione di beni di consumo occupava un posto di primo piano nell’arretrato settore industriale meridionale, con l’ingresso nell’economia locale dell’imprenditoria di Stato e dei grandi gruppi settentrionali cominciò a farsi largo l’industria pesante, giungendo a rimpiazzare, per importanza e capacità di occupazione, buona parte dell’esistente.

I settori che beneficiarono delle agevolazioni fornite dallo Stato e dell’impiego diretto di risorse pubbliche, in maniera pressoché esclusiva, furono quelli metallurgico, chimico, petrolchimico e della grande meccanica ˗ ovunque nel Mezzogiorno la percentuale degli investimenti nell’industria di base negli anni Sessanta superava il 75% del totale locale; in alcune regioni sfiorava addirittura il 90%90.

Quasi del tutto esclusa da questo ciclo poderoso d’investimenti fu invece l’industria leggera. Ma la strutturazione di industrie del tipo indicato, se permetteva al settore di ammodernarsi

88Nel 1973 ancora il reddito medio per abitante nel Mezzogiorno era pari al 64,2% della media nazionale, dunque nettamente inferiore a quello delle altre regioni. A. GRAZIANI, Il Mezzogiorno nel quadro dell’economia

italiana, in A. GRAZIANI e E.PUGLIESE (a cura di), Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 12-13.

89A. GRAZIANI, Lo sviluppo dell’economia…, cit.

90Tab. 3, Investimenti industriali nel Mezzogiorno per regione e per gruppi di settori, 1951-61 e 1962-68, in A. GRAZIANI, Il Mezzogiorno…, cit., p, 24.

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tecnologicamente, non risolveva i problemi occupazionali del Meridione, data la limitata capacità di assorbire manodopera di quei settori specifici, tutti ad alta intensità di capitale. Ciononostante, la creazione di grandi impianti industriali riuscì ad attirare quote crescenti di manodopera locale e infatti, tra il 1961 e il 1971, l’occupazione dipendente permanente nel settore manifatturiero ˗ tipica dei grandi impianti di lavorazione, quali furono quelli dell’industria di base ˗ aumentò del 24,6% nelle unità locali con più di 100 addetti. Nel frattempo iniziò a diminuire la quota nelle unità minori, nelle quali era maggiormente diffusa la produzione di beni di consumo ˗ sempre nello stesso periodo il comparto indicato perse il 12,4% degli addetti91. In generale si riscontrò la diminuzione del tasso d’occupazione

meridionale nell’industria in senso stretto (costruzioni escluse) sul totale nazionale: questa passò dal 19,7% del 1951 al 17,9% del 197392. Proprio per questo motivo lo stesso Graziani poté parlare di uno

«sviluppo senza occupazione»93 in riferimento all’industrializzazione del Mezzogiorno.

Il grande piano di rilancio industriale non diede i frutti sperati nemmeno in rapporto al risanamento dell’economia. Ancora nei primi anni Settanta i conti delle regioni meridionali risultavano in passivo e la situazione si era addirittura aggravata, facendo aumentare la dipendenza dell’intera area dai buoni risultati dell’economia delle altre regioni. Ad acuire la già grave condizione della bilancia dei pagamenti regionale contribuirono tutte le voci, ma a presentare il problema più serio fu la pessima condizione della bilancia commerciale. All’esiguità delle esportazioni nette corrispondeva un aumento sostenuto delle importazioni94. Il problema era evidentemente connesso all’aumento della richiesta di

beni strumentali e di consumo prodotti nelle regioni settentrionali e all’assenza di un’industria per la fabbricazione di prodotti da inserire sul mercato nazionale, capace di pareggiare i conti. In sostanza, ad incidere negativamente sul deteriorarsi della bilancia dei pagamenti fu soprattutto il mancato sviluppo dell’industria leggera.

La domanda di liquidità crebbe nel momento in cui venne avviata l’espansione industriale; di riflesso diventò più consistente la domanda globale. Quest’ultima venne inoltre sostenuta dagli investimenti improduttivi attuati dallo Stato nel settore dei servizi, nonché dalla sostanziosa politica assistenziale condotta dallo stesso e dall’arrivo delle rimesse di quanti erano emigrati, che portarono ad un generale miglioramento dei redditi delle famiglie. L’apertura del mercato meridionale rappresentò un’occasione ghiotta per le industre più avanzate del Nord, che colsero immediatamente le possibilità di guadagno e vi penetrarono. Poiché nessun sostegno era stato dato alla crescita e alla modernizzazione delle locali imprese produttrici di beni di consumo le aziende settentrionali trovarono nel Mezzogiorno la strada spianata, senza incontrare concorrenza. Queste imprese si inserirono non solo dove la domanda era più consistente (nei pressi delle aree di nuova industrializzazione), ma entrarono capillarmente sul territorio, cercando di ammortizzare, anche con i guadagni meno consistenti delle zone più depresse, i

91A. GRAZIANI, Il Mezzogiorno…, cit., pp. 17-29.

92Si veda per le percentuali di tutti gli anni compresi tra le due date la Tabella 1, in A. GRAZIANI, Il

Mezzogiorno…, cit., p. 19.

93Ivi, p. 17.

94A. GRAZIANI e E.PUGLIESE, Investimenti e…, cit., p. 50. Tab. 13, Mezzogiorno. Saldo dei conti con l’esterno in

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costi sostenuti per l’avviamento dell’organizzazione commerciale. Una spinta così ingerente ebbe il risultato di accelerare sia il declino delle ditte più strutturate che delle professioni artigiane (già iniziato nel decennio precedente).

In altri ambiti la scelta di espandere il settore dell’industria pesante e di base, senza prestare attenzione al futuro di quella leggera, sortì effetti distorcenti sull’economia e sul mercato del lavoro locale. Innanzitutto, i salari più elevati che la moderna industria elargiva strapparono alle imprese artigiane locali la manodopera, danneggiando irrimediabilmente la possibilità di crescita delle aziende produttrici di beni di consumo. Secondariamente ed in modo indiretto, lo sviluppo dell’industria diede un ulteriore impulso alla crescita di settori come l’edilizia, la distribuzione commerciale, la produzione dei servizi (per manutenzione di impianti e macchinari e sia di utilizzazione immediata per il consumo), i quali però si caratterizzavano per la precarietà, i bassi salari e l’incapacità di far progredire qualitativamente la forza lavoro, facendo permanere di fatto i lavoratori in una posizione di marginalità economica e sociale.

Lo sviluppo di settori poco stabili incise profondamente sulla realtà economica e sociale delle regioni meridionali e sull’emigrazione. Ad assumere un ruolo cruciale nei cambiamenti avvenuti nell’economia e nel mercato del lavoro locale, fu innanzitutto il comparto delle costruzioni. Questo si caratterizzava per la precarietà dell’occupazione che era capace di fornire; nondimeno, commisurata alla scarsa remunerazione del lavoro agricolo, nel primo trentennio postbellico per molti agricoltori e artigiani rappresentò un’importante opportunità. Già negli anni Cinquanta, quando buona parte dei fondi diretti verso il Mezzogiorno vennero spesi in opere pubbliche e infrastrutture, l’edilizia si espanse, richiamando lavoratori dall’agricoltura e dall’artigianato. Costoro, però, videro presto deluse le aspettative di miglioramento della propria condizione professionale e del tenore di vita. La temporaneità dell’occupazione, i bassi salari e la fatica, non lasciavano spazio alla possibilità di considerare definitiva la permanenza nel settore; e il fatto che non esistessero possibilità occupazionali, oltre a quelle già abbandonate, manteneva i lavoratori in una condizione di sotto-occupazione, difficilmente accettabile per una società in evoluzione.

L’emigrazione, in una simile situazione, non poteva che costituire l’alternativa migliore, tanto più che proprio negli anni Cinquanta si aprirono molte possibilità lavorative nei vicini stati europei e nell’Italia settentrionale. In poco tempo prese corpo un flusso consistente di manodopera verso quelle mete e ciò permise progressivamente all’economia locale di limitare gli affanni. Ancora negli anni Sessanta l’edilizia continuava a rappresentare un polmone temporaneo per la disoccupazione locale: accanto alle opere pubbliche, l’urbanizzazione (modesta rispetto al resto d’Italia), l’industrializzazione, la terziarizzazione dell’economia e l’arrivo delle rimesse dei migranti portarono all’espansione dell’edilizia abitativa95. Ma la capacità di trattenere manodopera sul territorio dell’industria pesante,

95Secondo i dati forniti da Augusto Graziani il numero degli occupati nel settore delle costruzioni passò da 364 mila del 1951 a 668 mila nel 1973, invece secondo quelli forniti da Enrico Pugliese gli stessi passarono da 359 mila a 724 mila. I dati sono contenuti in A. GRAZIANI, Il Mezzogiorno…, cit. e in E. PUGLIESE, Evoluzione della

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grazie ad occupazioni più stabili e meglio retribuite, si rivelò assai scarsa e di conseguenza le partenze non si arrestarono.

Gli stessi elementi che avevano stimolato la crescita dell’edilizia, favorirono contemporaneamente la diffusione delle attività commerciali, poiché nel complesso risollevarono i redditi della popolazione locale, aumentando i consumi. Ma a rendere possibile il fenomeno dell’urbanizzazione e il cambiamento nelle abitudini della spesa della popolazione meridionale furono principalmente le nuove possibilità occupazionali offerte dalla pubblica amministrazione. Il settore dell’impiego pubblico, sia nelle posizioni più elevate della dirigenza amministrativa che nelle mansioni più basse dei servizi diretti alla popolazione, nel corso del trentennio postbellico crebbe prepotentemente. La percentuale di reddito prodotto nel Mezzogiorno dalla pubblica amministrazione passò dal 12,8% nel 1951 al 14,6% nel 1961, al 16,3% nel 1973 e l’incidenza degli occupati in tale settore salì dal 5,8% del 1951 all’11,2% del 197396.

L’estensione dell’apparato burocratico-amministrativo rispose in parte all’urgenza di attenuare le tensioni del mercato del lavoro e infatti, a fronte di una popolazione numericamente inferiore rispetto a quella del resto d’Italia, l’aumento dei dipendenti pubblici risultò al Sud maggiore che altrove (nelle altre regioni la percentuale di occupati tra il 1951 e il 1973 passò dal 5,8 al 9,5%). Ovviamente il settore non poteva assorbire tutta la disoccupazione locale, ma riuscì in altro modo a ridistribuire la ricchezza laddove non poteva offrire direttamente un lavoro: fu l’assegnazione di pensioni, in particolare d’invalidità, a giocare un ruolo importante per la capacità di integrazione dei redditi e di creazione del consenso sociale. In uno studio condotto nel 1977, la studiosa Ada Collidà, notò infatti che la particolarità dei trasferimenti pubblici alle famiglie, nel Mezzogiorno, non era tanto l’elargizione di una quota di pensioni superiore al resto del paese, ma una maggiore consistenza della percentuali di pensioni d’invalidità rispetto al totale locale dei trasferimenti (circa il 40%), mentre molto ridotta era la quota delle di quelle di vecchiaia (circa il 20%)97. A ogni modo, anche lo sviluppo

delle attività commerciali non poteva ritenersi un segno netto di miglioramento delle condizioni generali, poiché gli stessi commercianti, soprattutto nelle aree più depresse, erano costretti ad integrare il reddito dedicandosi a lavori in altre attività.

Solo gli impiegati pubblici e gli operai stabilizzati nella grande fabbrica potevano ritenere la loro condizione professionale realmente migliore di quella passata, ma la situazione di queste due categorie non rispecchiava certo lo stato in cui versava la fetta più consistente della popolazione, costretta e p.116. Nonostante la discordanza nel numero fornito dai due studiosi si è ritenuto che la crescita dell’occupazione nell’edilizia fosse stata realmente molto consistente, soprattutto se si tiene in considerazione che in generale nel resto d’Italia il settore mostrò una forte espansione nello stesso periodo per motivi affini a quelli individuati dai due studiosi sopracitati. Per l’importanza assunta dall’edilizia abitativa e in generale del settore veda il saggio di GIUSEPPE DEMATTEIS, Le trasformazioni ambientali e territoriali, gli anni del

«miracolo economico»: il territorio polarizzato, in F. BARBAGALLO, Storia dell’Italia…, cit., pp. 661-674. 96E. PUGLIESE, Evoluzione della struttura…, cit., p. 84.

97La spesa complessiva per il Mezzogiorno in quanto a pensioni distribuite rappresentava il 31,9% del totale nazionale. Inoltre la studiosa, a riprova che la sua intuizione relativa al ruolo dei trasferimenti come fonte di reddito, individuava i lavoratori autonomi come i maggiori beneficiari delle pensioni d’invalidità. Lo studio è riportato in E. PUGLIESE, Evoluzione della struttura…, op. cit., pp. 90-92.

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invece a destreggiarsi tra mille mestieri pur di veder migliorare il proprio reddito. In merito alla questione, sul finire degli anni Settanta Enrico Pugliese scrisse:

Trent’anni addietro sottosviluppo e arretratezza nel Mezzogiorno significavano latifondo, rendita parassitaria, fame e miseria. Ora non c’è più il latifondo, la proprietà terriera legata alla rendita agraria conta sempre di meno, due terzi dei braccianti e dei contadini poveri del Mezzogiorno se ne sono andati: rimane invece il sottosviluppo. Un sottosviluppo con caratteristiche profondamente diverse, ma anche con profonde analogie: di esse le più importanti dal punto di vista dell’analisi di classe sono il carattere parassitario delle classi dominanti e la disaggregazione delle classi subalterne.98

Il mercato del lavoro, infatti, si presentava negli anni Sessanta decisamente modificato rispetto al passato, ma molto più complesso e nonostante un avanzamento delle condizioni di vita, la precarietà risultava ancora l’elemento dominante tra gli strati inferiori della forza lavoro.

Come accadde nel resto d’Italia, anche al Sud alla pauperizzazione della classe agricola corrispose il processo di inurbamento della società, ma ancora agli inizi degli anni Settanta il bracciantato appariva molto diffuso rispetto al resto d’Italia. I contadini diminuirono del 65% tra il 1951 e 1973, ma nello stesso periodo i braccianti persero solo il 28% della propria consistenza, rappresentando ancora agli inizi del decennio il 68% circa del totale nazionale della categoria. Il settore agricolo non risultava particolarmente progredito, se non in alcune aree pianeggianti che avevano beneficiato delle bonifiche degli anni Cinquanta; rivestiva però ancora un ruolo importante nell’economia locale per la capacità occupazionale.

I dati naturalmente nascondevano una realtà decisamente più complessa. L’ufficialità della posizione di bracciante agricolo mistificava l’effettiva condizione del lavoratore, il quale svolgeva la propria attività anche in altri settori: come manovale generico nell’edilizia o come addetto stagionale nell’industria e nel terziario. Non era nemmeno insolito che anche coloro che risultavano impiegati nel settore edile o nel commercio praticassero la professione di agricoltore. Questa diversificazione dell’attività lavorativa dipendeva, in ognuno dei casi indicati, dalla necessità di ovviare ai redditi molto modesti che gli impieghi suddetti erano in grado di garantire. Sulle motivazioni che indussero i lavoratori a scegliere di ufficializzare la loro posizione in almeno una delle categorie indicate non c’erano però dubbi: lo scopo era di accedere alle garanzie previdenziali e assicurative previste dallo Stato. Lo scollamento tra la situazione ufficiale del mercato del lavoro e la realtà del lavoro nel Mezzogiorno oltrepassava i confini di queste posizioni e si riproponeva sotto una miriade di professioni dichiarate solo ai fini contributivi, che occultavano la frammentarietà del lavoro. Anche la classe dei lavoratori autonomi, sia che si trattasse di artigiani, di lavoranti a domicilio (sarti,

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ricamatrici ecc.) o di coltivatori diretti, non faceva eccezione in questo contesto99. Ancora negli anni

Sessanta e Settanta disaggregazione e precarietà erano dunque le due caratteristiche principali dell’occupazione meridionale per gli strati inferiori della popolazione.

Questi elementi minano ancora oggi, sensibilmente, la possibilità di ricostruire il quadro dell’occupazione meridionale secondo standard rigorosi e per mezzo delle fonti ufficiali, impedendo inoltre di raccontare, in base a dati reali, la sostanza del miglioramento del reddito, che di certo avvenne anche per coloro i quali furono costretti ad arrabattarsi tra diverse professioni, come testimoniano diversi cambiamenti collaterali intervenuti in quegli anni nella società meridionale e dei quali si noteranno gli effetti soprattutto a partire dagli anni Settanta, quando lo spostamento di popolazione inizierà a modificare il suo volto e a presentare sul mercato del lavoro giovani con livelli di scolarizzazione più alti dei vecchi migranti.

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