III. L’Italia tra emigrazione esterna ed interna La diminuzione dei flussi
2. Ritorni e ridimensionamento dei flussi migratori verso l’estero
L’emigrazione di lavoratori verso l’estero si distinse da quella verso mete nazionali principalmente per l’elevata incidenza delle migrazioni di ritorno: di quanti partirono tra il 1946 e 1970 circa il 70% tornò poi in Italia150. Andreina De Clementi non ha avuto esitazioni nell’affermare che, in parte, una
percentuale così alta di rientri era da attribuirsi ad una metamorfosi dell’atteggiamento del migrante italiano in terra straniera, ovvero ad una maggiore riottosità nei confronti del contesto lavorativo e sociale del paese ospite rispetto alle passate migrazioni. Tale cambiamento, a detta della stessa, era verosimilmente connesso «all’irruzione a vele spiegate dello Stato in un ambito fino ad allora dominato dall’iniziativa privata»151, che in qualche modo deresponsabilizzava il lavoratore immigrato
dalla scelta compiuta e che gli garantiva una condizione di protezione tale da rendere legittimo il rifiuto della posizione lavorativa e il ritorno in patria. Ma, appunto, ciò fu vero solo in parte, poiché furono anche altri gli elementi che determinarono la percentuale molto alta di ritorni.
Già le modalità secondo cui le migrazioni si svilupparono nel corso del tempo ampliano lo spettro delle spiegazioni possibili ad un simile evento. Una rilevazione Doxa del 1973, su un campione di 606 rimpatriati, attestava l’alta percentuale (circa il 70%) di persone che espatriavano e poi rientravano più volte. Ciò significa che un’interessante forma di pendolarismo distingueva questi flussi152. Erano,
infatti, molti i migranti che reiteravano nel tempo le partenze e i ritorni e che in sostanza alternavano stagioni di lavoro, più o meno lunghe, all’estero a periodi di permanenza in patria. Scrive la Signorelli rispetto a questa peculiarità:
all’interno di questa fascia si devono distinguere una molteplicità di percorsi possibili, da quello nel quale il ripetersi degli espatri corrispondeva ad una serie di tentativi reiterati nel tentativo poco fruttuoso di risolvere i propri problemi, a quelli in cui l’espatrio temporaneo veniva, per così dire, istituzionalizzato dal soggetto che lo praticava, vista la persistente impossibilità per lui di reperire un’occupazione soddisfacente in patria, ma anche
150 Il saldo migratorio definitivo per l’Europa dell’intero periodo fu negativo, ma a fronte dei circa 4,5 milioni di espatriati, furono circa 3 milioni i rimpatriati. A. SIGNORELLI, Movimenti di popolazione…, cit., pp. 590-658. 151A. DE CLEMENTI, L’assalto al cielo…, cit., p.229.
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l’impossibilità di trasferire con sé la famiglia all’estero; e c’era infine l’espatrio multiplo organizzato dal soggetto come vero e proprio part-time annuale, che poteva abbastanza facilmente integrarsi con un’altra occupazione, un reddito e interessi conservati in patria.153
La spiegazione di una simile situazione va ricercata in quello che può essere definito lo schema del processo delle migrazioni di Böhning154, al quale si uniscono le possibilità di integrazione offerte dal
sistema ospitante ‒ di tutti e due questi elementi si è già accennato nella parte relativa all’immigrazione nei paesi dell’Europa occidentale.
Dall’ Italia partirono in un primo momento soprattutto i giovani maschi delle zone interne dell’Appennino, ai quali subito dopo si aggiunsero gli uomini più adulti, ma non mancarono anche le donne. L’innalzamento degli standard di vita nei paesi più avanzati stava, infatti, comportando un abbandono da parte della manodopera femminile locale di alcuni lavori tipici per questa componente, come ad esempio la collaborazione domestica. Per questa specifica mansione venne dunque richiamata forza lavoro dall’estero e furono tante le italiane che scelsero di partire e di impegnarsi in questa occupazione155. Non tutti, tra questi migranti, disposero però immediatamente della possibilità di farsi
raggiungere dalle famiglie per una disparata serie di motivi, inscindibilmente legati alle possibilità d’integrazione nella società e nel mercato del lavoro del paese d’arrivo.
Innanzitutto, a causa della difficoltà incontrata nel trovare un’occupazione ben strutturata. Fino agli anni Sessanta, per quanti giungevano dalla campagna italiana le possibilità di essere assunti in fabbrica erano poche, poiché l’espansione industriale che alimentava la domanda di lavoro applicava ancora dei meccanismi selettivi che favorivano la manodopera locale. Negli anni Cinquanta, dunque, per i migranti le opportunità di lavoro riguardavano occupazioni nell’agricoltura e nelle miniere, nell’edilizia e nelle posizioni più basse del settore terziario (ma in misura molto ridotta), che comportavano condizioni di lavoro non meno dure di quelle lasciate in patria, ma davano la possibilità di un guadagno superiore. Il lavoro c’era ed era abbondante e la marginalità della posizione assunta non aveva di certo alcuna importanza per chi non aveva mai nemmeno sperato in così tante occasioni lavorative156. In quegli stessi anni anche nell’Italia settentrionale la situazione non si presentava
migliore per il migrante meridionale: come all’estero l’immigrato non trovava che occupazioni precarie tra le quali destreggiarsi pur di garantirsi un reddito. Eppure, a differenza di quanto succedeva per il flusso diretto in Europa, i ritorni erano molto meno consistenti.
Sulla formulazione di un circuito circolare della migrazione di manodopera italiana all’estero incisero evidentemente anche altri fattori, come, ad esempio, l’emarginazione sociale. La totale estraneità del migrante nella località d’arrivo ne causava l’isolamento, situazione che all’estero, per motivi culturali e ancor prima linguistici, risultava più desolante: «…io preferirei stare in Italia settentrionale [anziché
153Ivi, p. 607.
154Per l’argomento si rimanda al capitolo I.
155A. DE CLEMENTI, L’assalto al cielo…, cit., pp. 222-223 e pp. 251-252. 156A. SIGNORELLI, Movimenti di popolazione…, cit., pp. 620-623.
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in Germania]. Loro sono nella mia lingua», affermava un giovane meridionale157. Specialmente il forte
pregiudizio nei confronti dei lavoratori immigrati, espresso più duramente nei confronti di quelli provenienti dal Mezzogiorno, tanto nei paesi europei quanto al Nord ostacolava l’integrazione con la popolazione locale. In entrambi i casi, i nuovi arrivati erano relegati in una condizione subordinata e di ghettizzazione, che si estrinsecava non solo attraverso i giudizi fortemente negativi (percepiti dal migrante, fuori dai confini nazionali, come un accostamento alla bestialità, e anche all’interno come un annullamento dell’individuo e una mancata considerazione), ma anche attraverso forme effettive di disparità di trattamento rispetto ai locali: divieto di entrare nei pubblici esercizi, indisponibilità ad affittare alloggi e ancora molte altre micro forme di discriminazione158.
Ciononostante, uno scarto considerevole separava la possibilità di stanziarsi nell’Italia settentrionale da quella di restare stabilmente all’estero, e due erano gli elementi sui quali tale disparità si fondava: la questione della cittadinanza e il tipo di regolamentazione vigente nei diversi stati rispetto all’ingresso e al soggiorno di lavoratori stranieri. All’estero i migranti italiani non avevano accesso ai diritti propri del cittadino (solo in un secondo momento vennero tutelati almeno per quanto riguardava il diritto del lavoro) e la loro situazione era disciplinata da norme specifiche, piegate di volta in volta agli orientamenti politici prevalenti nelle amministrazioni, le quali sceglievano come gestire l’immigrazione in base alle esigenze economiche e sociali. Ad esempio, la Francia, destinazione verso la quale i flussi si diressero principalmente fino ai primissimi anni Sessanta, richiamava circa un terzo della manodopera italiana per impiegarla in lavori stagionali; e la RFT, prevedendo un vero e proprio meccanismo a rotazione per l’impiego di manodopera straniera, limitava le possibilità di stanziamento a quanti vi si recavano per lavorare. Inoltre, in quasi tutti i casi, trattenersi oltre i termini contrattuali (o oltre i periodi accordati per trovare una nuova occupazione) significava per il migrante scadere nella totale illegalità, e in quanto fattore di rischio questo aveva nel ritorno la sua più naturale conseguenza; anche se non è esclusa la possibilità che alcuni scegliessero di fermarsi comunque, magari trovando un’occupazione non garantita. L’accentuato andamento fluttuante degli spostamenti fu assai rilevante proprio in conseguenza di questi innumerevoli fattori. Ma, come scrive la De Clementi «tra il salto nel buio verso il triangolo industriale e il pendolarismo stagionale d’oltralpe, se veniva preferito quest’ultimo era perché offriva salari più alti e costi di mobilitazione assai contenuti, ma soprattutto la certezza del rientro, un rapporto ininterrotto con la terra e un immediato miglioramento del tenore di vita»159.
Le migrazioni e i ritorni rimasero consistenti anche nel corso degli anni Sessanta, nonostante proprio allora iniziarono a schiudersi maggiori possibilità occupazionali per i lavoratori italiani nel settore industriale; e tutta una serie di tutele venne progressivamente garantita grazie all’azione della politica statale160. Paradossalmente, però, mentre la posizione dei lavoratori italiani all’estero iniziava a
157Ivi, p. 644.
158Ivi, p. 643.
159A. DE CLEMENTI, L’assalto al cielo…, cit., p. 248. 160E. PUGLIESE, L’Italia tra migrazioni…, cit., p. 23.
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stabilizzarsi e si ufficializzava la libera circolazione della manodopera Cee (1969), anche le partenze iniziarono a calare.
Sulla graduale caduta delle emigrazioni influirono sia fattori esterni che interni. Nel primo caso, l’aumento di lavoratori provenienti da paesi extracomunitari ridusse per i datori di lavoro dei paesi d’immigrazione la convenienza ad assumere manodopera comunitaria. Il problema fu espresso chiaramente dal Ministero del lavoro nel 1971: «i motivi per cui viene eluso il principio della priorità nel mercato comunitario sono molteplici, sia di ordine economico […], sia di ordine organizzativo […]. Quanto ai motivi di ordine economico, sembra incontestabile che, per molti aspetti, i lavoratori provenienti da Paesi terzi godono di un trattamento salariale e previdenziale inferiore a quello dei lavoratori di provenienza comunitaria»161. Secondariamente, a frenare l’uscita dai confini nazionali fu
il marcato miglioramento delle condizioni di vita interne che investì tutta l’Italia. Anche al Sud, dove in realtà il flusso rimase comunque consistente, l’integrazione di più fonti di reddito iniziava a frenare quella propensione ad emigrare mostrata nel corso dei decenni precedenti.
Le migrazioni dal Mezzogiorno verso l’estero proseguirono infatti anche nel decennio successivo, ma in maniera più debole e con nuove caratteristiche: accanto a coloro che partivano ancora agli inizi degli anni Settanta per svolgere lavori precari e stagionali, persone più qualificate si affiancarono per entrare in posizioni meno marginali; assieme ad essi una quota più consistente di familiari iniziò a spostarsi e a raggiungere quei lavoratori che nel periodo precedente erano riusciti a stabilizzare la loro posizione. Dal 1973, però, quando gli stati dell’Europa occidentale, spinti dalla forte crisi economica che colpì le economie capitaliste, recisero i canali d’accesso al lavoro per la manodopera straniera, il flusso di pendolari andò esaurendosi e in poco tempo il numero dei rientri incontrò e superò quelle delle uscite. Ad alimentare quei flussi rimasero, dunque, in netta maggioranza le altre due componenti. I saldi migratori invertirono da quel momento il loro segno e l’Italia, anch’essa colpita dal crollo dei vecchi equilibri, dovette prepararsi a far fronte alla riallocazione nell’economia nazionale di quanti rientravano definitivamente.