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VI. L’immigrazione straniera La clandestinità dell’ingresso e del lavoro

1. Le vie della clandestinità

L’accesso alla Penisola non risultava difficile per gli stranieri che intendevano arrivarci e poi trovare un’occupazione. La permeabilità dei confini nazionali era infatti piuttosto accentuata e interessava diverse aree del territorio nazionale. Inoltre, nonostante la severità con la quale la Pubblica amministrazione sembrava agire nei confronti delle contravvenzioni alla disciplina sull’ingresso e il soggiorno, le possibilità per i migranti economici di dimorare in Italia irregolarmente erano vaste. La frontiera orientale, dunque, non era l’unico varco penetrabile e il Friuli-Venezia Giulia non era l’unica regione in cui venne appurata l’esistenza di una realtà nascosta alla pubblica autorità. In una nota inviata dalla Divisione polizia di frontiera (Ministero dell’interno) al Ministero degli affari esteri, nell’aprile del 1972, venne comunicato l’arrivo nel porto di Palermo di una nave della società di navigazione “Tirrenia”, partita da Tunisi e con a bordo 300 passeggeri di varie nazionalità, di cui 141 tunisini e 77 marocchini, 66 dei quali sprovvisti dei requisiti per entrare in Italia311. Nonostante non

fosse necessario il visto d’ingresso per i cittadini maghrebini, la mancanza di mezzi di sostentamento propri e del biglietto di ritorno e l’incapacità di fornire un motivo valido che giustificasse l’ingresso in Italia, fecero in modo che le autorità di pubblica sicurezza ne decretassero il respingimento. Secondo lo stesso documento, i 66 migranti marocchini erano giunti in Italia per esercitare l’attività di venditori ambulanti, di «tappeti e chincaglierie di pseudo fattura orientale», illegalmente312; dunque per lavorare.

I termini del problema risultavano però più ampi. Nello stesso testo veniva infatti denunciato l’incremento dell’afflusso illegale di cittadini marocchini, che arrivavano o ritornavano in Italia (dopo essere stati allontanati più volte) sbarcando non solo in Sicilia, ma anche in altri porti, come quello di Genova; e non mancavano gli ingressi via terra dalla frontiera italo-francese.

Il riferimento ad una frontiera valicabile al confine con la Francia, rimandava indirettamente ad un altro problema, percepito con altrettanta lucidità dalle autorità italiane. Un documento del 1972 e tutta la corrispondenza che vi seguì313, posero in risalto la vicenda di 56 indiani diretti in Inghilterra

dall’Italia, ai quali venne rifiutata la possibilità di transitare sul suolo francese. Un telegramma ministeriale successivo, del gennaio del 1975314, riconfermò l’irrigidimento delle autorità francesi nei

confronti dei migranti. Questo esordiva con la constatazione di un respingimento abituale dei clandestini provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente e continuava affermando l’esistenza di un passaggio clandestino del confine italo-francese per mezzo di taxi o automezzi che, partendo dalla

311ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1971/1975, 13/016,9 parte II, Passaporti e

visti d’ingresso, b.425. fasc.15115/2.

312Ibidem.

313ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1971/1975, 13/016,9 parte II, Stranieri, b.425, fasc. 15120/1.

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Lombardia, dal Piemonte e dalla Liguria, carichi di cittadini provenienti dal Terzo Mondo, trasportavano i migranti in Francia.

Claudio Calvaruso315 ha evidenziato, in un breve resoconto sullo stato dell’immigrazione in Spagna

nei primi anni Settanta, la presenza a Barcellona di un numero imprecisato di migranti, che scelsero quella meta non solo per la struttura industriale lì posizionata, ma anche per la vicinanza alla frontiera francese, nella speranza di oltrepassare il confine; e volendo dar seguito all’osservazione appena riportata per spiegare il contenuto del telegramma ministeriale suindicato, anche l’Italia, nello stesso periodo, rappresentò probabilmente per i migranti del Terzo Mondo un luogo di passaggio. Ciò confermava indirettamente il dirottamento dei flussi dai paesi dell’Europa occidentale verso quella mediterranea.

Ma un’inchiesta prodotta nei primi anni Ottanta smentisce in parte quanto appena affermato: per la maggioranza degli intervistati provenienti dal Nord Africa l’Italia fu una meta secondaria, poiché avevano già esperito l’emigrazione in altri paesi europei o africani; mentre per coloro che percorsero distanze medie o lunghe rappresentò l’unica tappa o quantomeno la prima316. Inoltre, per la prima

categoria di migranti fu riscontrata la volontà o di spostarsi ulteriormente o di rimanere in Italia per un lungo periodo, per la seconda, invece, prevalse l’intenzione di voler tornare in patria non appena fosse stato messo da parte abbastanza denaro da reinvestire nel paese d’origine. Dunque, non può ritenersi del tutto vero che la Penisola abbia rappresentato solo una meta di passaggio per i migranti giunti negli anni Settanta; poiché le informazioni fornite dall’inchiesta appena riportata danno invece sostegno all’idea (già espressa dal Ministero dell’Interno nel 1972) che il movimento maghrebino alla frontiera italo-francese avvenisse in entrambi le direzioni.

Lo spostamento dei migranti dalla Francia verso l’Italia segnalava, a sua volta, una sfumatura importante dei flussi migratori che si andarono definendo dagli anni Settanta: una volta giunto alla prima destinazione, il migrante, a causa dell’instabilità della sua condizione, prolungava nel tempo il moto, anche ampliandone il raggio oltre i confini dello stato d’approdo, verso gli altri paesi avanzati del continente europeo. L’Italia, dove i migranti arrivarono anche dopo esser passati da altri stati avanzati, non fu solo un semplice scalino per raggiungere le mete classiche, poiché si dimostrò capace di attirare e trattenere quote non irrisorie di quei flussi che, partendo dall’esterno, intrecciavano un’ulteriore rete all’interno dell’Europa.

Un ruolo cruciale, per la scelta dell’Italia come meta, fu giocato dalla difficoltà incontrata dalla Pubblica sicurezza nel sorvegliare il territorio e i confini nazionali ‒ i migranti giungevano clandestinamente per mare e per terra nei modi più ingegnosi, ma molto spesso arrivavano con visti turistici che mascheravano la natura economica della loro migrazione. La stampa non mancò di denunciare una certa indulgenza delle autorità nei confronti di quanti arrivavano o si trovavano in

315CLAUDIO CALVARUSO, I lavoratori clandestini: verso un nuovo modello di migrazioni internazionali, in UGO MORELLI (a cura di), Movimenti migratori e mercato del lavoro, Milano, F. Angeli, 1981, p.147.

316L’informazione è stata reperita nell’intervento di Nereo Bertot, facente parte dell’IRPEOS, in L’immigrazione

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Italia. In un articolo giornalistico, dell’agosto del 1966, venne riportata la notizia dell’arrivo di sette guerriglieri venezuelani muniti di visto turistico, già rifiutati in Spagna. Fu specificato che l’Italia, secondo i sette uomini, rimaneva uno dei pochi luoghi ancora “democratici”, dove potersi sentire al sicuro. Il giornalista, Lucio M. Orazi, commentava la vicenda in questo modo: “chiederanno asilo politico e, visto come stanno le cose qui da noi, è facile che lo ottengano. La Spagna, dunque, non ha voluto riceverli nemmeno per le sei ore che è durata la sosta della nave. Il nostro Paese sembra, invece, tutto felice di accoglierli”317. Traspariva dalle parole del giornalista una sorta di rimprovero alla facile

concessione dell’asilo politico, come prassi comune, mentre dal commento dei sette guerriglieri emergeva la constatazione che l’Italia fosse una meta di facile approdo.

Negli anni Sessanta appariva, dunque, significativo il problema dell’atteggiamento dello Stato rispetto ai richiedenti asilo e ciò a causa del maggiore afflusso di questa componente. Ma dagli anni Settanta fu il comportamento di fronte al nuovo tipo d’immigrazione ad attirare l’attenzione della stampa. Un articolo uscito nel 1975, in un giornale locale lombardo318, trascrisse l’intervista fatta ad un ragazzo

eritreo regolarmente presente a Milano. Il giovane Teodoro affermava che molti dei suoi connazionali vivevano in città irregolarmente o clandestinamente e che il controllo da parte delle forze dell’ordine non era rigoroso, l’importante era non farsi notare troppo, perché il permesso lo avrebbero rinnovato, a detta del ragazzo, solo «a quelli che sono simpatici, altrimenti c’è il foglio di via»319. Un altro articolo

dello stesso anno, sempre uscito sulla stampa lombarda, notificò l’espulsione di venti etiopi sprovvisti del permesso di soggiorno, rintracciati in una pensione a Milano320. Quest’ultimo fatto sembrerebbe

contraddire quanto affermato dal ragazzo eritreo rispetto ai controlli blandi, ma, in realtà, i venti uomini espulsi erano stati sorvegliati dai carabinieri per molto tempo prima dell’intervento, poiché dediti ad attività illecite (il gruppo si era fatto notare). Dai due articoli riportati trapelava una diversificazione del comportamento delle forze di polizia: l’intervento rigoroso avveniva in caso di minaccia all’ordine pubblico, mentre una linea morbida veniva adottata nei confronti dei migranti che, pur trovandosi illegalmente in Italia, vivevano la loro vita rispettando la società ospitante. L’azione della Pubblica amministrazione, appariva, difatti, contraddittoria, poiché ad una linea formalmente rigida, seguiva poi un atteggiamento più flessibile.

317ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti dal ’44,1964/1966,13/016,6 parte III, Ingresso e

soggiorno in Italia, b. 294, fasc. 15381/80.

318Anche in questo caso non si dispone dei nomi dei quotidiani in cui sono stati pubblicati gli articoli a cui si fa riferimento, ma sono riportati in copia in ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, fascicoli correnti

dal ’44,1971/1975, 13/016,9 parte II, Stranieri, b.425, fasc. 15120/6.

319Ibidem. 320Ibidem.

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