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Prime avvisaglie della crisi Le donne fuori dal mercato del lavoro

II. La costruzione del mercato del lavoro italiano

2. Prime avvisaglie della crisi Le donne fuori dal mercato del lavoro

La crisi aveva provocato profonde fratture nell’assetto economico delineatosi nel dopoguerra, determinando rilevanti modificazioni nell’azione degli imprenditori. Dopo la frenata dei primi anni Sessanta ripresero gli investimenti, ma in proporzione al periodo precedente la loro quota sul prodotto interno lordo appariva ridimensionata e il rapporto capitale-lavoro risultava invariato. Nonostante ciò le esportazioni italiane aumentarono (raddoppiando tra il 1963 e 1969) e la bilancia commerciale tornò in attivo. Questa ulteriore crescita dell’economia e della produzione industriale, a differenza di quella precedente, non ebbe all’origine un’espansione della base produttiva, poiché determinanti si rivelarono invece le nuove scelte organizzative messe in campo dalla classe imprenditoriale77.

Ad uscire realmente modificato dalla crisi congiunturale dei primi anni Sessanta fu il processo di produzione. Si trattò, nella sostanza, di una ristrutturazione interna alla fabbrica, soprattutto nella grandi imprese, che avvenne all’insegna della razionalizzazione della produzione in pieno stile taylorista: venne aumentato il ritmo del lavoro, si fece uso esteso del lavoro straordinario e di incentivi individuali.

L’opera di riorganizzazione fece comunque proseguire l’acquisizione di manodopera, soprattutto di quella poco qualificata proveniente dal Mezzogiorno, che ben si prestava alle nuove modalità di lavoro,

77Accanto alla ristrutturazione interna alcune imprese attuarono strategie di sopravvivenza diverse, ad esempio la fusione tra la Montecatini e la Edison nel 1966 (avvenuta in seguito alla nazionalizzazione dell’energia elettrica); inoltre dai primi anni Sessanta i grandi gruppi imprenditoriali iniziarono ad esportare quote di capitale all’estero. In generale, un’importante frattura era avvenuta tra politica e mondo imprenditoriale, l’apertura a sinistra della DC e le prime nazionalizzazioni intimorirono gli imprenditori, che temevano un’intrusione sempre più ampia dello Stato nell’economia. G. BRUNO, Le imprese industriali…, cit. e A. GIANNOLA, L’evoluzione della

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ma rallentarono i ritmi di assorbimento del settore. Tale sviluppo iniziò a minare le possibilità di travaso di lavoratori dall’agricoltura all’industria, ma il risvolto più interessante non fu la stretta alle assunzioni, quanto piuttosto la selettività imposta dalle nuove modalità di lavoro rispetto alla manodopera da impiegare ˗ uomini nel «fiore dell’età»78 ˗. Questo cambiamento fece sì che alcune

sezioni del mercato del lavoro venissero spinte ai margini definitivamente. L’opera di riorganizzazione coincise in pratica con l’espulsione dalla fabbrica di un’importante quota di lavoratori non in grado di sostenere i nuovi ritmi: le donne, gli anziani e i giovanissimi, e furono costoro che andarono ad ingrossate le file della forza lavoro inattiva79.

Tra il 1960 e il 1970 il totale delle forze di lavoro diminuì di circa un milione di unità. Grazie ai dati Istat sull’occupazione in base alla condizione professionale e al sesso, risultò chiaro, già a quanti tentarono di spiegare il fenomeno negli anni Settanta, che la diminuzione del tasso d’attività e d’occupazione era inscindibilmente legata all’uscita dal mercato del lavoro di una quota consistente di donne. Infatti, la componente femminile presentava una riduzione che equivaleva quasi interamente a quella complessiva degli occupati, mentre il tasso d’attività maschile restava quasi invariato80. Il

fenomeno, come già accennato, non trovava corrispondenza in nessun altro paese europeo industrializzato.

La peculiarità del caso italiano attirò perciò l’attenzione degli studiosi, che nel tentativo di dare un’interpretazione razionale dei dati ufficiali, elaborarono spiegazioni diverse e spesso divergenti. Il comportamento dell’offerta e della domanda di lavoro fu il terreno comune sul quale i diversi punti di vista si confrontarono. Da un lato la tesi ‘offertista’ spiegò l’accaduto rintracciando la causa della ritirata femminile nelle condizioni di maggiore benessere della popolazione. Secondo questa ipotesi, un solo salario era sufficiente a garantire il mantenimento dell’intero nucleo familiare, permettendo alla donna di dedicarsi interamente alle cure della famiglia. Dall’altro lato veniva avanzata invece la tesi specularmente opposta (‘domandista’): non una consapevole scelta si nascondeva dietro quanto stava accadendo, ma una debolezza propria dell’apparato produttivo italiano, la quale in primo luogo si rifletteva sulla forza lavoro femminile, che storicamente presentava caratteristiche di secondarietà sul mercato del lavoro. Secondo i sostenitori di questa tesi, la partecipazione delle donne alla forza lavoro era strettamente condizionata dagli andamenti congiunturali dell’economia e la sua debolezza ne comportava l’espulsione ciclica81. Né una e né l’altra trovarono però piena conferma nella realtà82.

La diminuzione del tasso d’attività si era mostrata più alta nel Mezzogiorno, dove invece minore era stata la diffusione del benessere, e ciò contraddiceva irrimediabilmente la tesi ‘offertista’, almeno come spiegazione capace di cogliere l’interezza del fenomeno. Infatti, ciò non escludeva che una parte delle donne, non determinabile quantitativamente, scegliesse di rimanere volontariamente, per motivi

78E. PUGLIESE ed E. REBEGGIANI, Occupazione e disoccupazione…, cit., p. 83. 79Ivi, pp. 75-95.

80In appendice è possibile visionare direttamente le serie storiche dell’Istat relative all’occupazione in Italia. 81E. PUGLIESE, Gli squilibri..., cit., p. 446.

82 BRUNO DALLAGO, L’economia irregolare. Economia «sommersa» e mercato irregolare del lavoro in sistemi

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legati ad una condizione di benessere, fuori dal mercato del lavoro83. Anche quella ‘domandista’

perdeva la sua validità dopo che una nuova chiave d’analisi venne presa in considerazione. Il nuovo spunto fu offerto dalla teoria della segregazione occupazionale, la quale sosteneva l’idea di una divisione tra ruoli e occupazioni maschili e femminili: le donne, poiché adibite a particolari mansioni del processo produttivo e in specifici settori, proprio perché uniche addette dei comparti alle quali prendevano parte risultavano necessarie e dunque non eliminabili. Se tale divisione si fosse riscontrata anche in Italia avrebbe sciolto la componente femminile dai problemi congiunturali e fornito un nesso più sicuro sul quale costruire una spiegazione. Bisognava insomma scovare i settori specifici e le mansioni ricoperte dalla manodopera femminile.

Secondo i dati forniti da Luigi Frey (1976), oltre il 70% dell’occupazione femminile nell’industria manifatturiera riguardava il settore tessile/abbigliamento84. Questa sezione dell’industria, non

riuscendo a reggere la competizione internazionale a causa dell’inefficienza di una struttura produttiva antiquata, già dai primi anni Cinquanta aveva iniziato a ristrutturarsi espellendo una piccola parte di manodopera. Dopo una breve fase di ripresa, il settore accusò un nuovo colpo, questa volta causato dalla crisi congiunturale del 1963, dopo la quale ebbe luogo una ulteriore riorganizzazione. Quest’ultima avvenne aumentando notevolmente il potenziale tecnologico, ovvero meccanicizzando parti della lavorazione prima affidate alle operaie, e avviando un primo decentramento produttivo, che portò all’esclusione di molta più manodopera dal processo di produzione registrato ufficialmente. Furono dunque le vicende di questo settore a risultare determinanti per la diminuzione dell’occupazione esplicita femminile85. A questo evento si aggiungeva quanto intanto stava accadendo

negli altri settori dell’industria manifatturiera, nei quali già la presenza di donne figurava meno consistente. In questo caso la selettività imposta dalle ristrutturazioni interne significò l’allontanamento della manodopera femminile dalla fabbrica, soprattutto nel senso di chiudere a questa ogni possibilità d’accesso una volta persa la vecchia posizione. Il grande problema dell’incompatibilità tra tipo di domanda che si andava delineando al momento della ristrutturazione e l’offerta di lavoro femminile non riguardava, secondo Renata Livraghi, né i salari ( addirittura quelli femminili sarebbero stati più convenienti), né lo sforzo fisico richiesto, ma la flessibilità di questa sezione della forza lavoro in un contesto garantito, poiché il lavoro femminile quando «pienamente tutelato sul piano

83Le stime prodotte da Luigi Frey parlano di un potenziale di lavoro femminile non conteggiato nell’offerta di lavoro ufficiale pari a circa 1,5 milioni per il 1965 e a circa 3 milioni per il 1971 e 1973. Ricalcolando in base a questi dati il tasso d’attività femminile, la percentuale rimarrebbe comunque inferiore al 40 percento. Ciò significa che effettivamente una parte consistente della popolazione femminile con più di 15 anni si collocasse fuori dal mercato del lavoro per libera scelta. Per avere conferma sui dati si rimanda al testo di LUIGI FREY,

Analisi economica della sottoccupazione femminile in Italia; in L. FREY, R. LIVRAGHI et al., Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, Collana di quaderni di economia del lavoro, Milano, Franco Angeli, 1976,

p.55. 84Ivi.

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normativo e contrattuale, presenta una maggiore rigidità […], in particolare per esigenze connesse alla maternità, alla cura dei figli e degli anziani»86.

Gli altri fattori che entravano in gioco per spiegare più concretamente la forte riduzione della forza lavoro femminile erano in realtà gli stessi che contribuivano a disegnare la nuova struttura occupazionale, ovvero quelli che avevano contribuito alla formazione di una potenza industriale. L’esodo dalle campagne aveva infatti riguardato tanto il bracciantato maschile quanto quello femminile, ma in mancanza di un sistema produttivo capace di creare domanda per questa componente, l’abbandono della terra si tradusse nell’uscita definitiva dal mercato del lavoro, anziché in un travaso da un settore all’altro. In definitiva, fu sulla componente femminile che la debolezza del sistema economico costruito nel ventennio postbellico si stava riflettendo con maggiore peso. Secondo lo studioso Luigi Frey il punto sul quale focalizzarsi per offrire una spiegazione più aderente alla realtà andava individuato altrove, ovvero nella crescita dell’occupazione precaria esplicita ed implicita nel settore dei servizi e più in generale nel ruolo del “lavoro nero”, in tutti i settori dell’economia.

Frey pose perciò in evidenza la funzione ammortizzatrice che l’economia parallela stava assumendo nel corso degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta per le forze di lavoro marginali. Egli individuava per le donne un andamento affine tra lavoro sommerso e ufficiale nel settore primario, e dunque un calo dell’occupazione, mentre la forza lavoro femminile veniva ricollocata nel segmento della produzione a domicilio proprio per l’industria per la produzione di abbigliamento e calzature. A completare questo quadro s’inseriva la crescita della sotto-occupazione implicita nel settore terziario, in particolare nel settore turistico/alberghiero e più in generale nei servizi privati87. Non mancava,

inoltre, la presenza femminile precaria nel commercio.

Il fenomeno della diminuzione dell’occupazione e del tasso d’attività, in presenza di un indice di disoccupazione più o meno costante, sembrava trovare dunque la sua spiegazione nell’allontanamento dal mercato del lavoro ufficiale e l’entrata in quello sommerso da parte delle lavoratrici. La disamina di Frey, insomma, gettava luce su almeno una delle distorsioni che si generarono in seno all’economia ufficiale italiana già prima che l’immigrazione di lavoratori e lavoratrici avesse luogo, e ciò, come si vedrà, costituì un elemento di estrema rilevanza rispetto alla capacità di attirare e trattenere manodopera estera.

86L. FREY, R. LIVRAGHI et al., Occupazione e sottoccupazione, cit., p. 145. 87L. FREY, Analisi economica…, cit.

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