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5 FINE DI UNA COLONIA

9. I CINQUE SENSI DELLA CUCINA TRIPOLINA ( Shūhiyya tāyyiba)

9.3. La cucina ibrida mediterranea

Diverse tradizioni familiari ed etniche, provenienze geografiche si ripercuotono in una cucina ―meticciata‖, che mette insieme odori e sapori europei, mediorientali e nordafricani. Ebrei, arabi, greci, maltesi ed italiani ibridavano le loro tradizioni culinarie nelle pietanze.

―[preparavano a casa …+ fagioli con carne e cumino, tbeḥa bi lubia u-l- kamūn , fagioli con la bietola, lubia u-l- sìlq, il ḥaraimi, il pesce in salsa piccante col kamūn (cumino) o kerwiyya (carvi), felfel (paprika) e poi la

suffra o saffra che era questo dolce con la mandorla sopra. Sai che non mi ricordo cosa è la kerwiyya,

Il carvi credo si dica in italiano … è una “cugina” del kamūn, che non piace sempre a tutti … Il ḥaraimi era molto piccante, una maniera tradizionale di fare il pesce.

Che talvolta si faceva anche …

Con le patate, le patate lesse calate in questa salsa piccante con il kamūn.

Kamūniyya si chiamava, con la stessa ricetta del ḥaraimi … mia moglie non me lo fa perché dice che è tossico …”

Intervista a Paola F.

Il ḥaraimi potrebbe essere un banale pesce in umido se non fosse così speziato e piccante: salsa concentrata di pomodoro, paprika e harissa, cipolla, aglio, cumino. Pertanto per lo stomaco è un cibo ―tossico‖ sebbene sia fatto col pesce.

Forse dipende dalla quantità di aglio e di piccante che ci si mette, ma certamente dà un forte impulso all‘uso di farmaci antireflusso ed antiacido.

Eppure tra noi giovani si abusava di ḥaraimi. Lo si faceva in casa, ma quando si voleva fare una cena tra amici si andava alla Hara Al-Kabīra, il quartiere ebraico che era relativamente vicino al mare, dove c‘era un tabbāḥ, un cuoco ebreo che con dieci piastre, l‘equivalente di 174 lire italiane, ti mandava in paradiso sia per il gusto sia perché, per i sofferenti d‘ulcera, se abusavano di fèlfel, il paradiso, non era solo metaforico.

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piccante perché la pietanza è particolarmente saporita.

“C’era l’abitudine, anche in gravidanza di mangiare cibi col felfel [molto piccanti] e mia madre [farmacista] diceva che anche nell’allattamento non dovevano mangiare felfel. Invece ḥaraimi, che non ti dico …, ma se queste hanno sempre mangiato così, pane con l’harissa è inutile che gli dici che se allattano o sono incinte non ne devono mangiare”.

Intervista a Marisa B.

Si fa un soffritto di cipolla tagliata a piccoli pezzi in olio abbondante, si aggiunge la u-ciuma, l‘aglio pestato con la paprika in un mortaio di legno e mescolato all‘harissa.

Si aggiunge al soffritto di cipolla un bicchiere d‘acqua e il concentrato di pomodoro. Si fa cuocere per una ventina di minuti aggiungendo il sale e uno o due peperoncini piccanti. Si aggiunge il cumino, uno o due cucchiaini di kamūn e quindi si fa cuocere in umido il pesce.

Si usano pesci da zuppa, o pesci azzurri come la lampuga, oppure lo sgombro, mentre nelle famiglie più abbienti si adoperava la spatola, il dentice, l‘arricciola, l‘orata o il branzino. Nella cucina tripolina più povera, lo stesso sugo privo del pesce, veniva abbinato alle patate tagliate a fette e talvolta alle uova sode ed era detto kamuniya. In alcune famiglie siciliane era il piatto magro del Venerdi. Nel periodo postbellico, fino alla scoperta del petrolio, gli organismi delle Nazioni Unite inviavano in Libia aiuti alimentari per la popolazione.

Veniva donato latte in polvere e condensato, formaggio ―Olandese‖ delle palle rotonde di formaggio giallo, rivestite da una patina rossa, casse d‘aringhe affumicate. Gli alimenti venivano venduti nelle botteghe dei sūq più che distribuiti e l‘abbondanza di aringhe fece nascere una strana pietanza, forse oggi in disuso: «ḥaraimi bi-l-ringa», haraimi con l‘aringa. Al posto del pesce si usava l‘aringa affumicata che conferiva un particolare, inusuale aroma.

Le aringhe affumicate, al mercato di Piazza delle Erbe a Padova, mi riportano odori e sapori lontani.

Il basīn è una specie di polenta, quasi un pane, cotto nel sugo di pomodoro con aggiunta di carni varie. Oltre ad essere una pietanza è anche un modo dire popolare con un significato negativo: ―fare basīn ‖ significa pasticciare, arruffare.

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I mafrūn sono polpette speziate di carne macinata con un po‘ di pane raffermo bagnato, uovo e alcune verdure. Cotte in un sugo di pomodoro, sono consumate da soli o in aggiunta al kuskus o alla rishta.

Anche in questo caso la preparazione varia da casa a casa, da gruppo a gruppo, da regione a regione.

Quando si soggiornava all‘aperto, si andava in gita in campagna, si faceva lo

shuā, la carne alla brace. Si tratta di spiedini di carne e di fegato di manzo o

costolette d‘agnello, intinte nell‘olio, origano e l‘immancabile harissa.

Anche nelle rosticcerie della Città Vecchia si vendevano spiedini di carne che potevano essere consumati per strada.

“A casa mia, rarissimamente c’era mia nonna che faceva il kuskus, qualche volta i mafrūn, ma si mangiava all’europea *secondo la cucina italiana], anzi mia nonna materna aveva tutta una cucina tra il genovese e il livornese.

Noi come ebrei eravamo un po’ anomali” . Intervista ad Angi C.P.

Nel caleidoscopio dei gruppi che popolavano Tripoli, ciascuno si portava dietro il proprio bagaglio culturale, la cucina d‘origine e i gusti. Nella quotidianità e nel tempo le abitudini alimentari si intrecciavano e si modificavano.

I piaceri della gola troppo violenti degli arabi si mescolavano con quelli regionali italiani.

“A Natale si facevano le susamielle, a Pasqua la pastiera napoletana. In altri termini conservavamo le nostre tradizioni. I tripolini napoletani come noi seguivano la tradizione napoletana i siciliani quella della loro regione e così via. Però poi alla fine ci fu un miscuglio di tutto e quello che era dell’uno diventava dell’altro e tutti si acquisiva le tradizioni arabe ed anche ebraiche.

Sfinz, slebia, saffra e così via si compravano per strada. E’ chiaro che tutti si faceva il kuskus, la rishta e altri cibi arabi ma si conoscevano anche tradizioni ebraiche.

Anzi ti dirò di più, proprio sotto casa mia c’era un ristorante arabo dove facevano kuskus, haraimi e altre cose.

Per cui arrivavano degli effluvi, degli odori meravigliosi. Spesso andavamo a comprarlo e ce lo portavamo a casa.

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volentieri anche se la digestione è un po’ lenta.

Ti dirò che mia moglie, che è di Trapani, la patria del cuscus italiano, lo fa abbastanza spesso, ma a differenza di quello che faceva mia nonna, che digerivo con lentezza questo non mi gonfia e lo digerisco rapidamente. Lo sai qual è il segreto?

“Incocciare” la semola, come si dice in Sicilia e poi bagnarlo spesso e farlo riposare a lungo. Il kuskus si gonfia prima di mangiarlo e non si gonfia nello stomaco …

È vero. Ti ricordi che si diceva che non bisognava bere durante il pasto del cuscus. E c’era la variante ebrea con tutti quei mafrun”

Intervista ad Angelo G.

[avevamo] cibi separati, fatto salvo per alcuni cibi che avevamo acquisito nella nostra cucina … come il kuskus, il ḥaraimi, i mafrūn, la shakshūka, la

rishta, il basīn. Cibi sia arabi che ebrei che abbiamo assimilato. Come

erano buoni!

Intervista a Sandro M.C.

Alcuni europei avevano imparato a mangiare come gli arabi, avevano assimilato le loro pietanze nei loro menu familiari. Alcuni si erano disabituati al consumo della carne di maiale, degli insaccati ed anche al vino e agli alcolici.

Durante il Ramadan al tramonto, annunciato con un colpo di cannone il termine del lungo digiuno, era difficile districarsi nel traffico cittadino: tutti in auto correvano in casa a mangiare. Poi, fino a notte inoltrata, arabi ed europei affollavano friggitorie, ṭabbākh , rosticcerie per conquistare una sfinz o un brik appena fritti, un ―rombo‖ del dolce bocca di dama, una slebia grondante di miele e partecipavano alla medesima atmosfera gioiosa.

Il clamore e gli odori impregnavano la città.

“Noi mangiavamo molto come loro, in casa, anche fuori. Durante il Ramadan quando la notte le friggitorie erano aperte mangiavamo i brik , la slebia le cose che mangiavano loro …

Parlare con me è molto diverso perché io avevo una tradizione molto diversa. Per esempio, io a Tripoli non ho mai mangiato salame, non ho mai bevuto vino, perché , non c’è niente da fare, mi ero abituato alla loro mentalità. Dopo anni e anni che non mangi maiale, non bevi vino.

Il maiale e gli alcolici li ho scoperti in Italia.

C’erano le salumerie a Tripoli …!

Sì, lo so, ma non ero abituato a mangiare queste cose, perché eravamo maltesi ed erano tanti anni che eravamo lì.

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Noi mangiavamo come loro … Avevamo una cucina molto vicina a quella locale

In casa per esempio facevate la pasta o il cuscus …

Sì, facevamo la pasta e il kuskus. Dipende … Mangiavamo tanto cuscus, lo facevamo spesso, non tutti i giorni, ma ḥaraimi, rishta , mangiavamo

basīn, mafrūn , makrūd : li faccio ancora.”

Intervista a Carlo G.

Un altro piatto particolare era la shakshuka che presenta variazioni familiari infinite. In casa si dice che «far shakshuka» in cucina equivale a far pasticci e la pietanza si basa sul mescolare, mettere insieme vari ingredienti. Generalmente si strapazzano uova, peperoni dolci, un felfel piccante, pomodori o pelati. Numerose variazioni comprendevano aggiunta di carne macinata, la cosiddetta «balbeta» (Tammam Vaturi, 2005, pp.. 66 ;.73) e anche avanzi combinabili.

Anche la pasta, gli spaghetti erano sbarcati con gli italiani in Libia, ma si preparavano ―all‘araba‖, come dice un interlocutore. Gli spaghetti si spezzavano e li si cucinava in una minestra di ceci e patate, con un sugo di pomodoro in un soffritto di cipolla e il solito felfel.

“Per esempio io faccio spesso la pasta coi ceci all’araba. Metto la cipolla e le patate col felfel a stemprare [rosolare], le faccio bollire per bene , poi ci metto l’acqua e poi una scatola di ceci dentro. Gli arabi la facevano così …. Come pasta si usano gli spaghetti spezzati …

Una specie di minestra di ceci …

Chi la mangia da me la vuole di nuovo, perché è troppo buona …” Intervista a Carlo G.

Immancabilmente in casa, per le strade, nei cantieri, nelle campagne si preparava e consumava il tè all‘araba, il tipico ciclo del tè libico, ottenuto da tre bolliture delle foglie di tè, shāī,.

La prima bollitura dà una bevanda fortissima, dolce e aromatica; vengono bolliti insieme il tè, lo zucchero e una foglia di na‟nā‟, di menta, che ha funzione digestiva. La seconda bollitura produce un tè meno forte e infine alla terza vengono aggiunte nella bevanda arachidi tostate, al-kakawiya. Il tè è ormai molto leggero e dolce, tanto che lo possono bere anche i bambini.

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“ Ti dicevo che nel mio palazzo c’era anche la famiglia K, una famiglia libica con la quale avevamo un legame molto stretto.

Io andavo tutti i giorni a casa loro, per me erano quasi come una famiglia. Al di là delle differenze, io andavo là tutti i pomeriggi, perché facevano il tè. Ti ricordi che facevano il pomeriggio, tre tè. Il primo molto forte, facendo bollire nella barrada il tè, rosso o verde, con lo zucchero. Veniva servito in un bicchierino ed era fortissimo. Con le stesse foglie veniva fatto il secondo tè con la nanà, le foglie di menta ed infine l’ultimo con le noccioline, Shāi bi-al- kakawuiya.

Era un rito: il primo tè era veramente forte, più del caffè ristretto, il secondo era digestivo per la menta, ma delle volte la mettevano anche nel primo …

Quando c’erano le feste loro, sua mamma preparava i makrūd e ce ne portavano un piatto. Erano buonissimi. Te li ricordi?

Li faceva anche mia zia, cucinava e faceva dolci meglio di un’araba. Semola di grano duro,zucchero, datteri macinati, cannella. Si fanno i rotoli, si tagliano a fette, poi si friggono e si passano nel miele. Mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci.

Tornando all’amicizia con questa famiglia di libici devo dire che in un certo senso c’era quest’educazione che non definirei razzista, ma eravamo a circoli chiusi, ognuno se ne stava per i fatti suoi, però se poi avevi l’occasione di vivere accanto ad una famiglia araba, che per carità era più evoluta, si stabilivano rapporti paritari, cordiali di vera amicizia. Io frequentavo assiduamente e giornalmente questa famiglia. Se non sapevo qualche cosa di arabo, me lo facevo spiegare da loro. Era come se fossero familiari”.

Intervista a Marcella D.

A proposito del tè, nei cantieri di mio nonno c‘era un operaio che per preparare il tè sospendeva il lavoro durante la lunga procedura. La pausa per il tè per era il momento di maggiore socializzazione. Fermarsi o non fermarsi a bere insieme il tè era un indice d‘amicizia o inimicizia. Era un‘occasione per parlare, scambiare idee, capire il mondo circostante. Tutto si svolgeva intorno ad un kanūn un fornello di terracotta a carbone ed una barrada, una teiera d‘alluminio smaltato, accovacciati per terra.

Anche il caffè alla turca è una bevanda ―conviviale‖, qualcosa da sorbire lentamente ―per fare una pausa‖. Essendo la polvere del caffè in soluzione bisogna farla sedimentare e quindi aspettare: diventa una buona occasione per chiacchierare nei caffè della Città Vecchia o in una pausa del lavoro.

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“Era un nero. Lui diceva che era turco e faceva il caffè turco. Veniva in ufficio con quei vassoi a due piani, sai quelli che tengono coll’anello dall’alto. Ecco quei vassoi, perché quando ti portano il caffè turco devi fare depositare il caffè sul fondo, non è come la moka … col caffè turco devi avere pazienza d’aspettare … Noi lo chiamavamo Biancaneve. Non si scomponeva mai.

Portava il tabbūsh, il fez turco, che portavano i notabili libici”. Intervista a sofia G.

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