5 FINE DI UNA COLONIA
8. LA SCUOLA E I LUOGHI D’AGGREGAZIONE E DI RITROVO
8.4. La costa e le spiagge
8.4.4. La vita di Club
Alla fine degli anni Cinquanta, mio nonno vendette le azioni del Lido. Le vendette ad un libico per le restrizioni legali verso gli stranieri, la necessità di soci libici maggioritari nelle società, che ho già citato precedentemente.
La mia famiglia si trasferì in centro città poco dopo la sua morte . Per i problemi ―ambientali‖ di cui ho già parlato, divenne difficile, se non impossibile per gli europei in genere praticare spiagge pubbliche .
Club privati ed esclusivi si cinsero di ―alte mura virtuali di separazione‖ dalla massa dei libici. L‘ingresso era riservato ai soci selezionati in base al ceto sociale. Indispensabile la presentazione da parte di altri soci, l‘analisi severa del consiglio direttivo e una quota d‘iscrizione elevata.
Vi apparteneva la società bene di Tripoli molto selezionata .
“Eravamo una grande comunità italiana, che rimaneva coesa nei grandi eventi, si fraternizzava, ma poi si parcellizzava nei vari gruppi, che talvolta
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avevano una sorta di conflitto. Frequentare l’Underwater invece che il Beach Club fosse la rappresentazione di una sottoclasse, questi signori del Beach Club te la facevano pagare …”.
Intervista a Concetta B.
Il Beach Club, il Golf Club, l‘Underwater Explorer Club, Shooting and Fishing club non accoglievano i soci soltanto in base alla possibilità di praticare un hobby o uno sport, ma selezionavano gli iscritti garantendo una frequentazione d‘èlite. Infatti, più che per giocare a tennis, a golf o far caccia subacquea erano il pretesto per frequentare un certo ambiente selezionato.
“Dopo siamo andati al Lido e quando avrò avuto 11, 12 anni son passato al Beach Club … dove ho iniziato a giocare a tennis …
Era una vita di circolo. A parte che a Tripoli era facile conoscersi tutti, si giocava a tennis, si giocava a pingpong, c’era sotto il campo di pallavolo (l’attuale beach volley), c’era questo bellissimo ristorante con la veranda sul mare, bellissimo lo dico adesso con la memoria e i ricordi variano un po’ da quando avevo sedici anni a quando ne avevo venti … per tutti quegli anni ho fatto vita di club, la vita si svolgeva lì. Era il punto d’incontro … All’inizio eravamo dipendenti perché andavo accompagnato in macchina da mia madre, poi invece andavo accompagnato in macchina dal padre di Fabrizio D”.
Intervista ad Angi C.P.
“L’Underwater è stato un grande svago per noi. Perché c’era la piscina, c’erano i campi da tennis, il mare con le piazzole sugli scogli per prendere il sole. Non si stava certo male ed era un ambiente protetto”.
Intervista a Concetta B.
Erano luoghi protetti per chiacchierare, far feste, cenare, ballare al chiaro di luna in una cornice esotica di cammelli, suoni, musica locale, cuscus e angurie.
“Diciamo che per le giovani ragazze non era tanto consigliabile *le spiagge pubbliche]. Eravamo oggetto di piccole molestie, di sguardi, perché era ormai aperto a tutti, mentre il Beach, essendo un club privato era più protetto”.
Intervista a Paola F.
Protetti dai ―pappagalli della strada‖, le ragazze potevano indossare il bikini, senza assalti da parte di frotte di giovani libici ―allupati‖ e prendere il sole . Si era protetti da occhi indiscreti estranei e da incontri sgraditi, ma non dai pettegolezzi e dalle spiate sulle frequentazioni e flirt dei giovani e dalle
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chiacchiere sui piccanti ammiccamenti tra la giovane moglie di un vecchio professionista e ―l‘importato‖ muscoloso, superunto d‘olio solare.
“Il Beach io non lo sopportavo per niente, ci sono andata qualche volta con Johnny, ma preferivo il più popolare Sulfurei … Al Lido, che era diventato pubblico non ci si poteva più andare …” .
Intervista a Ignazia A.
Scrive Alma Abate: « Io odiavo il Beach. Lo odiavo tutto, la sabbia il bar la terrazza […] i corpi ammollati con molle arroganza sotto il sole. Non ci fosse altro da fare a Tripoli […] mi mancava la vecchia spiaggia del Lido, di punto in bianco declassata al rango di obsoleta, perché non abbastanza d‘èlite […]. Tra noi autoctoni e l‘intellighenzia d‘importazione che sprizzava madrepatria da tutti i pori - corpo insegnante, personale d‘ambasciata, faccendieri dell‘ultima ora,
parvenus d‘ogni genere e grado; la differenza era grande, visibile ad occhio nudo,
percepibile a orecchio. Ma un elemento in comune l‘avevano: lo stramaledetto Beach club » (Abate 2011, p.11).
Ho conosciuto Alma, ma non immaginavo che fosse così grande il suo disagio, la comune voglia di ―scappare fuori dalle mura di casa‖, la difficoltà d‘immaginare un futuro meno precario ed incerto.
I giovani si sentivano legati a quella terra, ma a differenza dei loro padri pensavano che non fosse per sempre. Sentivamo che un giorno o l‘altro ci avrebbero cacciato e ci avrebbero costretto ad una diaspora che temevano, ma che non riuscivano ad immaginare.
Molti di noi erano all‘università in Italia ―a gridare per le strade il Sessantotto‖. Anche qua dovevi tacere, non dire d‘essere un italiano di Libia, per non prenderti sul muso da un dandy che fa il comunista, del colonialista e fascista.
Io per il fascismo non ho conosciuto mio padre. Noi giovani di quella generazione non sapevamo cosa fosse il fascismo e il colonialismo. I programmi scolastici non lo contemplavano ed era sceso il silenzio su quel periodo. L‘orientamento del paese, attento a non scontentare le rivendicazioni sempre più radicali di gruppi che via, via si consolidavano e soprattutto il pogrom antisemita del 1967, avevano marcato le nostre esperienze giovanili.
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9. I CINQUE SENSI DELLA CUCINA TRIPOLINA