5 FINE DI UNA COLONIA
6. LA PRESENZA ITALIANA NELLA LIBIA INDIPENDENTE GLI ANNI CINQUANTA
6.2. Un paese povero tra Occidente e mondo arabo
La Libia si dibatteva in un difficile equilibrio tra l‘Occidente che la sosteneva economicamente e la ―Patria araba‖ che scatenava le folle sotto la sempre maggiore spinta del Nazionalismo e del Panarabismo, contro il neoimperialismo occidentale degli stati vincitori della Seconda Guerra Mondiale sulle ex colonie. Nel Paese c‘era fame e venivano distribuiti periodicamente gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite, che spesso venivano trafugati e venduti sul libero mercato. L‘unica risorsa era l‘affitto delle basi militari concesse ad inglesi e americani e gli aiuti internazionali, che rendevano il Paese completamente sottomesso. Scrive Sergio Romano che la Libia «… visse per dieci anni del proprio capitale geopolitico, vale a dire della pigione che veniva pagata dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti per l‘affitto di due grandi basi militari …» (Romano 2005, pp. 271-272). L‘ambasciatore d‘Italia a Tripoli Pierluigi Alverà osservò che prima d‘aver visto la realtà libica pensava che il neocolonialismo fosse solo «un‘invenzione della propaganda sovietica…» (Scoppola-Iacopini 2012, 116). In realtà tutte le decisioni erano condizionate da questa dipendenza.
La guerra aveva colpito le classi medie italiane. I coloni rimasti avevano ormai riscattate le terre in concessione, ma la produzione era scarsa e la ricostruzione difficile. Coloro che col lavoro di artigiani e piccoli imprenditori avevano raggiunto una certa agiatezza, dopo i danni della guerra e le vicissitudini sotto la BMA, dovevano riciclarsi a nuove attività.
“… a Misurata mio padre aveva iniziato una nuova attività: un azienda di autotrasporti. Si trasferirono poi a Tripoli dove proseguirono l’attività di camionisti. Mia madre era anche lei una camionista, una camionista ante litteram e guidava un camion Lancia Trerò, mentre mio padre un Fiat 626. Trasportavano grano e orzo dai villaggi agricoli ai consorzi o al porto dove veniva spedito in Italia. Facevano tragitti lunghi camminando in colonna come se fossero due uomini. Considerando i camion d’allora, senza servo sterzo, senza aria condizionata, col clima che c’era e soprattutto le strade d’allora, devo dire che mia madre era veramente una donna eccezionale, considerando anche che allevava due figli. Infatti, presso l’ospedale civile
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di Tripoli, in Shar’a Al-Saidi ero nato anch’ io … a Tripoli abitavamo alla Dahra. A mio padre, quando avevo circa due anni, negli anni cinquanta, a causa di un incidente, gli dovettero amputare ambedue le gambe. Finì così la sua attività di camionista. Venne in Italia, gli applicarono due protesi, ma non poté più guidare i camion. Guidava però la macchina, ma senza patente, di nascosto, perché ovviamente non gliela rinnovarono più Anche mia madre aveva smesso di fare la camionista, perché quando arrivarono gli inglesi a Tripoli ci confiscarono tutti i camion per gli spostamenti militari” .
Intervista a Paolo C.
Nella collettività italiana, durante l‘occupazione della BMA, ci si ―arrangiava‖, c‘era molta solidarietà tra i più abbienti e le classi sociali operaie, ma anche con i libici. La guerra aveva colpito tutti con la mancanza di lavoro e le distruzioni.
“Mia madre *…+ ha fatto la sarta per la dama di compagnia della regina, gli ha cucito i vestiti. Glielo aveva detto la moglie di L., un nostro vicino … sai che loro erano ricchi e avevano un cinema … ed era una signora brava, brava, brava, una vera persona perbene [parla della moglie di L ] e lei conosceva la dama di compagnia della regina … Era una santa donna veramente, ci aiutava a noi che eravamo proprio poveri. Io dico poveri, poveri, ma se guardiamo agli arabi com’erano, noi eravamo altro che ricchi.
Noi andavamo a giocare a casa sua che erano ricchi, a giocare con Maurizio e Gaby e lei era così buona, buona, che ci dava anche la merenda” .
Intervista a Quinto Q.
“Pochi potevano permettersi di poter fare le ferie in Italia.
Io ricordo che d’estate, fin dalla terza media ho sempre lavorato, ma non perché mi spingessero i miei genitori, ma perché sentivo il bisogno di rendermi autonomo. In terza media facevo l’elettricista, poi più grande facevo il topografo, ho lavorato nello studio di B., lo lo andavo ad
aiutare…
Non è che non mi divertissi, mi divertivo lo stesso, ci accontentavamo veramente di poco e nei giorni che non andavo a lavorare o a scuola ci divertivamo anche con poco lo stesso ”.
Intervista a Gilberto C.
La più grande miseria era soprattutto tra gli arabi, un sottoproletariato che viveva nelle bidonville periferiche, con un reddito al limite della sopravvivenza.
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Ai margini dei quartieri residenziali si estendevano vaste aree di ―campi - famiglia‖, dove immensa era la miseria e dove la ricchezza spropositata di pochi, generalmente politici o funzionari corrotti, contrastava con l‘enorme povertà di tanti.
“… facevo il medico nei campi famiglia, così venivano chiamati, soprattutto quello di Porta Benito, Bab Ben Gashīr, di Miani, dove ai “margini” della città, viveva una popolazione poverissima in agglomerati di baracche, bidonville.
Erano quattro o cinquemila persone per ogni, chiamiamolo tra virgolette, “villaggio” e c’era un contrasto netto tra una classe di libici molto ricca e questa popolazione in completa povertà. C’era una discrepanza notevole. Ricordo che proprio vicino a uno di questi campi c’era la villa principesca dell’allora primo ministro, che aveva le colonnine della ringhiera che circondava la sua villa patinate d’oro, mentre si vedeva dalle sue finestre, quando andavo a visitare qualche suo familiare, perché curavo sia loro che erano straricchi che quei poveracci del campo famiglia… l’estrema povertà e miseria del campo”.
Intervista a Carlo M.
Nei campi-famiglia vivevano i più poveri tra i poveri. Nelle periferie c‘erano agglomerati di ―case‖ fatte con materiale di recupero, lamiere, stuoie e terra battuta. Questo tipo di casa è chiamata in arabo zarība che significa letteralmente ovile, riparo per armenti. Basse, con un'unica stanza comune a tutta la famiglia, con muri che si sgretolavano al primo colpo di vento e «… tetti di alghe, di stuoie e argilla, che cedevano sotto le zampe del più piccolo gatto girovago. Queste casupole sordide sprofondavano sotto la pioggia; le macerie restavano perpetuamente ammucchiate a nuovi ripari che gli abitanti si affrettavano a costruire alla buona» (Romano 2005, p.51).
“… vorrei che tu scriva che io italiano, ma povero, quando andavo con l’amico arabo, a casa sua che era una zeriba , che si puliva con i tralci delle palme e ci buttavano l’acqua per non fare alzare dentro la polvere *il pavimento era in terra battuta].
Io ero povero, ma avevo acqua luce e gas e loro, che erano alla fine i padroni, la Libia era casa loro, facevano una vita da miserabili ”.
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Sebbene, durante il governatorato di Balbo ci fossero stati flebili cenni di tutela del lavoro, in quel periodo l‘arruolamento degli operai, soprattutto tra i libici, avveniva per lo più col caporalato e spesso erano utilizzati come bestie da soma.
“… Da piccola soffrivo quando sentivo chiamare gli europei ‘arfi che
significa padrone …84 .
… Io mi ricordo però che quando andavo nel deposito di mio padre mi sentivo uno scrupolo dentro nel vedere il facchinaggio umano. Entravano sacchi di caffè e di merci su carri trainati da uomini scalzi, con la corda tra la spalla e la vita, sporchi e sudati. Ero molto piccola ma mi facevano talmente pena che ci stavo veramente male.
A te non faceva impressione questa povertà? ”
Intervista a Patrizia G.
I gruppi etnici erano chiusi, ma comunque permeabili tra loro all‘interno della stratificazione sociale orizzontale, mentre erano blindate, impenetrabili le classi in senso verticale. Italiani, ebrei, maltesi e greci, ma anche notabili libici si relazionavano pariteticamente, se appartenevano allo stesso censo.
“… papà aveva l’ufficio ai Bastioni, nella Città Vecchia dove convivevano
varie comunità che si rispettavano le une con le altre …
… Ricordo che mio padre però non parlava mai con le domestiche sia libiche che ebree e quando ne era costretto, parlava loro di schiena, si girava, per non dargli confidenza …, però trattava la servitù col massimo rispetto. Sono cose d’altri tempi, però in certi ambienti, tu sai, che s’usava così”.
Intervista a Patrizia G.
Scuole, luoghi di ritrovo o d‘aggregazione, anche il tipo d‘attività del tempo libero, perfino lo sport erano legati allo status.
“A Tripoli, come sai, c’era una forma di classismo tra operai e studenti, anche tra gli stessi italiani. Noi ci trovammo ad essere gli unici due studenti tra tanti operai a fare pugilato al Circolo Italia … poi Salvo dovette smettere perché in un allenamento si ruppe il naso in modo brutto. … Rimasi io solo …. Ho continuato, ho fatto degli incontri fino al
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diploma, poi mi son messo a lavorare e ho dovuto smettere …”. Intervista a Gilberto C.
Non esisteva una distribuzione urbanistica di tipo etnico, ma socio-economico. Gli eleganti quartieri residenziali nel centro della città nuova erano percorsi da ampi boulevard con bianchi palazzi che confluivano nelle grandi piazze. Le ville residenziali della Città Giardino appartenevano alla media ed alta borghesia europea e libica.
“Noi abitavamo vicino al Palazzo Reale, non lo dico per snobismo85, ma perché prima abitavamo in campagna, poi mia madre si era stufata e voleva venire in città, ha dato un out out a mio padre ed ha cercato casa in città”.
Intervista a Ignazia A.
Durante il fascismo, erano sorti molti quartieri d‘edilizia pubblica a riscatto: le case popolari, le case operaie, le case INCIS, quelle dei ferrovieri ecc.
Via, via che avveniva il rimpatrio degli italiani venivano vendute a libici, anche perché erano stati posti limiti alla compravendita e dal 1960 venne fatto ufficialmente divieto agli stranieri residenti in Libia d‘acquistare proprietà fondiarie.
“ *abitavamo+Alle case INCIS.
Cos’erano le case INCIS? Cosa significa INCIS?
Istituto Nazionale Case Impiegati Statali e mio padre aveva ottenuto la casa là, ai tempi del fascio. Eravamo tutti una congrega di famiglie di impiegati pubblici. Era un circolo, una forma di associazione. Eravamo tutti italiani e ci conoscevamo tutti sia perché quasi tutti si incontravano per lavoro.
Erano case che il Governo aveva costruito per gli impiegati statali, con un bel giardino interno, dove i ragazzi potevano giocare con gli altri.
Io no, perché non mi lasciavano scendere a mischiarmi cogli altri, a giocare con gli altri. Eravamo tutti italiani e non c’erano arabi, ma mi facevano stare in casa a studiare … non a mischiarmi cogli altri. I miei erano siciliani”.
Intervista a Alberto P.
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Il quartiere della Ḓahra era invece un esempio di commistione di diverse nazionalità e confessione religiose, tranne gli ebrei: arabi, italiani, maltesi e greci..
“Nella vecchia Ḓahra c’erano case , come una volta, basse … Sì,come le facevano una volta gli arabi , col muro alto e il cortile dentro. Poi sono stati costruiti i palazzi, ma tra questi rimanevano le vecchie case.
Sì, entravi da dietro all’Uaddan nella Ḓahra Kabīrah che poi saliva, saliva, saliva fino a San Francesco e poi fino alla cima della collina fino a Shār’a
Sidi ‘Isa , dove c’era la fabbrica della Birra Oea. Ecco io abitavo vicino alla
Birra Oea.
Alla Dahra c’erano circa tremila italiani. Arabi non lo so, ma tanti, tanti …
Secondo te c’era stata una certa spontaneità nella nascita di questo quartiere oppure era stato il governo coloniale ad organizzare così la distribuzione urbanistica?
La Ḓahra c’è sempre stata, era talmente lontana l’una dall’altra parte … grandissima. E c’erano tanti terreni incolti, enormi spazi che non immagini nemmeno. Anche i terreni che mia nonna ha regalato per fare la chiesa86 … e anche la parrocchia “.
Intervista a Carlo G.
Negli anni Cinquanta, alla Ḓahra le famiglie arabe, italiane e maltesi avevano come comune denominatore la povertà.
“Io ho abitato nel quartiere della Ḓahra e là abitavano oltre agli arabi, i maltesi. Non c’era distinzione tra maltesi e italiani, ci confondevamo. Eravamo tutti poveri.
Là, ti ricordi c’era il verniciatore A. che era maltese, che perse il figlio a mare …, poveretto.
Sì, non c’era differenza tra noi e loro perché eravamo tutti cattolici e andavamo nella stessa chiesa di San Francesco, alla Ḓahra, te la ricordi? Eravamo molto affiatati con i maltesi. Non è che era un’offesa dire a uno che era maltese. Manco te ne accorgevi …
Anche con gli arabi si andava d’accordo, ci si praticava, tranne che portare le mogli loro.
Le donne vivevano per i fatti loro per un fatto religioso. Se dovevo andare a bussare a casa di un amico, bussavo e poi mi nascondevo, perché se rispondeva la donna, non ti apriva.
Non la guardavo mai in faccia, guai!
Da dietro la porta lei ti diceva: «Askun? , chi è?». E tu dicevi: «C’è Muhammad, c’è Alì …. ?»
E solo se c’era l’uomo, lui ti apriva e la donna si nascondeva. Per dire, tu dicevi : « … Fī Muhammed? C’è Muhammed?».
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« Lā mshet, No, è andato via, è fuori», rispondeva la donna [da dietro la porta]”.
Intervista a Quinto Q.
La miseria coinvolgeva tutti, anche le famiglie italiane. Le offese della guerra le avevano ferite, depauperate e sconvolte per la morte o l‘allontanamento del capofamiglia. Orfani abbandonati, figli illegittimi di coppie miste trovavano accoglienza a Casa San Giuseppe, un‘opera meritoria retta dal francescano Padre Umile Oldani e presso istituti di suore87, ma era nulla in confronto a quelle aree di sottoproletariato dei campi-famiglia libici.
“*La Ḓahra+ … certamente era un quartiere molto povero.
Ricordo queste donne arabe che allattavano con quei seni flaccidi, che tenevano attaccati quei bambini ad un seno senza latte, che non dava più latte. E li allattavano oltre i due anni perché non piangessero.
Che miseria!
Lo sai che davano ai bambini i papaveri macinati: li drogavano per farli dormire e non farli piangere per la fame.
Anche la popolazione italiana che abitava alla Dahra era di una classe poverissima, di una violenza domestica inenarrabile e di un razzismo …
Sì, è vero, i poveri c’erano anche tra gli italiani e questa povertà era in competizione con quella degli arabi, la lotta per i lavori più umili, per un pezzo di pane. Di Tripoli oggi si raccontano grandezze assurde.
… Sai che io stavo vicino alla Birra Oea. Ti ricordi dov’era la Birra Oea? Dove c’era il Libya Palace Hotel.
Era una villa molto bella progettata da un cugino di papà, in stile fascista con gli archi e le grandi scalinate dove sui corrimano c’erano dei grandi lastroni in marmo sui quali mi divertivo a scivolare … mi sentivo una privilegiata in mezzo ad un mare di povertà altrui. Un mare di povertà. Io andavo alle elementari dalle suore della Dahra, dove c’era un orfanotrofio e dove c’erano delle bambine italiane.
Sai quel villino delle suore vicino alla Birra Oea, proprio vicino a casa mia. In quest’orfanotrofio c’erano queste bambine con le mani rosse, rovinate, che quasi sanguinavano, perché alle sei del mattino le suore gli facevano fare il bucato, all’aria aperta, estate ed inverno con l’acqua fredda. Ed erano bambine italiane e mi sconvolgeva il fatto che le facevano uscire solo per seguire i carri funebri …“
Intervista a Patrizia G.
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Le classi medie italiane cominciavano a riorganizzarsi anche perché più istruite, nel lavoro possedevano competenze risorse e tecnologie sconosciute ai libici, ma comunque si viveva in maniera sobria, quasi spartana.
“Ricordo che nel cortile della scuola c’era un gelso enorme che ci stimolava ad arrampicarci, ci faceva ombra , ma era anche un contributo alla nostra colazione.
A quei tempi non c’erano le merendine preconfezionate.
Ci portavamo a scuola per merenda il panino con la salsiccia cruda, con la frittata, anche perché i nostri genitori avevano più tempo. Oggi, con la vita di oggi ai bambini dai una merendina preconfezionata. A quei tempi ci preparavano da casa il panino da portarci a scuola” .
Intervista a Paolo C.