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Medicina ufficiale, medicina popolare e ruolo dei medici italian

5 FINE DI UNA COLONIA

6. LA PRESENZA ITALIANA NELLA LIBIA INDIPENDENTE GLI ANNI CINQUANTA

6.5. Medicina ufficiale, medicina popolare e ruolo dei medici italian

La situazione sanitaria in Libia negli anni cinquanta e primi anni sessanta era drammatica. Gli ospedali, i presidi, gli ambulatori costruiti dagli italiani erano tutti sovraffollati e i medici dovevano curare le più svariate patologie endemiche

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nel paese: dalla tubercolosi, sifilide, polmoniti, alle gastroenteriti d‘ogni genere, anche parassitarie.

“Inizialmente era una vita molto dura. Nel mio reparto di medicina, quando sono arrivato io, eravamo in cinque medici e centosessanta pazienti ricoverati.

Nei primi due anni non ho fatto un giorno di festa, né una domenica, né un venerdì. Non sono stato un giorno libero a casa e soprattutto c’era scarsità di tutto *…+ c’era tanta tubercolosi e meningiti tubercolari che si curavano con l’estrazione mediante puntura lombare di 10-15 cc di liquor

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, questo decomprimeva la pressione endocranica e quindi cessava per un po’ di tempo il mal di testa e si iniettava la streptomicina. In genere guarivano tutti, ma rimanevano con una rigidità nucale ed una sordità procurata dalla streptomicina.

Quindi la mia attività di medico ha un duplice aspetto: quella di medico ospedaliero e libero professionale”.

Intervista a Carlo M.

La Sanità pubblica ospedaliera, ambulatoriale e domiciliare era insufficiente a soddisfare le richieste dei meno abbienti che vi dovevano ricorrere.

C‘era una miseria indescrivibile e i medici si sottoponevano a stressanti turni per coprire il territorio colle visite domiciliari convenzionate.

“ C’era l’INAS, Istituto Nazionale di Assistenza Sanitaria, che era l’equivalente della nostra INAM 93. C’era un’assistenza ambulatoriale, che fu estesa anche a quella domiciliare. Davano al medico per una visita a casa del malato 25 piastre. Più o meno era l’equivalente di 600 lire e magari dovevi fare trenta, quaranta chilometri per una visita e dopo tornare.

Nessuno dei medici voleva fare questo lavoro, perché la tariffa di una visita in ambulatorio era due sterline e quindi venticinque piastre corrispondevano ad un ottavo di quello che un medico prendeva in ambulatorio. Io, visto che ero giovane, appena laureato e visto che avevo tempo, dopo il lavoro che facevo in ospedale, avevo accettato di fare anche questo lavoro, non tanto per l’aspetto economico, quanto perché mi piaceva farlo, stare in mezzo alla gente, fare il medico”.

Intervista a Carlo M.

92 Centimetri cubici, millilitri di liquido cefalo rachidiano. 93

Fino all’istituzioni delle Unità Locali Socio Sanitarie (ULSS) nel 1981, la “cassa mutua”, come veniva chiamata, era costituita dall’Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro le Malattie. Si occupava dell’ assistenza sanitaria di tutti i lavoratori dipendenti ei pensionati.

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Il territorio da coprire era molto vasto e aveva una bassa densità di popolazione. Una condotta doveva rispondere ai bisogni di un‘alta quantità d‘utenti e quindi l‘area da servire era molto estesa, diverse centinaia di chilometri percorribili in macchina, talvolta in strade sterrate che attraversavano territori deserti.

“... ho cominciato a esercitare la professione di medico, dopo la laurea, a 26 anni quando la Libia nel 1960 non aveva ancora goduto della ricchezza del petrolio per cui la popolazione era molto povera e io come giovane medico mi sono dato quasi al volontariato.

Fare il medico lì era molto diverso che farlo qua in Italia. Quando mi chiamavano per visitare qualcuno in questi campi dicevano a mia moglie: “Signora, manda dottore campo numero uno … Signora, manda dottore campo numero tre, ma non è che esistesse tra queste quattro o cinquemila persone un indirizzo, un riferimento dove andare.

Le viuzze del campo, strette o larghe, erano piene delle cose più impensate: carte, sacchetti, lattine, rami di cespugli, scatole di cartone, pezzi di carcasse di animali. In questo marasma, si rincorrevano decine di bambini che mi venivano incontro battendo ritmicamente una scatola di latta con un bastone o una pietra e gridavano: « Au jet ṭabīb, Au jet

ṭabīb!, è arrivato il dottore, è arrivato il medico».

Così mi accompagnavano alla zarība del malato.

L’arrivo del medico era un evento, una festa, per la gente del campo. Le donne uscivano fuori dalle baracche e cominciavano a fare i loro gridolini, gli zaqarid [quei trilli acuti e laceranti con i quali le donne fanno festa e spronano i loro uomini].

Passavi nel campo anche due o tre ore, perché per un paziente che vedevi ce n’era un altro nella baracca vicina, uno shabān, un vecchio pieno di catarro, un bambino colla febbre, l’altro colla bronchite.

Non chiedevo soldi, perché non ne avevano e se anche avessero avuto di che pagare la visita, vedendo dove stavano e come vivevano cosa gli chiedevi … al massimo ti regalavano una hara 94 di uova. Era il massimo

che potevano darti. Non si può immaginare quanto fosse grande la loro miseria e quanto la loro riconoscenza per il medico.

La visita non la pagavano e soprattutto non avevano i soldi per comprarsi le medicine. Così mi attrezzai con una “farmacia ambulante”; nel portabagagli della macchina avevo i campioni medicinali, antibiotici e altri medicinali che distribuivo a chi ne aveva bisogno. Per fortuna avevo diversi amici nel settore farmaceutico che mi fornivano di tutto”.

Intervista a Carlo M.

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Davanti agli ambulatori governativi stazionavano maree di persone che avevano percorso chilometri per farsi visitare o per accompagnare un malato.

Per ogni singolo paziente arrivavano cinque o sei familiari che poi bivaccavano seduti per terra, magari con al centro un kanūn, un recipiente rotondo di terra cotta con fori lungo il margine inferiore per aerare il fuoco. Si accendeva un po‘ di carbone per scaldare una barrāda, una teiera sferica di shāī, di tè.

Talvolta quel piccolo bicchiere, appena sciacquato in una catinella d‘alluminio, riempito di tè lo si offriva per primo al medico: «Ţafaḍḍal yā ṭabīb! , favorisci dottore! », come gesto di devozione.

Spesso i parenti approfittavano della presenza del țabīb, del medico, per chiedere un‘ulteriore visita, per mostrargli una piccola lesione, una gola arrossata.

Il massimo della soddisfazione per un malato era avere come prestazione diagnostica ambulatoriale il dūlāb, letteralmente l‘armadio, l‘osservazione del torace in scopia ai raggi X. Se non veniva effettuata, perché il soggetto era affetto da baţna iemshi, letteralmente la ―pancia che va‖, la diarrea e quindi era un esame inutile, erano grosse discussioni, tanto è vero che i medici senza dūlāb, non venivano consultati.

Il massimo della terapia era la chirurgia e le cure parenterali: «Avevano un gran rispetto per la medicina, nella pillola, nella polverina, nel decotto vedevano gli elementi di una magica teriaca che doveva infallibilmente guarirli, ma l‘ammirazione più intensa andava al bisturi che taglia via il male e più ancora alla siringa che rimette direttamente nel sangue la salute perduta …» (Denti de Pirajno1974, pp.17-18 ).

Così ogni visita si concludeva sempre: «Dīru ībrah yā țabīb, dottore fai un‘iniezione», per cosa o di che non importava. Magari soffrivano solo di un semplice mal di testa o si sentivano deboli, ma pretendevano l‘iniezione .

Ma in chi stava veramente male, tanto male e negli anni cinquanta, con un‘assistenza sanitaria insufficiente e in alcune aree suburbane praticamente inesistente, subentrava una forma di rassegnazione mistica alla malattia.

Denti di Pirajno, la descrive così:

« Da dove ci vengono la malattia e la guarigione? », chiese a Dio il profeta Mosè. «Da me» gli rispose Allah.

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«E cosa fanno allora i medici? »

«Essi si guadagnano il pane e coltivano la speranza nel cuore del malato finché io gli tolgo la vita o gli concedo la salute».

« … il medico, ed è questo che gli conferisce una posizione privilegiata che occupa nella società islamica, è lo strumento di Allah e Allah lo incarica di guarire quando ha stabilito che l‘ammalato guarisca […] le malattie vengono da Dio ad espiazione dei peccati […]» (Denti di Pirajno, pp.17-18).

“Il medico a Tripoli, in Libia, era una persona privilegiata.

Stiamo parlando di più di 40 o 50 anni fa e a quei tempi il medico era considerato una specie di persona venerabile, non dico un dio sulla terra, ma sicuramente superiore alle altre persone *…+ … Ed è stata una grandissima esperienza, da medico posso dire d’aver fatto tutto. Due cose non ho fatto della professione: non ho estratto un dente e non ho assistito una partoriente. Poi ho fatto di tutto e più di tutto, in condizioni spesso disperate. Tutto, tutto, tutto!

Ciò mi ha fatto acquisire un’esperienza invidiabile se ci confrontiamo con i medici attuali che se li porti fuori della loro specializzazione non sanno fare niente. L’oculista sa tutto sull’occhio, l’otorino tutto su orecchie, naso e gola, ma al di fuori del suo campo non ci capisce niente”.

Intervista a Carlo M.

Le farmacie erano luoghi di ritrovo per tutti.

Il farmacista e i farmacisti erano quasi tutti italiani, era sorgente di consigli per la popolazione e talvolta sostituiva il medico, per varie ragioni non disponibile. Si faceva molto uso anche della medicina popolare, apprezzata dal popolo, ma anche dagli stessi medici e farmacisti che potevano contare su questi aiutanti ―praticoni‖ e anche risolutori, con ―buone maniere‖, di eventuali controversie .

“Quando ero alla “Farmacia La Cattedrale” di Tripoli avevo come collaboratore di farmacia (non laureato) un certo Muhammad, che era affettuosissimo, rispettoso con noi [italiani] e che mi aiutava cogli arabi, che non nutrivano alcun odio con noi, anzi … e ti posso sottoscrivere che nella farmacia della città vecchia, quella di mia mamma, c’era sempre la farmacia che straboccava di una ventina di barracani, mia madre sola, bella donna europea e mai nessuno le ha mancato di rispetto.

Ma anche lei non aveva nessun imbarazzo.

Tutti erano educati, dicevano grazie, pagavano le medicine fino all’ultimo centesimo, chiedevano consigli e mia madre li aiutava come poteva. Eravamo nella città vecchia e mia madre andava e veniva, anche di notte *turni notturni+ e non aveva nessuna paura. Non c’era nessuna

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preoccupazione o pregiudizio, come c’è qua con gli extracomunitari: eravamo tutti uguali, anche nella diversità. Direi che tutti erano molto rispettosi, c’è sicuramente più rispetto di quello che c’è qua … Tra tutti c’era solidarietà”.

Intervista a Marisa B.

Un po‘ per scarsità di mezzi economici, un po‘ per un‘antica abitudine si ricorreva per alcune pratiche mediche a persone che svolgevano egregiamente ruoli ―sanitari‖.

“…* no, mia madre+ non era levatrice, ma aveva avuto tanti figli e aiutava le donne anche quelle arabe, non credere solo con consigli, insomma le aiutava a sgravare [a partorire]. Loro erano povere e non avevano la levatrice …”

Intervista a Quinto Q.

“Io nacqui lì con la levatrice Cannavò, praticamente tutti in quel periodo (anni ’40-’50) a Tripoli siamo nati con la levatrice Cannavò “.

Intervista a Letterio A.

La signora Cannavò era una vera ostetrica diplomata a fece nascere i bambini di quasi tutta la città, compreso me e non solo italiani ma di tutte le collettività. Non possedeva un‘auto, molto rare, non sapeva guidare e all‘epoca i taxi erano pochi e costosi. Ha sempre viaggiato da un punto all‘altro della città, anche sotto i bombardamenti durante la guerra, utilizzando una carrozzella pubblica trainata da un cavallo. Al modesto onorario veniva aggiunto il costo del passaggio pagato direttamente al vetturino dal cliente.

“… c’era un’ebrea, una specie d’infermiera tuttofare che faceva anche nascere i bambini … Nessuno portava la moglie in ospedale a partorire … faceva partorire le donne, andava per le case a far nascere i bambini e curava malanni vari. Tutti si rivolgevano a lei, arabi, italiani, ebrei, maltesi, greci. Si chiamava Nesriyya ed era ebrea, era una donna sola. Non ha mai fatto guai, i bambini nascevano e quando aveva bisogno veniva in farmacia a prendere delle medicine e ci portava delle cose da mangiare, magari un cuscus, dei dolci. Ogni tanto chiedeva consigli sulle medicine a mia madre. Sapeva anche dove fermarsi.

Era rispettata da tutti alla hara, che la chiamavano perché era proprio brava, come fosse una dottoressa … Non aveva nessun parente, era sola,

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indipendente, si arrangiava facendo di tutto , meglio d’un medico 95.Per fare quello che faceva lei ci sarebbero voluti una decina di medici”.

Intervista a Marisa B.C.

Per curare le malattie, il popolino faceva spesso ricorso a mistici, santoni, fattucchiere, ciarlatani e a pellegrinaggi alle tombe dei marabutti.

La più importante era quella di Sidi 'Abdelsalam a Zliten, marabutto morto da quattro secoli che veniva letteralmente scorticata perché l‘intonaco era venduto per fare prodotti ―curativi‖ per le più svariate malattie.

Alberto Denti di Pirajno, medico in Libia, chiese ad un paziente, perché se i quattro quinti della patologia umana venivano guariti dai rimedi di Sidi Abdelsalam, c‘erano tanti ammalati in ambulatorio?

Il paziente rispose: « Perché all‘ambulatorio non pagano!»

Tra gli italiani che erano andati in Libia c‘erano anche medici e funzionari sanitari e negli anni cinquanta la Sanità si basava quasi esclusivamente sul loro operato (Scarfone 2013, pp.103-116).

In pochi, curavano in condizioni impossibili per scarsità di mezzi in un paese con frequenti episodi epidemici, con un‘igiene disastrosa e profilassi quasi inesistente che riguardava praticamente solo il vaiolo.

Conoscevano la popolazione, parlavano la loro lingua, rispettavano le loro tradizioni che talvolta impedivano una visita diretta della donna, della quale si faceva intermediario il marito e interpretavano le loro richieste 96 .

“… quasi tutti gli arabi andavano dai medici italiani … Andavano dai medici italiani e non pagavano mai. Ricordo il dottor R. che aveva l’ambulatorio vicino a casa mia, diceva che non pagavano …”

… il dottor R. era un santo, davanti al suo ambulatorio c’era la fila di

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Nei paesi mediterranei e anche in Libia, come ha documentato l’antropologo siciliano Giuseppe Pitrè, la medicina popolare è molto ricca di rimedi ed è largamente praticata. Nato nel 1841, Giuseppe Pitrè fu medico a Palermo e venne a contatto con i ceti più umili, contadini, pescatori e marinai. Nella Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane di Palermo c’è una sezione dedicata alla medicina popolare.

96 Tra le mie letture giovanili ricordo il libro di Denti di Pirajno “Un medico in Africa” dal quale ho

tratto precedentemente alcune osservazioni.

Capitano medico e funzionario in Libia, scrittore, nei suoi racconti che prendono spunto dalla sua esperienza, si sviluppano registrazioni, descrizioni, osservazioni e riflessioni sulla quotidianità e sui fatti della politica e della storia. La curiosità, l’empatia, l’uso della lingua e della

comunicazione, più che iscriverlo nella corrente del “colonialismo paternalistico”, lo ha reso ai miei occhi testimoniali un etnologo ed antropologo come anche sostiene Marianna Scarfone.

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arabi, io li vedevo dalla finestra di casa mia e non lo pagavano mai eppure lui li visitava tutti, gli dava le medicine [campioni farmaceutici], poverino stava fino a tardi per visitarli tutti, ascoltarli …”

Intervista a Ignazia A.

” Era il marito della sorella di mio padre. È stato medico di tante persone

a Tripoli. Recentemente ho incontrato Regina G., che lamentandosi della situazione sanitaria italiana, rimpiangeva la “humanitas “ del dottor M. Era un medico che entrava nei problemi della famiglia del malato e lei ricordava questo suo modo d’esserti vicino.

Pochi sanno cos’è un “campo-famiglia”, non si riesce neanche ad immaginare cosa sia entrare a visitare un malato in un campo famiglia. Mio zio non parlava in arabo o meglio preferiva parlare attraverso un traduttore. Se si trattava di una donna, il traduttore rimaneva fuori della tenda o della casa o meglio della zarība e da là traduceva le domande e le risposte.

Ti ricordi cos’era un campo famiglia? Un agglomerato di “zeribe”, senza servizi igienici, con fogne a cielo aperto.

Sai da dove deriva la parola zarība ? Se la cerchi sul vocabolario significa

ovile .

… Certo, perché erano tirate su con lamiere, legni, fascine, terra battuta e

materiale di recupero, come gli ovili, i ricoveri per le pecore …

In quei campi c’era da prendersi di tutto, tutte le malattie … Quando tornava a casa per mio zio c’era sempre un bagno d’acqua bollente che l’aspettava. Ricordo il bagno della casa di Shār’a Turchia: c’era ancora uno scaldabagno a legna.

Di lui voglio dirti un’altra cosa. Nella professione di medico ha dato molto. Lo posso dire perché sono testimone oculare, perché molte volte lo accompagnavo. Quando andava a visitare famiglie bisognose, famiglie arabe dove numerosi bambini ti giravano intorno come mosche, dove vedevi che c’era bisogno di tutto, portava il latte per i bambini.

Nell’auto aveva scatole di latte che donava alle famiglie numerose e dove sapeva che c’era bisogno. Era sensibile al discorso della povertà, ma soprattutto dei bambini.

Anche con noi nipoti aveva una sensibilità ed un affetto incredibili, ma aveva un senso della solidarietà che non ho mai visto in nessuno.

Ricordo che la sera della vigilia di Natale e lui teneva molto alla cena che facevamo tutti insieme. C’era ancora la nonna, la vedova del farmacista per capirci che viveva con loro, la zia Lidia, sua moglie e sorella di mio padre e tutti noi cuginetti.

Lui non voleva luci elettriche sull’albero di Natale, ma candeline vere. Noi bambini venivamo allontanati, i grandi accendevano le candeline, si apriva una porta e qualcuno diceva: E’ arrivato Gesù Bambino, è arrivato Gesù Bambino!.

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regali. Erano dei momenti ai quali lui teneva particolarmente, ma se succedeva che suonava il telefono per una chiamata urgente, non diceva una parola, prendeva la borsa e correva dal paziente. Era scuro in volto, dispiaciuto, ma partiva perché aveva un alto senso del dovere. Non ho mai sentito che abbia rifiutato una visita, una parola rassicurante di conforto a chiunque la chiedesse, di qualunque etnia. Oggi in Italia, molti medici dovrebbero saperlo”.

Intervista a Paola F.

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