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5 FINE DI UNA COLONIA

6. LA PRESENZA ITALIANA NELLA LIBIA INDIPENDENTE GLI ANNI CINQUANTA

6.3. Lanciare pietre: un mezzo per affermare la diversità

Nei quartieri, dove le collettività convivevano e si relazionavano, potevano incontrarsi arabi ed italiani, ma talvolta anche scontrarsi.

“La mattina andavamo a scuola là, ai Sulfurei e il pomeriggio si giocava in quello slargo dove c’era l’arco dove abitavo io nel quartiere del Lido 88. Tu non c’eri mai a giocare con noi. Non so cosa facessi il pomeriggio …

Tu non ricordi che i miei non mi facevano uscire dal perimetro del Lido … D’inverno giravo in bicicletta nei viali del Lido [guai a giocare in strada] … Mai andare oltre il Lido!

Una volta vennero degli arabetti, dei bambini libici che abitavano in case poco distanti. Qualcuno era della zona e qualcuno invece no. Guardavano la partitella: noi che giocavamo.

Ad un certo punto sono venuti là e ci hanno detto: «Facciamo arabi contro italiani …».

Mettiamo la palla al centro e cominciamo a giocare, però mancava l’arbitro e allora punizione sì, punizione no, fallo sì e fallo no, rigore sì e rigore no. Ad un certo punto uno di questi prende la palla e scappa via. Ero vicino a lui e siccome ero molto veloce l’ho inseguito. Scappa, scappa, scappa … per la fretta si va ad infilare in un vicolo cieco.

In fondo c’era un muro pieno di vetri.

Io arrivo e gli dico : «A’ţinī al-kurah …» , dammi la palla, te lo dico in dialetto, non so se palla si dice kurah anche in classico.

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Intorno al Lido delle Palme, il Lido Nuovo era sorta una sorta company town, case e villette vicino al mare

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Finisco il racconto: dico all’arabetto di darmi la palla e lui mi scansa e allora io gli ho dato una spinta sul petto. Quello cade all’indietro e finisce con la schiena su questo groviglio di cocci di vetro.

Comincia a piangere e a gridare … e io mi accorgo che ha tutta la maglietta piena di sangue.

Voglio aiutarlo, ma lui mi sputa in faccia. Loro avevano l’abitudine di sputarti in faccia. Arrivano gli altri bambini, arrivano anche degli arabi più grandi … anche dei giovani adulti e mi volevano menare … allungano le mani … poi degli arabi più anziani li hanno trattenuti.

Alla fine arriva la camionetta della polizia e subito dopo l’ambulanza per portare via questo ragazzo, che continuava a sanguinare dalla schiena e dalla testa e a piangere.

A me quelli della polizia mi avevano già messo dentro la camionetta per portarmi al merkez, alla stazione di polizia.

C’era uno che si sbracciava e parlava in una specie di italiano: «Tu berchè fatto male a questo bambino, berché buttato lui sui vetri. Berchè lui arabo e tu taliano? Tu cattivo, tu sgrasiato! »89 Io ero spaventatissimo e piangevo.

Qualcuno andò ad avvisare mio padre che aveva l’officina vicino allo stadio, sai dov’era, a due passi da là e mio padre corse subito. Tu immagini un bambino di sette anni caricato sul cellulare della polizia? Quando arrivò mio padre tra i singhiozzi gli dissi: «Papà, non gli volevo fargli male …! È caduto … non volevo …!»

Mio padre non parlava in arabo, ma in italiano, perché c’era anche il poliziotto che parlava in italiano.

Non lo so se mio padre gli mollò dei soldi … L’ufficiale di polizia ci mandò al Pronto Soccorso per chiedere scusa al bambino ed alla sua famiglia. Nel 1955 avevo sette anni.

Mio padre poi ha dato dei soldi alla famiglia di questo ragazzo, gli ha comprato dei vestiti e la questione si è sistemata, però a me mi ha detto: Tu non vai più a giocare in strada. Così, tramite un signore che si chiamava Mario M. e che lavorava all’Alitalia … mi raccomandò ai Fratelli Cristiani di prendermi là …”

Intervista a Domenico E.

Tra bambini il litigio per il furto di un pallone, che da qualunque parte avrebbe potuto limitarsi ad un‘animata discussione, prendeva tra gli adulti una piega ―politica‖ e diventava pretesto d‘affermazione della propria appartenenza. Al merkez, nella stazione di polizia, si andava all‘arbitrato più che per dirimere una banale contesa, per una rivalsa che evidenziasse la differenza : « … tu italiano cattivo, lui arabo poveretto …»‖ e per la conferma, da parte dell‘Autorità che la

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situazione di potere si era ribaltata rispetto all‘epoca coloniale.

Di fatto, quasi tutte queste situazioni si risolvevano in teatrali scuse e professioni di amicizia ―alla beduina‖, un luogo comune che indica un modo di relazionarsi e conciliarsi con un‘antagonista in condizioni di contrasto. L‘una e l‘altra parte, che prima si sarebbero ―scannate‖, imbastivano un autentico rituale di scuse, di giuramenti su Dio, atti di fratellanza, talvolta con abbracci come amici da vecchia data. Lo ―scontro‖ aveva permesso loro di conoscersi, di riconoscersi in una comune appatenenza e di accettarsi.

Avere un pallone da prendere a calci era un lusso e quando il tiro lo mandava oltre il muro … era una palla persa. Sciami di ragazzi libici lo prendevano e fuggivano come il vento.

Si cercava un luogo protetto dove giocare e nel cortile dei Fratelli Cristiani giocarono mussulmani, ebrei e cristiani, bambini e ragazzi d‘ogni nazionalità.

“Erano quelli anni ruggenti, te li ricordi, le partite a calcio con i palloni fatti di pezza. Tutta la Tripoli dei giovani, degli sportivi ha giocato in quel cortile. [Fratello Arnaldo dei Fratelli delle Scuole Cristiane] ha tirato via dalla strada centinaia di giovani del dopoguerra, che non sapevano cosa fare altrimenti … O giocare per strada o il cortile dei Fratelli…

Erano tempi duri poco dopo la guerra. Le palle fatte con le pezze e quando Fratello Arnaldo venne temporaneamente in Italia per motivi di famiglia, ad Alessandria, non tornò a mani vuote. Scese dalla nave con una rete di palloni che gli avevano donato.

Erano i palloni “Parola N. 5”. Tu te li ricordi i palloni Carlo Parola? *era un giocatore della Juventus].

Altri non ce n’erano o almeno erano sempre bucati. Quando la palla finiva sulla palma e si bucava,

Fratell’Arnaldo si toglieva l’orologio90 e diceva: «Chi è stato? »

C’era Sergio che era bravo a mettere toppe e su quei palloni c’erano più toppe che pelle”.

Intervista a Luciano F

Anche in questi ambienti protetti, si trattava di scuole private per lo più frequentate dalla borghesia che poteva pagare la retta, non ―scorrevano fiumi d‘oro‖.

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Quando Fratello Arnaldo si toglieva l’orologio era per darti una sberla per punizione; in questo gesto c’era la segnalazione di un “fallo” e dopo si ripartiva.

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Chiunque veniva accettato e quelli che abitavano fuori città avevano facilitazioni per il convitto che per alcuni era gratuito. Il poco che c‘era veniva condiviso e nella difficoltà di quei tempi, l‘opera educativa dei Fratelli delle Scuole Cristiane di San Giovanni Battista de La Salle, proseguiva anche per i più bisognosi, senza discriminazioni.

I Fratelli Cristiani avevano rispetto della cultura e religione d‘origine fin dai tempi della prima occupazione italiana: in Shār‟a Espagnol e poi nell‘Istituto di Shār‟a

Al-Afghani e anche a Bengasi dove le classi erano costituite quasi esclusivamente

da mussulmani. In una classe c‘era un solo cattolico.

In quel cortile, in quelle aule crebbe gran parte di Tripoli. “Stavamo a giocare in strada con gli amici, ma qualche volta andavamo anche dai Fratelli Cristiani.

In strada più che giocare ci pigliavamo a pietrate con gli inglesi. Sì, perché là c’era un palazzo dove stavano tutti inglesi e noi li prendevamo a pietrate.

Poi giocavamo con le pietrine, a pallone ad acchiapparci … Quello che però mi piace ricordare cogli arabi è che giocavamo a dama sulla sabbia *…+ per terra. Disegnavano la scacchiera sulla sabbia e usavano le pietre come pedine. Poi cancellavano tutto e rifacevano la scacchiera.

Poi andavamo a fare il bagno dove c’era il Mehari o al lido Qaramanli, sai dove c’era il molo Qaramanli, il molo sottoflutto in fondo al lungomare”91. Intervista a Quinto Q.

Fuori dalla scuola tra bambini e ragazzi, in assenza di adulti che potessero svolgere una mediazione, l‘appartenenza a gruppi diversi suscitava reazioni che iniziavano con l‘avvicinamento e la provocazione, ma che potevano sfociare in violenze, lanci di pietre, delle vere e proprie sassaiole. Almeno così allora le vivevo.

Oggi mi sembra più un modo per richiamare l‘attenzione, un mezzo di comunicazione e d‘affermazione invece che un‘occasione per sottolineare la diversità.

91 Si trovava a levante del porto. Scriveva negli anni ’30 Orlando Castigliola :“ … dal lato esterno

del molo sottoflutto, sulla cosiddetta Costa dei Qaramanli sorge tutti gli anni [spontaneo] un piccolo centro balneare di una cinquantina di capanne private *…+ In tale zona affluiscono alcune famiglie della Dhara e di Sciara Sciattt, né vi è alcuna organizzazione balneare …”

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“Io, nella mia presunzione di europea pensavo che gli arabi fossero quelli che avevano la faccia bucata, perché quando ero bambina il vaiolo era diffusissimo e tantissime persone avevano la faccia butterata ed io da piccina pensavo che fosse un fatto razziale …

Quando andavamo a scuola, gli arabetti, alle bambine italiane le prendevano a pietrate ed io mi domandavo perché.

Io mi salvavo perché ero magrissima e scura di pelle e le donne arabe di casa mi compativano come miskīnah bīnt , povera ragazza, perché ero magra e scura . Non c’è di peggio, per il gusto estetico di un uomo arabo, di una ragazza secca e scura. Però mi salvavo dalle pietrate perché sembravo un’arabetta, ma quando uscivo dalla chiesa ce le buttavano addosso.

Domandavo allora a mia madre: «Perché ci prendono a pietrate?» Intervista a Patrizia G.

“ No, con gli arabi avevamo un rapporto e anche contrasti più che accettabili , per esempio sapevamo benissimo che uscendo dal liceo, se percorrevamo quella stradina che passava davanti alle scuole arabe … sapevamo benissimo che prima o dopo c’era un attacco … che volavano pietre e quindi erano corse, scappare, ripararsi dalle pietrate e, dipende da quanti eravamo, se il numero era pari o se eravamo in numero minore se rispondere. Se erano in dieci contro uno correvi come una lepre. Ecco perché non si andava mai da soli … E mi ricordo soprattutto quando ci pigliavano a pietrate e là bisognava ripararsi …”

Intervista ad Angi C.P.

Lo scontro poteva diventare violento, ma per quanto mi ricordi, non accadde mai.

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