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La distinzione tra tortura, pena o trattamento inumano, pena o trattamento degradante

3.1 La soglia di gravità come criterio interpretativo

3.2 La distinzione tra tortura, pena o trattamento inumano, pena o trattamento degradante

Una volta accertato che il comportamento rientra tra quelli vietati dall’Art. 3, le soglie interne servono a delimitare il confine tra la tortura, le pene o trattamenti inumani e le pene o trattamenti degradanti. Nel più ampio contenitore dei maltrattamenti, questi concetti vanno decostruiti e ricomposti alla luce dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza europea, che ha sempre tenuto distinti tortura, trattamenti inumani e degradanti, utilizzando principalmente parametri quantitativi: essi si dispongono su una scala decrescente, il cui gradino più alto è occupato dai comportamenti più gravi qualificati come tortura, quelli meno gravi o ritenuti di natura strutturale occupano l’ultimo gradino e ricadono nelle pene o trattamenti degradanti, mentre a livello intermedio troviamo i trattamenti inumani.

Nell’analizzare il caso Greco, la Commissione aveva individuato una definizione dei tre livelli di maltrattamento contenuti all’Art. 3 partendo da una prima distinzione tra trattamento inumano e tortura. Nel fare ciò, la Commissione aveva utilizzato due criteri: il grado di sofferenza inflitta e l’obiettivo da raggiungere attraverso il maltrattamento. Secondo la Commissione, “la parola tortura è spesso usata per descrivere un trattamento inumano che ha lo scopo di ottenere informazioni o la confessione, o infliggere una punizione ed è generalmente una forma aggravata di trattamento inumano213”. Il dato teleologico del trattamento è un elemento di riferimento nell’interpretazione giurisprudenziale che non è mai stato messo in discussione; la giurisprudenza successiva, però, mostra un mutamento di prospettiva in quanto viene seguito un approccio che privilegia una progressione gerarchica delle tre forme di trattamenti, fondata sulla gravità della sofferenza inflitta.

Tuttavia, se è vero che nel valutare il grado di sofferenza inflitta la Corte può tenere in considerazione diversi parametri (come il sesso, l’età o lo stato di salute della vittima), il peso da attribuire a tali fattori relativi, nella valutazione dell’eventuale atto di tortura, deve essere minimo: atti che obiettivamente infliggono una gravità sufficiente di dolore saranno considerati torture sia che

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una persona sia uomo o donna, se ha una forte costituzione o meno214. La Corte

lo ha riconosciuto nel caso Selmouni dove ha affermato che il trattamento inflitto in quel caso

[…] non è stato solo violento ma sarebbe stato disgustoso e umiliante per chiunque, indipendentemente dalla loro condizione […] In queste circostanze, la Corte è convinta che la violenza fisica e mentale, considerata nel suo complesso, commessa contro la persona della ricorrente provocò dolori e sofferenze gravi ed era particolarmente grave e crudele. Tale comportamento deve essere considerato come atti di tortura ai fini del Articolo 3 della Convenzione215.

Nel già citato caso Irlanda contro Regno Unito, la Corte ha rilevato che, poiché le cinque tecniche sono state applicate in combinazione, con premeditazione e per ore, hanno causato almeno intense sofferenze fisiche e mentali alle persone loro sottoposte e anche portato ad acuti disturbi psichiatrici durante l'interrogatorio, le quali comportano sì una violazione dell’Art. 3 ma come trattamenti inumani piuttosto che torture.

[…] sebbene le cinque tecniche combinate insieme, siano trattamenti inumani e degradanti, sebbene il loro obiettivo fosse ottenere informazioni, confessioni e fare nomi, e sebbene furono usate sistematicamente, esse non causarono sofferenze di particolari intensità e crudeltà da considerarsi tortura216.

Nel caso Aydin contro Turchia, sia la Commissione che la Corte hanno riconosciuto i trattamenti subiti dal ricorrente come tortura, indicando nella decisione altri fattori oltre la gravità della sofferenza inflitta che distinguono un atto inumano da un atto di tortura. Il caso riguardava una minore di diciassette anni che, una volta tratta in arresto dalle forze di sicurezza, veniva tenuta in isolamento per tre ore senza contatti con l’esterno, bendata, picchiata, costretta a denudarsi, spruzzata con acqua pressurizzata e infine stuprata.

La Commissione, nella valutazione del caso, ha considerato la natura dello stupro -atto particolarmente crudele, che colpisce gravemente l’integrità fisica e morale di una persona- come un trattamento di particolare gravità perché comporta una reale sofferenza fisica e psicologia. L’atto è aggravato in quanto commesso da un ufficiale o da una persona dotata di autorità su una persona in stato di detenzione e quindi maggiormente vulnerabile; per questo motivo la

214 A. Reidy, The prohibition of torture. A guide to the implementation of Article 3 of the

European Convention on Human Rights, Human rights handbooks, No. 6, First impression, July

2003 Printed in Germany, p. 12. http://www.coe.int/en/web/portal/home - Data ultimo accesso: 27 luglio 2017.

215Corte, 28 luglio 1999, caso Selmouni contro Francia. 216Corte, caso Irlanda contro Regno Unito.

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Commissione ha ritenuto che i maltrattamenti subiti dal ricorrente dovevano essere qualificati come atti di tortura217.

Questi due fattori non aumentano il grado di sofferenza fisica ma sicuramente l’umiliazione e la sofferenza mentale della vittima, per questi motivi lo stupro, da trattamento inumano, fu elevato ad atto di tortura a causa delle circostanze e del contesto in cui questo crimine fu commesso218.

La stessa posizione è stata assunta dalla Corte nella sentenza successiva, nella quale, di fronte l'evidenza che la minore era stata violentata, ha affermato che lo stupro di un detenuto da parte di un funzionario dello Stato deve essere considerato particolarmente grave e una ripugnante forma di maltrattamento data la facilità con cui il reato può essere compiuto sfruttando la vulnerabilità e la resistenza indebolita della vittima. Inoltre, la stupro lascia profonde cicatrici psicologiche sulla vittima che non rispondono al passare del tempo più rapidamente di altre forme di violenza fisica e mentale. Anche la Corte ha ritenuto tali atti come tortura, condannando la Turchia al risarcimento per danni non pecuniari219.

Nel caso Aksoy contro Turchia220, la Commissione e la Corte hanno

concordemente ritenuto che il signor Aksoy era stato sottoposto a tortura: questi era stato incappucciato durante l’interrogatorio, colpito con scariche elettriche, aveva subito pestaggi, minacce, nonché sottoposto alla c.d. Palestinian hanging, una tecnica consistente nell’appendere la vittima per le braccia legandole dietro la schiena. La Corte per riconoscere gli atti di tortura non utilizza solo il criterio della sofferenza inflitta ma anche quella della natura dell’atto, dello scopo e delle circostanze; in questa decisione, un peso particolare lo hanno assunto le conseguenze della Palestinian hanging, che hanno causato la paralisi degli arti superiori del ricorrente.

La circostanza, gli elementi, la valutazione in base alla quale un atto è considerato tortura o meno si fonda su criteri mobili, non predefiniti, potendo comunque fissare alcuni punti fermi che emergono più frequentemente dalle sentenze della Corte: il grado della sofferenza inflitta, la crudeltà del trattamento, la particolare condizione della vittima, le circostanze e gli scopi perseguiti con il maltrattamento.

217 Commissione, 17 aprile 1997, caso Aydin contro Turchia. 218 V. Piccioni, op. cit., p. 121.

219 Corte, 25 settembre 1997, caso Aydin contro Turchia. 220 Corte, 18 dicembre 1996, caso Aksoy contro Turchia.

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Il maltrattamento che non viene configurato come tortura, perché non ha una sufficiente intensità o un obiettivo, viene classificato come inumano o degradante221. La Commissione ha considerato, fin dal caso Greco, il trattamento inumano come punto di partenza per distinguere il trattamento degradante dalla tortura:

“se si prende in considerazione il criterio del grado di sofferenza inflitta, nel caso una pratica non oltrepassi un’alta soglia di sofferenza e quindi non considerato un atto di tortura, ricade nella categoria del trattamento inumano; una pratica che oltrepassi il livello minimo di gravità, senza la gravità del trattamento inumano, può essere esaminata come trattamento degradante222”.

Nel caso Aksoy contro Turchia, la Corte ricava nuovamente il significato di tortura partendo dalla nozione di trattamento inumano

“per determinare se vi sia motivo di qualificare tortura una particolare forma di maltrattamento, la Corte deve avere riguarda alla distinzione, contenuta all’Art. 3, tra tale nozione e quella di trattamenti inumani e degradanti. Così come ha rilevato in precedenza, questa differenza sembra essere stata consacrata dalla Convenzione per marcare di speciale infamia trattamenti inumani deliberati provocanti sofferenze fortemente gravi e crudeli223”.

Se è vero che in alcuni casi, la Corte ha considerato alcuni trattamenti come inumani e degradanti senza operare una distinzione, è vero anche che la successiva giurisprudenza ha ritenuto possibile una distinzione tra forme di trattamento inumano e degradante e che la differenza risiede nel differente livello di gravità del trattamento inflitto, e questo perché il carattere inumano e degradante del trattamento non sempre coesiste e alcune forme di trattamento degradante possono anche non essere inumane224.

Nel caso degli Asiatici dell’Africa Orientale contro Regno Unito del 1973, nel suo parere la Commissione ha affermato che l’espressione trattamento degradante di cui all’Art. 3 si riferisce a comportamenti volti a sminuire la dignità della persona che raggiungano una certa soglia di gravità e tra questi rientra la discriminazione fondata sulla razza che può costituire di per sé in talune circostanze un trattamento degradante. L’espressione trattamento degradante

“mette in evidenza che tale disposizione tende in generale ad impedire lesioni particolarmente gravi della dignità umana. Di conseguenza, una misura che scredita una persona nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua reputazione, può essere considerata un trattamento degradante solo se raggiunge una certa soglia di gravità225”.

221 A. Reidy, op. cit., p. 16. 222 V. Piccioni, op. cit., 122.

223 Corte, 18 dicembre 1996, caso Aksoy contro Turchia. 224 Ibidem

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Per la Commissione, dunque, la natura degradante del trattamento risiede, in questo caso, nell’aver adottato una legge discriminatoria su base razziale, lesiva della dignità umana, facendo leva “sulla natura dell’azione più che sull’effetto degradante che questa pratica può aver avuto sui ricorrenti226”.

Nel caso Campbell e Cosans contro Regno Unito del 1982227, la Corte è stata chiamata a stabilire se l’uso delle punizioni corporali scolastiche vigenti nelle scuole scozzesi fosse da considerarsi un trattamento degradante. Un precedente in tema di punizioni corporali scolastiche era stato affrontato nel caso Tyrer dove, in concerto con la Commissione, la Corte aveva sostenuto che la punizione corporale, nelle modalità di esecuzione e per sua stessa natura, è comminata in modo da sminuire la persona davanti ai suoi occhi, perciò può costituire un trattamento degradante lesivo dell’Art.3. Nel caso Campbell e Cosans, la Corte ha evidenziato che il trattamento inumano è tale quando provoca un certo grado di umiliazione nella persona sia ai propri occhi sia agli occhi altrui e che questo trattamento deve essere valutato alla luce delle circostanze; a tale scopo, la Corte ha cercato di capire se quel tipo di trattamento veniva percepito come degradante in Scozia e se gli allievi si sentivano umiliati o sminuiti, arrivando alla conclusione che questo non era avvenuto. In entrambi i casi, la Corte arriva sì ad escludere l’applicazione dell’Art. 3 ma sulla base di motivazioni diverse: nel caso Tyrer, la Corte ha ritenuto che la punizione fosse degradante in sé e le circostanze ininfluenti; nel caso Campbell e Cosans, gli elementi considerati ai fini della decisione si basavano sull’opinione della Corte, delle vittime e di altri rispetto a ciò che poteva considerarsi degradante.

Il trattamento degradante228 si configura allorché vengono ingenerati nella vittima sentimenti di angoscia, paura, inferiorità e umiliazione davanti ad altri, essendo portato ad agire contro la propria volontà e coscienza, a prescindere dal fine specifico per cui tale trattamento sia posto in essere229 e possono consistere sia in un’attività materiale di violenza fisica sia in casi dove è assente una vera e propria violenza fisica ma si pone in essere, ad esempio, una discriminazione

226 V. Piccioni, op. cit., p. 124.

227 Corte, 25 febbraio 1982, caso Campbell e Cosans contro Regno Unito.

228 I fattori come l’età e il sesso della vittima possono avere un impatto maggiore per valutare il

trattamento degradante rispetto alle ipotesi di tortura e trattamento inumano, in quanto la valutazione del trattamento degradante nei confronti dell’individuo è intriso di condizionamenti soggettivi.

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razziale. Tuttavia, l’assenza dello scopo non esclude la constatazione della violazione dell’Art. 3, essendo sufficiente anche solo l’accertamento della natura del trattamento affinché si configuri la violazione.

Anche per quanto riguarda il trattamento inumano, ancora una volta, bisogna fare riferimento al caso Greco, dove la Commissione ha affermato che tale nozione copre un trattamento che deliberatamente provoca gravi sofferenze, fisiche e mentali, quando la situazione è ingiustificata. In questo caso, il trattamento è stato considerato inumano perché premeditato, perpetrato per ore e ha causato gravi sofferenze fisiche e mentali. Molti casi di trattamenti inumani si verificano nel contesto della detenzione, in cui le vittime sono soggette a gravi maltrattamenti i quali però non hanno l’intensità tale da essere qualificati come atti di tortura; un altro caso indiscutibile di trattamento inumano è costituito dalle sevizie inflitte durante il fermo di polizia quando l’uso della forza fisica non è resa strettamente necessario dal comportamento della persona privata della libertà230.

La Corte ha riconosciuto come il trattamento inumano e degradante può essere applicato ad una serie di comportamenti al di fuori della detenzione in cui le vittime sono esposte a deliberati atti crudeli che li lasciano in estrema difficoltà: nei casi Asker, Selçuk, Dulas e Bilgin, le abitazioni dei ricorrenti erano state distrutte durante le operazioni effettuate dalle forze di sicurezza turche. In tutti questi casi, sia la Corte che la Commissione, hanno ritenuto che la distruzione delle case dei ricorrenti costituiva un atto di violenza e una distruzione deliberata, senza tener conto della sicurezza e del benessere dei ricorrenti che sono stati lasciati senza riparo e in circostanze cha hanno causato di angoscia e sofferenza: questo è un trattamento inumano ai sensi dell’Art. 3231.

La maggior parte dei comportamenti che ricadono nel divieto di cui all’Art. 3 costituiscono tortura o trattamenti inumani o degradanti; in certe circostanze, questi comportamenti si configurano come delle vere e proprie punizioni inflitte alla vittima, dovendosi stabilire se tali punizioni sono inumane o degradanti. La pena giudiziaria non può essere riconosciuta di per sé come degradante o inumana, nonostante per sua stessa natura comporta un’inevitabile umiliazione insita nella punizione stessa. La Corte, pertanto, richiede che per essere

230A. Reidy, op. cit., p. 16: C. Zanghi, op. cit., p. 179 231A. Ready, op. cit., p. 16.

Vedi giurisprudenza della Corte nei casi Selçuk e Asker contro Turchia, 24 aprile 1998; Dulas contro Turchia, 30 gennaio 2001; Bilgin v. Turchia, 16 novembre 2000.

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qualificata come degradante o inumana, tale punizione deve essere distinta dalla punizione in generale, intesa come sanzione giuridica legittima prevista dall’ordinamento in conseguenza della violazione di un precetto giuridico e applicata a seguito di un processo che accerti la responsabilità, e di conseguenza condanni colui che lo ha violato.

Affinché una pena sia degradante e violi l’Art. 3, l’umiliazione e lo sconforto da cui è accompagnata devono collocarsi ad un livello particolare e differenziarsi in ogni caso dall’ordinaria componente di sofferenza tipica di ogni pena. Nel vietare espressamente le pene inumane e degradanti, l’Art. 3 implica, del resto, che non si confondano con le pene in generale232.

La pena inumana è stata individuata in parallelo alla valutazione della fattispecie della pena di morte. Pur avendo ribadito che l’Art. 3 non può essere interpretato nel senso di vietare in linea di principio la pena di morte, la Corte ha considerato che

[…] Affinché una pena o un trattamento con esso associato sia "inumano" o "degradante", la sofferenza o l'umiliazione coinvolta deve in ogni caso andare al di là di quell'inevitabile elemento di sofferenza o umiliazione legata ad una determinata forma di punizione legittima (si veda sentenza Tyler, qui cit.). A questo proposito, si deve tener conto non solo del dolore fisico sperimentato ma anche, quando vi è un considerevole ritardo prima dell'esecuzione della pena, dell'angoscia mentale della persona condannata di anticipare la violenza da lui inflitta233.

Secondo la Corte, sarebbe solo in circostanze eccezionali che una pena grave porterebbe a porsi la questione di una violazione ai sensi dell'Art.3: gli Stati godono di un margine di discrezionalità o di un margine di apprezzamento in termini di punizione nei confronti dei loro detenuti.

La Convenzione europea non contiene alcun riferimento specifico al trattamento delle persone private della libertà personale; tuttavia, la Commissione e la Corte hanno cercato di colmare questa lacuna facendo rientrare il trattamento dei detenuti nella sfera d’azione dell’Art. 3, in linea con “lo spirito del Preambolo della Convenzione che vede nel patrimonio comune di valori e ideali, la garanzia di una sempre maggiore protezione della dignità e libertà di ogni persona234”. Nel parere Ilse Koch contro Austria del 1968, la Commissione ha stabilito che il principio della detenzione “non priva il detenuto della garanzia dei diritti e delle libertà protetti dalla Convenzione”; e ancora, nel parere Kotalla contro Paesi

232 Vedi la Corte, 26 marzo 1993, caso Costello-Roberts contro Regno Unito. 233 Corte, sentenza Soering.

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Bassi del 1979, ha affermato che “una pena regolarmente inflitta può sollevare un problema rispetto all’Art. 3 per il modo in cui si è realizzata”.

Per un Paese membro del Consiglio d’Europa, essere riconosciuto colpevole di una violazione dell’Art. 3, costituisce una pesante macchia e per tale motivo la Corte e la Commissione hanno adottato il criterio «al di là di ogni ragionevole dubbio» richiedendo prove gravi, precise e circostanziate, facendo ricadere sul ricorrente l’onere della prova235; questo però rappresenta un aggravio per i

detenuti, per i quali è sempre più difficile provare di aver subito dei trattamenti contrari alla Convenzione, cosa che spesso impedisce di arrivare ad una condanna. Tuttavia, con la sentenza Tomasi, viene introdotto un elemento nuovo: nel caso di abusi e maltrattamenti, spetta allo Stato dimostrare che tali atti non si siano svolti durante il periodo di detenzione. La Corte europea, dopo aver esaminato il referto medico, rilasciato dopo quattordici ore d’interrogatorio presso la stazione di polizia, ha stabilito che l’elevato numero e la gravità delle ferite presenti sul corpo del ricorrente non potevano ragionevolmente essere presenti prima dell’interrogatorio e quindi costituivano prova sufficiente che l polizia avesse violato l’Art. 3236. Ancora, nel caso Ribitsch contro Austria, la

Corte ha affermato che ogni qualvolta sia usata forza su un soggetto privato della libertà personale senza che ciò sia necessario, sminuendo la sua dignità umana, si è in linea di principio nell’ambito della violazione dell’Art. 3237: il criterio

interpretativo usato in una decisione è l’uso della forza, nell’altra la gravità delle ferite inflitte.

Nel caso Labita contro Italia238, la Commissione e la Corte hanno assunto una posizione diversa. Il caso riguarda il trattamento di Benedetto Labita, sospettato di essere membro di un’organizzazione mafiosa di Alcamo, trasferito nel carcere di Pianosa nel 1992, e sottoposto a carcere duro, regime 41- bis della L. n. 354/1975. In seguito all’assoluzione in secondo grado dalla Corte d’Appello di Palermo, il ricorrente denuncia la violazione di una serie di articoli della Convenzione e dei suoi Protocolli addizionali, tra i quali anche la violazione dell’Art. 3, sostenendo di essere stato sottoposto a misure d’isolamento notturno e diurno, nonché percosse e intimidazioni da cui risultarono traumi di tipo fisico

235 Riferimento al caso Tomasi contro Francia in V. Piccioni, op. cit., p. 128. 236 Commissione, Tomasi contro Francia.

237 Corte, 4 dicembre 1995, Ribitsch contro Austria. 238 Corte, 4 giugno 2000, Labita contro Italia.

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e disturbi psicologici. La Commissione europea dei diritti dell’uomo aveva considerato tali comportamenti come sevizie e pertanto rientranti nell’ambito dell’Art. 3; la Corte, invece, con nove voti contro otto, ha ribaltato tale decisione condannando l’Italia solo per non aver svolto accurate indagini sui fatti denunciati dal signor Labita alle autorità competenti. Stesso destino ha avuto il caso Indelicato contro Italia239, riguardante la situazione di un cittadino italiano arrestato e imprigionato nell’ambito di un’operazione antimafia contro il narcotraffico, sottoposto al 41 bis e detenuto presso il carcere di Pianosa fino al 1997, quando è stato prosciolto dalle accuse. Il signor Indelicato aveva

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