LA TORTURA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE: DIVIETO, PREVENZIONE E REPRESSIONE
2. Tortura come lesione della dignità umana
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non fornisce, in senso stretto, una definizione di tortura ma si limita a vietare espressamente il ricorso a determinati comportamenti in una prospettiva di tutela nei confronti di diritti dell’uomo universalmente riconosciuti.
L’uso linguistico corrente del termine può evocare il ricorso a pratiche in grado di provocare gravi sofferenze ma questo non ci fornisce alcun criterio selettivo capace di distinguere la tortura rispetto ad altre situazioni: per poter parlare di tortura, non si può guardare semplicemente a ciò che succede ma «c’è bisogno di un criterio ulteriore rispetto alla semplice percezione fenomenologica dell’accadimento102».
Le fonti normative regionali e internazionali successive alla Dichiarazione -nel quale contesto si ravvisa nuovamente l’uso del termine tortura- hanno indubbiamente il merito di aver posto, accanto al puro e semplice divieto, una definizione più stringente di tortura, arricchita di criteri ulteriori in grado di creare una linea di demarcazione volta a differenziare talune situazioni rispetto ad altre. Nonostante ciò, il concetto di tortura -così inserito nel primo e più importante documento in materia di diritti umani riconosciuti in ambito internazionale- funge esso stesso da parametro per la definizione di un altro concetto giuridico, quello di dignità umana, che è il punto di partenza per capire in che modo la tortura offende l’uomo nella sua dignità:
l’atto di tortura annichilisce innanzitutto la dignità della vittima, prima ancora di inferire segni fisici sul corpo ed in quanto tale è considerato un atto di violazione dei diritti fondamentali dell’individuo103.
102 T. Padovani, Tortura: anno accademico 2006/2007, Pisa university press, Pisa, 2015, p. 9. 103 M.C. Bassiouni citato da F. Trione, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza
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Addentrarsi in una disquisizione sulla dignità umana potrebbe rivelarsi pericoloso e portare a focalizzare l’attenzione su problematiche per le quali sarebbe necessario un lavoro autonomo, data la complessità della questione, e una ricerca specifica che non può trovare terreno fertile in questa sede.
Le difficoltà emergono già nella ricerca di una definizione che sia appropriata del concetto di dignità umana104: ogni tentativo di attribuire un qualsiasi significato sembrerebbe insoddisfacente perché troppo riduttiva o, al contrario, talmente estesa da farle perdere utilità concreta105.
Il concetto di dignità è stato impiegato con modalità differenti ed è stato volta per volta riempito dei contenuti più vari. Per molto tempo, la dignità umana si è risolta in diritti specifici come, ad esempio, la difesa da tortura e trattamenti inumani e degradanti o si è identificata in un complesso globale di diritti.
Nel dibattito contemporaneo, sul concetto di dignità umana, si è aperta la strada verso la convinzione che la sua esistenza dipenda da una sua scissione rispetto alla problematica dei diritti106.
Il binomio dignità umana-diritti, però, presenta un’indubbia connessione: le caratteristiche che permettono ai diritti umani fondamentali di essere assoluti, non negoziabili, indisponibili, inviolabili, non derivano forse dal fatto di essere diritti propri di un essere dotato di una particolare dignità?
Queste argomentazioni non sembrano sufficienti a dimostrare l’indipendenza del diritto da basi non giuridiche.
“I diritti umani sono giuridici a tutti gli effetti, ma i loro legami con la dignità umana potrebbero condurre ad un'eccessiva dipendenza del diritto dalla morale a meno che non si elabori una nozione giuridica autonoma della dignità stessa107”.
Se indicassimo la dignità umana come “una particolare posizione dell’essere umano nei confronti degli altri esseri della natura e, conseguentemente, una
104 La nota idea kantiana secondo la quale l’uomo non può essere mai considerato come mezzo,
ma deve essere sempre considerato come fine viene considerata concordemente dalla dottrina un buon punto di partenza. Ma resta solo un punto di partenza, ponendo l’idea kantiana diverse problematiche al momento di una sua traduzione in termini giuridici.
105 G. Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative
in Rivisteweb – Il Mulino, Fascicolo 1, marzo 2011.
La nostra stessa Corte costituzionale, pur avendo impiegato più volte e in diverse occasioni il concetto di dignità umana, si è ben guardata dal tentare di ricostruirne una definizione, tentativo che invece ha effettuato con riferimento ad altri diritti inviolabili come la libertà personale.
106 F. Viola, Lo statuto normativo della dignità umana, da Dignità della persona.
Riconoscimento dei diritti nelle società multiculturali, a cura di A. Abignente e F. Scamardella,
Editoriale Scientifica, Napoli, 2013, p. 283.
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particolare considerazione e trattamento che ad esso dovrebbero essere riservati”, ne avremmo dato una qualificazione normativa e non già puramente empirica108: in base ad essa, l’essere umano è un valore in sé e ad esso si deve rispetto. La dignitas indica eccellenza e superiorità morale; essa si fonda su ragioni che possono essere di due tipi: da un lato, la presenza di caratteristiche ontologiche che sono a loro volta di per sé dotate di un valore morale; dall’altro, il trovarsi in una posizione sociale di superiorità per ragioni legate alla nascita, al potere, al censo, al merito o alla virtù109. Da queste ragioni, sono state sviluppate due diverse teorie che hanno contribuito a ridefinire la dignità umana: la «teoria della dotazione» e la «teoria della prestazione»110.
Secondo la prima, la dignità umana riposa su ciò che l’uomo è per natura o per creazione. Per la seconda, la dignità umana è il risultato dell’agire umano, una conquista della sua soggettività e della sua identità.
“Il concetto di «dignità umana» ha una chiara origine morale e costituisce il nucleo dell’ontologia dell’uomo moderno. Ma né la giustificazione morale, né quella ontologica possono fungere da base di partenza adeguata per determinare il concetto giuridico di dignità umana111”.
Il rilievo di tali teorie, ai nostri fini, si inserisce nel contesto delle possibili ripercussioni sugli strumenti normativi che fanno riferimento alla dignità umana e incidono, in definitiva, nel rapporto tra dignità umana-tortura.
Il rischio di affidarsi ora ad una teoria ora all’altra è quello di creare degli spazi vuoti che rischiano di lasciare l’essere umano privo di una protezione e di un riconoscimento a seconda che le definizioni di dignità umana siano fondate sulla concezione ontologica o sulla concezione giuridica112.
Indubbiamente, il vantaggio della via ontologica e della teoria della dotazione sarebbe quello attribuire dignità a tutti gli individui per il solo fatto di essere parte della specie umana, senza tollerare discriminazione alcuna derivante da qualsiasi forma di diversità.
108 Voce "Dignità umana", in Enciclopedia filosofica, Vol. III, Milano, 2006, pp. 2863-2865. 109 Ibidem.
110 H. Hofmann, La promessa della dignità umana, in Rivista internazionale di filosofia del
diritto, Vol. 76, 1999, p. 625 ss.
111 F. Belvisi, Dignità umana: una ridefinizione in senso giuridico, in Rivisteweb – Il Mulino,
Fascicolo 1, giugno 2012.
112 A tal proposito, è interessante il confronto che Belvisi nell’op. cit. fa tra l’Art. 1 della Legge
fondamentale tedesca, fondato su una concezione ontologica della dignità umana, e l’Art. 2 e 3 della Costituzione italiana, fondato su una concezione giuridica della dignità umana, al quale rimando, non essendo possibile in questa sede sviluppare interamente la sua tesi.
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Tutti coloro che appartengono alla specie umana hanno ipso facto quello status normativo particolare che viene solitamente designato come "dignità"113.
È una teoria universale e includente, una conquista, che di certo non deve essere smarrita e deve essere raggiunta da ogni teoria che si professa alternativa, cioè “non discriminare tra gli esseri umani e porre le basi per un loro trattamento come aventi tutti eguale dignità114”.
Se ciò che resta veramente importante, però, sono il riconoscimento e la protezione della dignità, la via da prendere è necessariamente quella giuridica, guardando cioè alla dignità in collegamento con i diritti e la democrazia. In questo contesto, la dignità umana ha un carattere relazionale in quanto ci parla della posizione dell'essere umano nei confronti dei suoi simili.
Pertanto, la teoria della dotazione deve essere integrata dalla teoria della prestazione se quest'ultima è intesa innanzitutto come prestazione da parte degli altri e della società nel suo insieme115.
La teoria della prestazione si riferisce al titolare della dignità che merita una particolare considerazione sociale a seguito delle sue azioni e dei suoi comportamenti; in questo senso, tale teoria non è universale perché la dignità spetta soltanto a chi può vantare qualche merito specifico.
Ad ogni essere umano si deve "rispetto"116, ma questo non deve confondersi con la dignità
che è una conquista morale e sociale, un segno di distinzione che conferisce onore e gloria o anche non trascurabili benefici materiali.117
Se vogliamo, tale teoria comporta anche disuguaglianza, perché la dignità deve essere conquistata dagli uomini ma gli uomini hanno modi diversi nel fare e nell’agire. Inoltre, non basta conquistarsi un ruolo sociale ma bisogna anche onorarlo attraverso i comportamenti.
Possiamo dire, in definitiva, che mentre la teoria ontologica “custodisce il senso minimo di dignità che è presente in tutti gli esseri umani in quanto tali”, la teoria della prestazione “ci ricorda che la dignità come realizzazione, a differenza dei diritti, non è uguale per tutti, perché dipende dal riconoscimento che si riceve dalla società e dall'uso che ognuno fa della propria dotazione naturale e del proprio ruolo sociale”118.
113 F. Viola, op. cit., p. 287. 114 Ibidem.
115 F. Viola, p. 290.
116 Inteso come rispetto- riconoscimento e non rispetto- stima. 117 Ibidem.
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Questa breve digressione deve essere d’aiuto nel comprendere che quando affermiamo che la tortura è radicalmente contraria alla dignità umana e lesiva della stessa intendiamo dire che lede non solo quella dignità che appartiene all’uomo in quanto tale ma anche quella dignità che l’uomo deve comunque conquistare per essere uomo119.
La dignità umana può essere intesa, per usare la metafora di Patrizio Gonnella, come decoro o come umanità. Il decoro è il vestito superficiale con il quale l’uomo si presenta all’esterno; l’umanità è il corpo e l’anima sotto quel vestito. Alcuni hanno il vestito buono, altri -come i detenuti- non hanno il vestito buono. Nonostante ciò, la dignità come umanità è una qualità universale che appartiene a chiunque e viene conservata, a prescindere dalla condizione in cui l’individuo si trovi120. La dignità umana è il bene giuridico protetto dalla tortura.
La tortura offende la dignità umana e azzera l’umanità. Lo scenario tipico che l’immagine della guerra reca con sé rappresenta la situazione per eccellenza che giustifica la compressione dei diritti fondamentali nei confronti dell’umanità; ma anche nelle più civili democrazie in tempo di pace, lo spettro della tortura si rifugia volentieri dietro le mura delle carceri o, perché no, dietro le mura domestiche. Il divieto generale contenuto nella Dichiarazione universale si arricchisce, allora, di un monito ancora più forte per gli Stati che proviene dall’Art. 3 delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra121. La tortura viene bandita sia in tempo di pace che in tempo
119 Un punto d’incontro tra le due concezioni, quella della dotazione e quella della prestazione,
può essere in qualche modo trovato nel celebre discorso De dignitate hominis (1486) di Giovanni Pico della Mirandola, che, da una parte, fonda la dignità umana sulla centralità ontologica dell’uomo nel mondo e, dall’altra, la collega all’uso della libertà. La dignità è qualcosa che insieme si ha e si deve conquistare. – voce Dignità umana, in Enciclopedia filosofica.
120 P. Gonnella, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica,
DeriveApprodi, Roma, 2013, p. 19.
121 L’Art. 3 stabilisce che “Nel caso in cui un conflitto armato privo di carattere internazionale
scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti: 1. Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri di forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole che si riferisca alla razza, al colore, alla religione o alla credenza, al sesso, alla nascita o al censo, o fondata su qualsiasi altro criterio analogo.
A questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone sopra indicate: a. le violenze contro la vita e l'integrità corporale, specialmente l'assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b. la cattura di ostaggi; c. gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti;
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di guerra: il divieto è assoluto perché assoluta è l’intangibilità della persona umana.