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La morte di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e Stefano Cucch

LA TORTURA IN ITALIA

5. Lo spettro della tortura in alcuni casi italian

5.2 La morte di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e Stefano Cucch

I rapporti del Comitato europeo per la prevenzione contro la tortura mostrano come la fase del fermo e dell’arresto sono quelle maggiormente esposte a rischio di degenerazioni violente e abusi da parte delle forze dell’ordine. L’apice di queste forme degenerative si raggiunge quando il fermato o l’arrestato muoiono durante l’attività di controllo o di custodia da parte dei rappresentanti dello Stato: sebbene i rapporti del Comitato evidenziano come le violenze più brutali avvengono più frequentemente nel chiuso delle caserme o dei commissariati, ciò non toglie che talvolta la violenza possa essere perpetrata anche per strada. È il caso di Federico Aldrovandi, studente ferrarese di diciotto anni, morto durante un controllo di polizia mentre rientrava da solo a casa dopo una serata trascorsa con degli amici nel settembre del 2005; la colpa sarebbe stata quella di aver assunto sostanze alcoliche e stupefacenti che avrebbe comportato schiamazzi durante la notte. A seguito di una chiamata al 112 da parte di privati cittadini che aveva segnalato la condotta molesta di un giovane, una pattuglia della polizia viene inviata sul posto. Dopo uno scontro fisico e violento con quattro agenti di polizia, Federico muore per asfissia da posizione.

Il tribunale di Ferrara, con sentenza 6 luglio 2009, condanna i quattro poliziotti alla pena di tre anni e sei mesi ciascuno per omicidio colposo oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

Ai pervenuti, secondo i termini dell’imputazione, si contesta di aver cagionato con colpa consistita nell’aver omesso di richiedere l’intervento tempestivo di personale sanitario, nell’avere ingaggiato una colluttazione con il predetto giovane eccedendo i limiti del legittimo intervento, nell’aver omesso di prestare le prime cure e nell’aver tenuto il ragazzo ormai agonizzante in posizione prona ammanettato o comunque concorso a cagionare il decesso di Federico Aldrovandi, determinato da insufficienza cardiaca conseguente a difetto di ossigenazione correlato sia allo sforzo posto in essere dal giovane per resistere alle percosse, sia alla posizione prona con polsi ammanettati che aveva reso maggiormente difficoltosa la respirazione313.

Il 10 giugno 2011 la Corte d’Appello di Bologna conferma la sentenza di primo grado

[…] i poliziotti che intendevano fermare ed identificare il ragazzo, ingaggiarono con il giovane una violenta colluttazione, percuotendolo ripetutamente con calci e pugni e con

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l’impiego di manganelli; la colluttazione si concluse con il ragazzo tenuto schiacciato a terra, in posizione prona, immobilizzato con l’uso delle manette314.

Le quattro condanne a tre anni e sei mesi (tre delle quali indultati) sono state poi ulteriormente confermate dalla Corte di Cassazione nel giugno 2012.

Ciò che rileva nella vicenda Aldrovandi è ancora una volta l’inadeguatezza della sanzione rispetto all’estrema gravità dei fatti: a conferma di ciò, il tribunale di sorveglianza di Bologna ha negato gli arresti domiciliari per uno dei poliziotti condannati tenuto conto che i fatti in questione integrano

gli estremi del crimine di tortura […] secondo la definizione recepita nel diritto consuetudinario e in Convenzioni cui l’Italia ha aderito, pur essendo rimasta inadempiente rispetto agli obblighi di adattamento interno315.

Un esito giudizialmente meno felice è quello relativo alla morte il 13 giugno 2008 di Giuseppe Uva. Il quarantatreenne di Varese, ubriaco e in compagnia di un amico, alle ore 3:00 del mattino, viene fermato dai carabinieri per atti vandalici e portato in caserma; poche ore più tardi viene richiesto un TSO per autolesionismo, effettuato poche ore dopo (ore 6:00); gli vengono somministrati alcuni sedativi e psicofarmaci: ricoverato presso il reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, Uva muore alle ore 11:00 del 14 giugno. Secondo la versione ufficiale, la causa della morte sarebbe dovuta alla somministrazione di farmaci incompatibili con l’alcool assunto quella notte.

L’amico presente quella notte, Alberto Biggiogero, il giorno dopo deposita un esposto per denunciare i fatti dei quali è stato testimone.

Il fascicolo finisce in mano del pubblico ministero Agostino Abate e, da quel momento, passeranno anni di infiniti rinvii, omissioni, irregolarità all’interno di un’inchiesta che produrrà un primo, lungo e inutile processo per colpa medica.

La tesi accusatoria è la seguente: i sanitari dell’ospedale avrebbero somministrato a Uva medicinali incompatibili con il suo stato etilico. Da quel processo i tre imputati usciranno assolti con formula piena, mentre i carabinieri e i poliziotti non saranno nemmeno ascoltati, così come il testimone oculare Alberto Biggiogero.

Ben tre giudici, nei vari dispositivi emessi in quei primi anni di processo, intimeranno al p.m. Abate di indagare sui fatti accaduti all’interno della caserma. L’ostinato rifiuto ad adempiere questo suo primario dovere, gli costerà un atto d’incolpazione da parte del procuratore generale presso la corte di cassazione e una assai controversa azione disciplinare da parte del Consiglio superiore della magistratura conclusasi con un nulla di fatto316.

314 Ibidem.

315Tribunale di Sorveglianza di Bologna, ordinanza n. 1281 del 21 maggio 2013, in

www.penalecontemporaneo.it

316 L. Manconi, V. Calderone, Il caso Uva è in cerca di verità da anni, in

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Soltanto nel 2014 il fascicolo è stato definitamente tolto al p.m. Abate e il giudice per le indagini preliminari ha disposto l’imputazione coatta per i due carabinieri e i sei poliziotti, accusati, tra gli altri reati (abuso di autorità, abbandono d’incapace, arresto illegale), di omicidio preterintenzionale: il processo in Corte d’Assise è ricominciato il 20 ottobre 2014, procedendo con assurda lentezza e disinteresse sociale.

All’interno di una comunità relativamente piccola (80mila abitanti) accade un fatto a dir poco lacerante: un giovane uomo entra vivo in una caserma dei carabinieri, vi viene trattenuto illegalmente, ne esce in ambulanza per morire dopo poche ore in un reparto ospedaliero […] non ci sono una sentenza o un referto definitivi in grado di escludere che Uva sia morto proprio a motivo di quanto è accaduto in quella caserma, ma nemmeno una credibile ipotesi su altre possibili cause […] La solidarietà nei confronti dei familiari di Giuseppe Uva è stata tardiva, scarsa, occasionale317.

Dopo otto anni di indagini e processi, il 15 aprile 2016 gli imputati vengono assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale «perché il fatto non sussiste»; intanto, la procura generale di Milano nella persona di Massimo Gaballo ha impugnato il provvedimento della Corte d’Assise di Varese.

Il caso Uva mostra come la lentezza dell’iter processuale, lo scarso interesse delle autorità pubbliche e politiche, nonché dell’intera comunità locale, ci metta anni per far luce sui fatti, luce talvolta alimentata solo da quella piccola porzione interessata all’accertamento della verità: la famiglia della vittima.

Un ruolo importante ha assunto la determinazione dei familiari anche nel caso Cucchi. Stefano Cucchi, trentuno anni, viene arrestato a Roma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 per possesso di 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina e successivamente rinchiuso in una cella di sicurezza presso la caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima ma nonostante le sue condizioni di salute, il giudice convalida l’arresto e fissa una nuova udienza, che Cucchi attende nel carcere di Regina Coeli. Nel frattempo le sue condizioni di salute peggiorano: il 17 ottobre viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato.

Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale.

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Viene chiesto il ricovero, ma il geometra trentenne viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre.318

Cucchi è passato dalla caserma dei carabinieri, al carcere, al tribunale, al carcere, all’ospedale civile, al reparto detentivo di un ospedale pubblico, il Sandro Pertini, dove la violenza trova il suo epilogo; tutti luoghi dove dovrebbe regnare la legalità e dove invece in pochi giorni, Stefano muore.

Dopo la morte di Cucchi, cominciano le indagini. La vicenda giudiziaria è quanto mai lunga e complessa: a gennaio del 2011, i primi rinvii coinvolgono medici e infermieri dell’ospedale Pertini e tre guardie carcerarie. A giugno 2013, arriva la sentenza: quattro medici e il primario vengono condannati a pene comprese tra 1 anno e 4 mesi e 2 anni di reclusione per omicidio colposo (pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico, sei, tra infermieri e guardie penitenziarie, vengono invece assolti. Secondo le motivazioni della sentenza di primo grado, Cucchi morì per “sindrome da inanizione” cioè per malnutrizione. In appello, la sentenza verrà ribaltata, arrivando nell’ottobre 2014 all’assoluzione di tutti gli imputati. A marzo del 2015, il caso viene esaminato dalla Cassazione che nel dicembre dello stesso anno, annulla l'assoluzione dei cinque medici disponendo un appello-bis per omicidio colposo, mentre vengono definitivamente assolti gli altri protagonisti della vicenda finiti sotto procedimento. Alla fine dell’appello- bis a luglio 2016, viene confermata l’assoluzione per i cinque medici. Su richiesta dei familiari, viene avviata un’inchiesta-bis nel settembre 2016 da parte della Procura della Repubblica di Roma e il 17 gennaio 2017, alla conclusione delle indagini preliminari, viene chiesto il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di tre militari dell’arma dei carabinieri, uno dei quali in concerto con altri due dovrà rispondere anche di calunnia e falso.

Otto anni dopo, resta da accertare chi siano i responsabili della morte di Stefano Cucchi, ma l’impatto mediato che tale vicenda ha avuto sull’opinione pubblica italiana, grazie all’attivismo della sorella di Cucchi, è stata notevole319.

318 Stefano Cucchi, l’arresto, la morte e le assoluzioni: sette anni per arrivare all’accusa di

omicidio preterintenzionale, in www.ilfattoquotidiano.it, 17 gennaio 2017.

319 Si veda il documentario a sfondo biografico e sociale di Maurizio Cartolano, 148 Stefano

mostri dell’inerzia, 2011, sponsorizzato dalle associazioni Amnesty international e Articolo 21,

liberi di..; Malapolizia, 2011, un saggio inchiesta di Adriano Chiarelli; Quando hanno aperto la

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5.3 La condanna della Corte europea per i fatti del G8 di

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